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ALTALEX NEWS


martedì 10 aprile 2012

Vittima di reato violento e intenzionale: lo Stato deve risarcire

Con la sentenza 23 gennaio 2012, n. 106 la Corte d’Appello di Torino, sez. III
civile conferma, seppur riducendone l’entità, la condanna per la Presidenza del
Consiglio dei Ministri a € 50.000,00 di indennizzo per le gravissime
conseguenze di ordine morale e psicologico subite da una donna violentata a
Torino da due romeni. Rimessi in libertà, i due colpevoli si sono resi latitanti
rendendo inutile il possibile processo civile.
Da qui la richiesta di risarcimento della donna nei confronti dello Stato reo
di non aver dato adempimento alla Direttive comunitaria 2004/80. La
responsabilità dello Stato è stata riconosciuta in quanto inadempiente nella
ricezione della direttiva comunitaria 2004/80 CE, in base alla quale ogni
vittima di reato violento e intenzionale ha diritto ad un equo indennizzo.
Nell’alveo di tale decisione devono essere ricondotti già i pronunciamenti in
passato della Suprema Corte che ha avuto modo di definire la responsabilità
dello Stato italiano per omessa o tardiva trasposizione delle direttive
comunitarie non auto esecutive come responsabilità di natura indennitaria per
attività non antigiuridica, che dà luogo al relativo risarcimento, avente natura
di credito di valore, che va determinato in modo da assicurare al danneggiato
un’idonea compensazione della perdita subita.
Nel caso affrontato la perdita subita dalla donna– riassume la Corte
territoriale – è consistita nel non ricevere alcun indennizzo per la violenza
sessuale subita, per non avere la Repubblica Italiana previsto tale reato,
intenzionale e violento, tra quello che avrebbero dovuto consentirle un equo e
adeguato indennizzo. A nulla vale il fatto che nel nostro ordinamento siano
previsti dei sistemi di indennizzo per le vittime di usura, mafia, terrorismo o
stragi, non potendo considerare tale elenco esaustivo di tutti i reati
intenzionali violenti.
Secondo i giudici di Torino – si legge nella sentenza – è certamente
apprezzabile che il nostro Stato abbia tutelato e tuteli le vittime del disastro
aereo di Ustica, o le vittime di usura o dei reati di tipo mafioso, ma ciò non
significa che abbia adempiuto all’obbligo comunitario di dotarsi di un sistema
di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti
commessi nel suo territorio.
Lo Stato italiano, nella sua discrezionalità, in attuazione della Direttiva
richiamata, avrebbe potuto stabilire condizioni e presupposti ed eventualmente
limiti pecuniari al ristoro del danno. Potevano essere previste, altresì, forme
di indennizzo anche diverse dal pagamento di una somma di denaro, purché eque e
adeguate. Così non è stato e pertanto il mancato recepimento delle direttive
comunitarie self executing costringe lo Stato al risarcimento Il mancato
recepimento delle direttive comunitarie self executing costringe lo Stato al
risarcimento danni la cui liquidazione non può che essere fatta in via
equitativa ex art. 2056-1226 cc.
Da qui la conferma della condanna dello Stato, seppur in maniera ridotta
rispetto alla previsione del giudice di prime cure.
(Altalex, 7 marzo 2012. Nota di Alessandro
Ferretti
) da http://www.altalex.com/index.php?idnot=56100
la sentenza:
Corte d’Appello di TorinoSezione III CivileSentenza 23 gennaio 2012, n. 106 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE D’APPELLO DI TORINOSEZIONE TERZA CIVILERIUNITA IN CAMERA DI CONSIGLIO NELLE PERSONE DEI SIGNORI MAGISTRATI:Dott. PAOLO PRAT PRESIDENTE REL.Dott. RENATA SILVA CONSIGLIEREDott. ENRICO DELLA FINA CONSIGLIEREha pronunciato la seguenteSENTENZAnel procedimento civile iscritto al n. 1467 /10 R.G. – promosso da: PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dalla Avvocatura dello Stato di Torino, domiciliataria in corso Stati Uniti 45APPELLANTEcontro___________________________ , rappresentata e difesa perprocura a margine della citazione di primo grado tanto congiuntamente ) quanto disgiuntamente dall’Avv. Marco Bona e dall’Avv. Stefano Commodo, con elezione di domicilio presso lo studio di questi in Torino, via Bertola 2 e dall’Avv. Francesco BraccianiAPPELLATAcon l’intervento di PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA IN TORINOoggetto: inadempimento di direttiva europea-risarcimento di danniCONCLUSIONIper l’appellante: In via preliminare, accertarsi e dichiararsi la nullità della sentenza n. 3145 del 3-26 maggio 2010 del tribunale di Torino -Sezione Quarta Civile (dott.ssa Dotta).In via subordinata, nel merito, in totale riforma dell’impugnata sentenza, rigettarsi l’originaria domanda ex adverso formulata perché infondata. Con vittoria di spese.Per l’appellante:Piaccia all’Ecc.ma Corte d’Appello di Torino,Contrariis reiectis;Previo ogni incombente di legge; Previa ogni opportuna declaratoria in fatto e in diritto;Respinta ogni contraria istanza, eccezione e deduzione;IN VIA PRELIMINAREDichiarare l’inammissibilità e/o improcedibilità del motivo di appello “3″ proposto dalla appellante alle pagg. 18-19 dell’atto di citazione di appello per la sua assoluta genericità;NEL MERITO“Respingere l’appello proposto dall’appellante Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del suo rappresentante pro tempore, conseguentemente confermando la sentenza n. 3145/2010, emessa dal Tribunale di Torino, Sez. IV (Giudice Unico Dott.ssa Dotta), in data 3 maggio 2010 e depositata in data 26 maggio 2010, ex adverso impugnata;“In ogni caso con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa di tutti i gradi di giudizio, oltre 12,50% per spese generali, IVA e CPA ex lege, nonché successive occorrende.Per l’intervenuta PROCURA GENERALE:“Respingere l’appello.“In subordine, disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sollecitando il rito d’urgenza previsto dall’art. 104 ter del Regolamento di procedura della Corte.PREMESSA IN FATTOCon sentenza31.3.2008 il Tribunale di Torino dichiarava Dumitru Olenici e Constantin Hritcan responsabili di violenza privata e sequestro di persona nei confronti di ……….. e di aver costretto la … a compiere e a subire ripetutamente atti sessuali, in Torino e altrove, nella notte del 16.10.2005, dalle 4,15 circa alle 10 circa. Riuniti tali reati in continuazione, il Tribunale condannava gli imputati alla pena di 14 anni di reclusione ciascuno e al risarcimento del danno in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio, assegnando una provvisionale immediatamente esecutiva di € 50.000,00. Sull’appello degli imputati, la Corte di Appello di Torino, con sentenza 18.5.2009, escluse le aggravanti di cui agli artt. 609 ter, comma 4 e 61 n. 3 c.p., rideterminava per ciascuno degli imputati la pena in 10 anni e 6 mesi di reclusione, confermando nel resto.SVOLGIMENTO DEL PROCESSOCon citazione notificata il 9.2.2009 conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Torino la Presidenza del Consiglio dei ministri, chiedendo dichiararsene la responsabilità civile ” per la mancata e/o non corretta de non integrale attuazione….della Direttiva 2004/80 CE e, più nello specifico, della norma ivi contenuta che dal 1° luglio 2005 impone agli Stati membri dell’Unione Europea di garantire “adeguato” ed “equo” ristoro alle vittime d reati violenti ed intenzionali impossibilitate a conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi”; chiedendo inoltre condannarsi la parte convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da lei “subiti e patendi”.Nell’ampio atto introduttivo l’attrice, in sintesi, assumeva che lo State Italiano, nonostante gli inviti e la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea avanti la Corte di Giustizia CE nel gennaio 2007, conclusasi con la condanna dell’Italia con sentenza 29.11.2007, non aveva ancora attuato la tutela risarcitoria che il legislatore comunitario aveva imposto agli Stati membri con decorrenza dal 1.7.2005 a favore delle vittime di reati intenzionali violenti.Sosteneva di rientrare in tale categoria per essere stata nell’ottobre del 2005 sequestrata e violentata dai due imputati romeni, condannati con sentenza 31.3.2008 del Tribunale di Torino.Assumeva che la condotta inadempiente dello Stato era tanto più grave in quanto esso era già inottemperante rispetto alla Convenzione Europea sul risarcimento delle vittime di crimini violenti del Consiglio d’Europa del 1983, non ratificata dall’Italia.Osservava che essa era priva di qualsiasi chance di ottenere un risarcimento dai due imputati, di origine rumena, che peraltro si erano resi latitanti nel processo, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari. Esponeva quali danni avesse subito a seguito dei reati di cui era stata vittima, indicando l’ammontare del risarcimento in € 100.000,000 e, in subordine, nella misura corrispondente alla provvisionale quantificata dal Tribunale di Torino.Produceva numerosissimi documenti e deduceva prove per interrogatorio e testi.La Presidenza del Consiglio dei ministri si costituiva e chiedeva la reiezione della domanda, svolgendo difese che possono essere così riassunte. La ratio ispiratrice della ricordata Direttiva era quella di facilitare l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere, nell’ottica di una completa attuazione del principio di libera circolazione delle persone, per impedire che la residenza in uno Stato membro diverso da quello in cui si era consumato il reato potesse impedire alla vittima di accedere all’indennizzo previsto dall’ordinamento del luogo ove il reato era stato consumato.L’art. 12, paragrafo 2 della Direttiva non effettuava una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, né forniva criteri atti a determinare la misura equa della somma da riconoscere alla vittima, limitandosi ad esporre il criterio della intenzionalità e della natura violenta del crimine.Rientrava pertanto nella esclusiva competenza del legislatore italiano determinare quali fattispecie di reato potessero comportare indennizzo. L’Italia già considerava una serie di ipotesi in cui lo Stato era tenuto alla corresponsione di un indennizzo. Esse venivano elencate, a cominciare dalla legge n. 302/90 per le vittime del terrorismo fino alla legge n. 512/99 relativa al fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso.Solo in tali limiti la vittima di un reato violento ed intenzionale poteva rivolgersi allo Stato Italiano, ove non fosse riuscita ad ottenere il ristoro dei danni da parte dell’autore del reato.La pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee resa nella causa C-112/07 (Commissione delle Comunità Europee contro Repubblica Italiana) non poteva essere assunta ad indice dell’asserito perdurante inadempimento da parte della Repubblica Italiana, in quanto essa non aveva potuto tener conto dell’entrata in vigore-pochi giorni prima della sua pronuncia-dei D. Igs. n. 204/07,con il quale il nostro ordinamento aveva dato ingresso al suo interno alle norme di matrice comunitaria di cui alla Direttiva in questione.Infine venivano svolte osservazioni sul quantum della domanda avversaria. Il Giudice istruttore assegnava i termini di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c, dopo che parte attrice aveva depositato istanza ex art. 234 del trattato della Comunità Europea per la proposizione di domanda di pronuncia pregiudiziale sulla questione se l’art. 12, par. 2 della Direttiva 2004/80/CE fosse da interpretarsi nel senso di imporre a tutti gli Stati membri di provvedere affinché le loro normative nazionali prevedessero l’esistenza di un sistema di risarcimento anche a favore delle vittime di violenze sessuali, commesse nei rispettivi territori, che garantisse a queste un risarcimento equo ed adeguato.Con ordinanza 4.12.2009 il Giudice istruttore,ritenuto opportuno rimettere la causa a decisione, fissava udienza di precisazione delle conclusioni al 22.12.2009.Con sentenza 3.5.2010 (depositata in cancelleria in data non leggibile nella copia prodotta dalla parte appellante, ma la formula esecutiva reca la data 27.5.2010), il Tribunale:-accertato l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per mancata attuazione della direttiva 2004/80/CE;- condannava la predetta Presidenza al pagamento a favore di ……… della somma di € 90.000.00, oltre interessi di legge dalla data della sentenza al saldo;- condannava la Presidenza alla rifusione delle spese legali.La sentenza, in sintesi, era così motivata. I penosi fatti di causa non erano contestati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come non era contestato che gli autori del reato fossero latitanti e che pertanto non fosse possibile per l’attrice ottenere da essi il ristoro dei danni subiti.In astratto l’azione dell’attrice era ammissibile e in proposito si richiamava la sentenza della Cassazione a Sezioni unite del 17.4.2009 n. 9147 sulla risarcibilità del danno conseguente alla omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non autoesecutive.Occorreva quindi accertare se lo Stato italiano fosse responsabile per non aver dato attuazione in modo completo alla direttiva comunitaria 2004/80 e cioè per non aver previsto un sistema risarcitorio ovvero di indennizzo per tutti i reati violenti intenzionali e in particolare per quelli di violenza sessuale.Veniva in particolare esaminato il capo II della direttiva, che regolamenta i sistemi di indennizzo nazionale con l’art. 12: “Orbene appare evidente che il secondo comma (tenuto anche conto del tenore letterale dei considerando n. 6 e 7) sancisce l’obbligo per gli Stati membri di istituire a favore delle vittime di reati intenzionali violenti un meccanismo di compensation tale da…”.Con riguardo all’Italia pareva evidente che il nostro Stato non si fosse adeguato alla predetta normativa nei termini assegnati. Con sentenza 29.11.2007 la Corte di Giustizia CE aveva riscontrato che l’Italia non aveva adottato nel termine prescritto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva in questione.Né la situazione appariva mutata dopo il D. Lgs. n. 204 del 2007,che aveva disciplinato solo gli aspetti formali della procedura sul presupposto che fossero già altrimenti individuati i reati intenzionali e violenti cui ricollegare il sistema di indennizzo.Non poteva in particolare essere condiviso l’assunto della parte convenuta secondo cui rientrava nel potere discrezionale dei singoli Stati selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato ai fini indennitari, poiché l’art. 12 non consentiva tale discrezionalità, laddove prescriveva che tutti gli Stati membri dovevano predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisse un indennizzo equo ed adeguato alle vittime. Sotto questo profilo permaneva pertanto l’inadempimento dello Stato italiano a dare attuazione alla direttiva. Nessuna norma di diritto interno riconosceva infatti il diritto al risarcimento per reati intenzionali violenti diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della direttiva, disattendendo il chiaro disposto dell’art. 12 di essa. Tenuto conto dei principi della Suprema Corte in materia di inadempimento dello Stato all’attuazione delle direttive comunitarie, scaturiva l’obbligo dello Stato di adeguarsi alla medesima e nel caso in esame di risarcire il danno subito da …….. sussistendo sia il requisito del reato violento intenzionale, sia quello dell’impossibilità di poterne ottenere il ristoro dagli autori del reato.Atteso il chiaro tenore letterale della norma, che non pareva lasciare spazio all’interpretazione più restrittiva fatta propria dallo Stato italiano, non vi erano ragioni giuridiche per rimettere la questione interpretativa alla Corte di Giustizia.L’ultima parte della sentenza era dedicata alla quantificazione del danno.Contro tale sentenza proponeva appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con atto notificato il 6.7.2010, chiedendo: in via preliminare, accertarsi e dichiararsi la nullità della sentenza; in subordine, nel merito, in totale riforma della sentenza, rigettarsi l’originaria domanda perché infondata. A sostegno dell’impugnazione deduceva i motivi che verranno esaminati.………… si costituiva, chiedendo accogliersi le conclusioni riportate in epigrafe.Interveniva la Procura Generale della Repubblica, chiedendo respingersi l’appello e in subordine disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.Nell’udienza del 27.5.2011 le parti precisavano le conclusioni richiamando quelle assunte nei rispettivi atti introduttivi e la Corte rimetteva la causa a decisione assegnando termine di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali e di 20 per il deposito delle memorie di replica; tutte le parti chiedevano la discussioni orale, che veniva poi fissata dal presidente per l’udienza del 30.11.2011. In sede di discussione l’Avvocatura dello Stato ha chiesto la cancellazione di frasi ritenute offensive contenute nella memoria di replicai Il rappresentante della Procura Generale ha chiesto disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sollecitando il rito d’urgenza previsto dall’art. 104 ter del Regolamento di procedura della Corte.MOTIVI DELLA DECISIONECon il primo motivo di appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in via preliminare, eccepisce la nullità della sentenza per omessa od insufficiente motivazione.La parte appellante sostiene tale nullità per mancanza di motivazione su un punto essenziale della controversia, cioè quello in cui il Giudice di prime cure ha dato conto dell’asserito inadempimento della Direttiva 2004/08/CE da parte del legislatore nazionale.Richiama le pagine 8 e 9 della decisione impugnata e in particolare osserva che il periodo finale di pag. 8: “Orbene appare evidente che il secondo comma (tenuto conto anche del tenore letterale dei considerando n. 6 e 7) sancisce l’obbligo per gli Stati membri di istituire a favore delle vittime di reati intenzionali violenti un meccanismo di compensation tale da”, non è concluso all’inizio della pagina successiva. Ne trae la conclusione che, a causa di tale omissione, la decisione è affetta da insanabile mancanza di motivazione, perché non è dato di comprendere quale sia, nell’interpretazione del primo Giudicante, la portata dell’obbligo di cui al paragrafo 2 dell’art. 12 della Direttiva, in assenza dell’indicazione del termine di paragone rispetto al quale commisurare la “condotta” del legislatore italiano, con la conseguenza che l’intero sillogismo giudiziale contenuto nella decisione ne risulta irrimediabilmente viziato. La Corte ritiene tale motivo di appello infondato.Effettivamente la frase citata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri non è conclusa, verosimilmente per un difetto nell’uso del computer con cui la sentenza è scritta.L’esame però della motivazione nel suo complesso (in particolare le pagine 9 e 10) chiarisce sufficientemente il ragionamento del Tribunale. Il primo Giudice osserva che il nostro Stato non si è adeguato alla predetta normativa nei termini assegnati dopo l’entrata in vigore della Direttiva e il richiamo è evidentemente ai due paragrafi dell’art. 12 citato a pag. 8. Richiama poi la sentenza 29.11.2007 della Corte di Giustizia CE e osserva che la situazione non appare mutata dopo il decreto legislativo n. 204/2007, che ha disciplinato solo gli aspetti formali della procedura sul presupposto che fossero già altrimenti individuati (alcuni e non tutti) i reati intenzionali e violenti cui ricollegare il sistema di indennizzo. Osserva che gli obblighi dello Stato non possono dirsi esauriti con previsioni legislative anteriori all’entrata in vigore della Direttiva, aventi ad oggetto indennizzi per le vittime di atti di terrorismo e di criminalità organizzata, di reati estorsivi e di usura, poiché pur in presenza di tali previsioni la Corte di Giustizia già aveva ravvisato l’inadempimento dello Stato italiano.Ritiene non condivisibile l’assunto secondo cui rientra nei poteri discrezionali dei singoli Stati nazionali selezionare le tipologie di reati violenti e di circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato ai fini indennitari, poiché l’art. 12 non consente agli Stati tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime.La conclusione è che permane pertanto l’inadempimento dello Stato italiano nel dare attuazione alla Direttiva e che nessuna norma di diritto interno riconosce infatti il diritto al risarcimento per reati intenzionali diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della Direttiva, disattendendo il chiaro disposto dell’art. 12 della Direttiva,, stessa la quale non pare attribuire agli Stati nazionali il potere di scegliere i singoli reati intenzionali violenti che possono formare oggetto di risarcimento, ma anzi impone loro di prevedere un meccanismo indennitario per tutti i reati di quel genere e dunque anche per i reati di violenza sessuale.Dal complesso di tali argomentazioni risulta sufficientemente chiaro -a giudizio della Corte -in particolare che vi è stato inadempimento dell’Italia al disposto del par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di prevedere un meccanismo indennitario non solo per alcuni reati violenti intenzionali, ma per tutti tali reati, compresi quelli di violenza sessuale.Con il secondo motivo , relativo all’asserito inadempimento da parte dello Stato italiano della Direttiva in questione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri critica la sentenza impugnata con osservazioni e argomentazioni che possono essere così riassunte.La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, a partire dalla celebre sentenza Francovich del 19.11.1991, ha chiarito che i presupposti indispensabili affinché possa configurarsi, in capo ad uno Stato membro, la responsabilità civile per il mancato recepimento, nei termini stabiliti, delle direttive comunitarie non self executing sono:-che la Direttiva non recepita attribuisca in via diretta ai singoli un diritto;-che vi sia un nesso causale tra il mancato recepimento ed il danno lamentato dal singolo interessato.Entrambe tali condizioni difettano nel caso di specie.E’ assai utile in proposito la lettura dei ed. “considerando” di cui al preambolo della Direttiva in questione, in particolare i numeri 1), 7), 12) e 14). Da essi può inferirsi che la ratio ispiratrice dell’intera Direttiva sia quella di facilitare, nell’ambito dei sistemi predisposti da ogni Stato membro, l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere, nell’ottica dell’attuazione del principio di libera circolazione delle persone (di cui la garanzia dell’integrità personale in ogni Stato membro rappresenta un importante corollario). Gli artt. 1-11 della Direttiva hanno pertanto previsto un meccanismo procedurale assai semplificato, diretto a consentire alla vittima del reato di rivolgersi all’Autorità dello Stato membro in cui si è consumato il reato, superando barriere linguistiche, burocratiche e di ogni altro genere. Occorre inoltre considerare che il diritto comunitario non disciplina le cosiddette “situazioni meramente interne”, come è confermato dal par. 1 dell’art. 12.L’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere è riconosciuto entro i limiti in cui i singoli ordinamenti (i “sistemi degli Stati membri”) riconoscono tale diritto ai propri cittadini.La tesi appena sostenuta -ovvero la necessaria riferibilità della Direttiva alle sole situazioni transfrontaliere -è confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (sent. n. 467 del 28.6.2007).Alla luce della predetta ratio dovrà essere esaminato anche quanto previsto nel par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, tenendo conto di quanto disposto nel già esaminato par. 1: nel senso che l’art. 12, mentre nel par. 1 rimanda ai sistemi di indennizzo già previsti dai singoli Stati membri, nel par. 2 prescrive agli altri Stati membri-che ne siano sprovvisti, di predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori. In altri termini, il par. 2 non si applica agli Stati membri (come l’Italia) che, all’entrata in vigore della Direttiva, si fossero già dotati di un tale sistema di indennizzo, né è possibile ritenere che il legislatore europeo abbia voluto imporre a tutti gli Stati membri (e quindi anche a quelli, come l’Italia, i cui ordinamenti già prevedevano un adeguato sistema di indennizzo delle vittime) di introdurre, con legge, una ulteriore ipotesi di indennizzo in favore delle vittime del reato di violenza sessuale. Inoltre la citata norma non effettua affatto una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, ne fornisce criteri atti a determinare la misura equa della somma da riconoscere alle vittime, limitandosi ad enumerare il duplice criterio della intenzionalità e della natura violenta del crimine. Il legislatore comunitario ha inteso demandare ai singoli ordinamenti l’individuazione delle fattispecie indennizzabili e dei parametri in base ai quali determinare il quantum dell’indennizzo.La norma comunitaria cui fa riferimento il Giudice di prime cure non è quindi di diretta applicabilità, ma necessita, al contrario, della intermediazione della Autorità pubblica statale.E’ necessario pertanto riferirsi alle norme che, nell’ordinamento italiano , prevedono l’indennizzo delle vittime di reati a carattere violento ed intenzionale, dalla legge n. 302 del 1990 e successive modificazioni, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, alla legge n. 512 del 1999 istitutiva del cosiddetto fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso. Sarà dunque nei limiti di tali norme che la vittima di un reato violento ed intenzionale potrà rivolgersi allo Stato laddove non sia riuscita ad ottenere il ristoro dei danni da parte dell’autore del reato. La conformità del nostro ordinamento rispetto agli obblighi comunitari è confermata anche dalla comparazione con gli ordinamenti degli altri Paesi europei(vengono citati gli ordinamenti greco, spagnolo, olandese, austriaco, francese, tedesco). Ciascuno Stato membro ha modulato in via autonoma l’accesso all’indennizzo di cui alla direttiva, a conferma del carattere ampiamente discrezionale dell’attività rimessa a ciascun ordinamento dal legislatore soprannazionale. L’Italia ha ritenuto di circoscrivere la gamma dei reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato a fini indennitari alle sole ipotesi normative indicate, che rappresentano le fattispecie delittuose più gravi del sistema penalistico interno.La pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella causa C-112/07 (Commissione delle Comunità Europee contro Repubblica Italiana) non può essere assunta ad indice dell’asserito perdurante inadempimento da parte della Repubblica Italiana, perché non ha potuto tener conto dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 204/07, con il quale è stato dato ingresso alle norme di matrice comunitaria di cui alla Direttiva.Inoltre la Commissione Europea ha contestato all’Italia esclusivamente il mancato adempimento di quanto stabilito nel par. 1 dell’art. 12 e non di quanto stabilito nel par. 2 dello stesso articolo e ciò perché il nostro Stato era già munito di un articolato sistema di indennizzo per varie categorie di reati intenzionali e violenti.Il Tribunale, infine, ha errato là dove ha ritenuto sussistente il presupposto dell’impossibilità di conseguire il risarcimento direttamente dagli autori della fattispecie di reato: infatti la ……….. ha solo rappresentato le eventuali difficoltà che potrebbe incontrare nel caso in cui decidesse di instaurare una causa civile nei confronti degli autori dell’odioso crimine di cui è rimasta vittima, ma tale rappresentazione non può ritenersi sufficiente, richiedendo la Direttiva l’impossibilità attuale di ottenere un ristoro patrimoniale da parte dei soggetti attivi del reato, e la relativa prova non è stata data.oooooooooooooooooCiò premesso, la Corte osserva quanto segue.Significato e portata della Direttiva 2004/80/CE vanno ricercati e identificati tenendo conto, oltre che della formulazione delle singole disposizioni, del contesto in cui è stata emanata e dei fini che essa intendeva raggiungere. Si deve pertanto tenere conto accuratamente dei vari “considerando”che precedono il testo normativo. In particolare, nel “considerando” n. 6) è detto: “Le vittime di reato nell’Unione europea dovrebbero avere il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite, indipendentemente dal luogo della Comunità europea in cui il reato è stato commesso”. Nel n. 7) è detto: “La presente direttiva stabilisce un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, che dovrebbe operare sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori. Dovrebbe pertanto essere istituito in tutti gli Stati membri un meccanismo di indennizzo”.Nel n. 8 ) si ricorda che “La maggior parte degli Stati membri ha già istituito questi sistemi di indennizzo, alcuni di essi in adempimento dei loro obblighi derivanti dalla convenzione europea del 24 novembre 1983 sul risarcimento alle vittime di atti di violenza”.Si dice poi (“considerando” n. 10) che in molti casi le vittime di reato non possono ottenere un risarcimento dall’autore di esso e che dovrebbe pertanto essere introdotto un sistema di cooperazione tra le autorità degli Stati membri per facilitare l’accesso all’indennizzo nei casi in cui il reato sia stato commesso in uno stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede (n. 11).La Direttiva consta di tre capi. Il primo è intitolato “Accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere”; il secondo “Sistemi di indennizzo nazionali”;il terzo “Disposizioni di attuazione”.Il capo I consta di undici articoli e regola la collaborazione tra gli Stati membri per gli indennizzi alle vittime nelle situazioni transfrontaliere. Tali situazioni sono quelle (art. 1) in cui un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui il richiedente l’indennizzo risiede abitualmente.il capo II consta del solo articolo 12 comprendente due paragrafi:“1. Le disposizioni della presente direttiva riguardanti l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori.2. Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime”.La Corte condivide ciò che espone la Difesa della Presidenza del Consiglio dei ministri nell’appello, cioè che la ratio ispiratrice della Direttiva è quella di facilitare, nell’ambito dei sistemi predisposti da ogni Stato membro, l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere. A tal fine sono regolate le modalità di collaborazione tra gli Stati membri.Tali forme di collaborazione presuppongono però che tutti gli Stati membri siano dotati di normative nazionali che prevedano l’esistenza un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali viole commessi nei rispettivi territori, ed è appunto ciò che impone il par. dell’art. 12: altrimenti il sistema nel suo complesso non può funzionare Ciò era ben presente al legislatore comunitario, che lo ricordava r considerando n. 8), precisando che la maggior parte degli Stati membri aveva già istituito sistemi di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti: la maggior parte e quindi non tutti.Ecco allora perché l’art. 12, par. 2, dispone che tutti gli Stati membri provvedano a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti come nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguò delle vittime.Come si è visto, la Difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene che il par. 2 non si applica agli Stati membri che, come l’Italia all’entrata in vigore della Direttiva erano già dotati di tale sistema indennizzo e che non è possibile ritenere che il legislatore europeo abbia voluto imporre a tutti gli Stati membri (e quindi anche all’Italia) introdurre con legge un’ulteriore ipotesi di indennizzo a favore de vittime di reato di violenza sessuale.Tale tesi difensiva, pur brillantemente esposta e argomentata, a giudizio della Corte non è condivisibile.Il legislatore comunitario richiede che ogni Stato membro sia dotato un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca(…).L’indennizzo deve riguardare le vittime di tutti i reati intenzionali violenti, non le vittime dia alcuni di tali reati.E’ certamente apprezzabile che il nostro Stato abbia tutelato e tuteli le vittime del disastro aereo di Ustica, o le vittime di usura o dei reati di tipo mafioso(per fare alcuni esempi tra quelli riportati dall’appellante a pag. 14 dell’atto di impugnazione), ma ciò non significa che abbia adempiuto all’obbligo comunitario di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti (lo si ripete) i reati intenzionali violenti commessi nel suo territorio.E quindi anche, per quanto qui particolarmente interessa, delle vittime di reati di violenza sessuale.Che la violenza sessuale rientri nella categoria dei reati intenzionali violenti non può essere messo in dubbio. Si può discutere se certi reati possano essere qualificati intenzionali violenti, ma non che lo sia la violenza sessuale o, per fare un’altra ipotesi, l’omicidio volontario. Ora è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente alla disposizione del ricordato par. 2 dell’art. 12.La Corte non condivide neppure l’affermazione dell’appellante che la norma citata non sia di diretta applicabilità, poiché non effettua una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, ma necessita di intermediazione dell’Autorità pubblica statale.La norma impone ai singoli Stati membri -Io si ribadisce- di provvedere a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti; non lascia discrezionalità sulla portata dell’obbligo. Come si è già detto, si potrà discutere se un certo reato sia intenzionale violento o meno, ma non che non rientri in tale categoria la violenza sessuale. La discrezionalità dei singoli Stati potrà attuarsi nello stabilire la misura equa ed adeguata di un indennizzo per tale reato, come per gli altri reati intenzionali violenti. Non giova all’appellante il richiamo alla sentenza 29.11.2007 in causa C-112/07 della Corte di giustizia CE, perché essa ha stabilito che: “Non avendo adottato, entro il termine prescritto, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/80/CE, relativa all’indennizzo delle vittime di reato, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tale direttiva”.Nella motivazione si legge che nel suo controricorso la Repubblica italiana non contesta la fondatezza del ricorso proposto dalla Commissione: “Essa osserva tuttavia che determinate leggi già vigenti nell’ordinamento giuridico italiana prevedono l’indennizzo delle vittime di atti di terrorismo e della criminalità organizzata nonché delle vittime di reati estorsivi e di usura. Peraltro, tale Stato membro fa valere che l’iter legislativo diretto ad assicurare il recepimento integrale della direttiva nel suo ordinamento giuridico è in via di conclusione”. Si legge ancora, nella motivazione che “Nel caso di specie, è pacifico che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, tutti i provvedimenti necessari per procedere all’attuazione della direttiva nell’ordinamento giuridico nazionale non erano stati adottati dalla Repubblica italiana”.In realtà, il decreto legislativo 6.11.2007 n. 204, intitolato “Attuazione della direttiva 2044/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato”, non ha dato completa attuazione alla Direttiva stessa, poiché si è limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato. “Allorché nel territorio di uno Stato membro dell’unione europea sia stato commesso un reato che dà titolo a forme di indennizzo previste in quel medesimo Stato e il richiedente l’indennizzo sia stabilmente residente in Italia (…)” – art. 1, ma non ha dato attuazione al disposto dell’art. 12, par. 2 della Direttiva, che imponeva agli Stati membri, come si è più volte ricordato, di provvedere a che le loro normative prevedessero l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori(entro il 1° luglio 2005, ex art. 18 della Direttiva). Non giova neppure all’appellante il richiamo alla sentenza n. 467 del 28.6.2007 della Corte di Giustizia CE. Certamente la Direttiva ha inteso istituire un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere e assicurare che, se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede abitualmente, quest’ultima sia indennizzata da tale primo Stato. Ma, come si ribadisce, perché la Direttiva abbia completa attuazione occorre che tutti gli Stati membri abbiano previsto nel loro ordinamento un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti, di tutti i reati di tale genere, non solo di alcuni, come invece ha fatto l’Italia, non considerando -per quanto qui particolarmente interessa- il reato di violenza sessuale. E’ opportuna un’ultima considerazione, in relazione a quanto esposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nella comparsa conclusionale a pag. 9-11, con riferimento anche ad un contributo dottrinario. L’Avvocatura dello Stato ripercorre le vicende che hanno portato all’adozione della direttiva, muovendo dalla analisi di proposta di direttiva presentata dalla Commissione il 16.12.2002. Osserva che l’iniziale articolato prevedeva la fissazione di norme minime per il risarcimento delle vittime, definiva le nozioni di vittima, di reato intenzionale e di lesioni personali e individuava i principi relativi all’importo del risarcimento. Rileva che dal confronto tra il testo della proposta e quello della Direttiva poi approvata emerge chiaramente come l’obiettivo iniziale sia stato abbandonato, a causa sia dell’impossibilità di raggiungere un compromesso politico proprio sulla introduzione di norme cosiddette minime, sia della difficoltà di individuare un’adeguata base giuridica del trattato, che permettesse tale “invasione” delle competenze nazionali da parte del diritto comunitario. Conclude nel senso che, ritenere che tale sistema di norme ed. minime sia stato comunque creato in forza del par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, significherebbe vanificare il lavoro di mediazione che ha portato alla elaborazione del testo definitivo, facendo rivivere le parti della Direttiva che gli Stati membri non hanno voluto accettare. La Corte non condivide tale conclusione. Il fatto che gli Stati membri non siano stati in grado di raggiungere un accordo nel senso sopra indicato non fa venir meno il chiaro significato precettivo dell’art. 12, par. 2. La norma citata esiste e va applicata. Applicandola doverosamente, l’Italia avrebbe dovuto prevedere nel proprio ordinamento, fra l’altro, che un reato certamente intenzionale violento come la violenza sessuale commesso nel suo territorio prevedesse la possibilità di indennizzo a favore di chi ne fosse rimasto vittima.Accertato dunque l’inadempimento dell’Italia a quanto disposto dall’art. 12, par. 2 della Direttiva non resta che trarne le conseguenze, come ha fatto il primo Giudice, che ha richiamato la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 17.4.2009 n. 9147: “ln caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie(…) non autoesecutive, sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto(…)allo schema della responsabilità per inadempimento della obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita(…)”.Tali principi sono stati ribaditi dalla Suprema Corte con la sentenza 17.5.2011 n. 10813.Spettava, e spetta, dunque a___________ , cittadina rumena residente in Italia, il risarcimento del danno patito per la violenza sessuale di cui è rimasta vittima, in conseguenza dell’inadempimento dello Stato italiano alla Direttiva comunitaria del 2004.Occorre ora esaminare l’ultima parte del secondo motivo di appello, con cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene che la sentenza del Tribunale ha errato là dove ha ritenuto esistente il presupposto dell’impossibilità per la ……… di conseguire il risarcimento direttamente dagli autori del reato.Sul punto il Tribunale (pag. 6 della sentenza) ha osservato che non è in contestazione il fatto che gli autori del reato siano latitanti e che pertanto non sia possibile per l’attrice ottenere dai medesimi il ristoro dei danni subiti e che quindi è pienamente realizzata la condizione posta dalla Direttiva (di cui al “considerando” n. 10 per l’operatività del sistema risarcitorio), ovvero che la vittima non possa ottenere il risarcimento dall’autore del reato in quanto questi non possiede le risorse necessarie per ottemperare ad una condanna al risarcimento dei danni oppure può non essere identificato o perseguito.La Corte non ha dubbi nel senso che …….. non possa ottenere dai due autori dei reati un adeguato risarcimento del danno, anzi un qualsiasi anche parziale risarcimento.A tale fine essa ha fatto quanto poteva nei giudizi di merito davanti al Tribunale e alla Corte di Appello di Torino, con la costituzione di parte civile (la sentenza di appello è stata confermata in Cassazione, come esposto nella discussione dalla Difesa senza contestazione da parte della Difesa erariale). I due imputati si sono resi latitanti nel giudizio di primo grado e tali sono rimasti nel giudizio di appello; non risulta che abbiano mai espresso qualche forma di pentimento e offerto un benché minimo risarcimento; non si vede che utilità pratica potrebbe avere una causa civile proposta dalla ……………….. contro di essi per ottenere un risarcimento.Con il terzo motivo l’appellante osserva che il Giudice di prime cure ha confuso il concetto di risarcimento con quello di indennizzo, ritenendo che la domanda di indennizzo possa essere intesa come una domanda di ristoro integrale dei danni subiti; che la ratio della normativa nazionale e comunitaria in tema di indennizzo delle vittime di reati violenti non può essere certamente quella di sostituire o aggiungere lo Stato all’autore del delitto nella responsabilità verso le vittime; che l’obbligo che la Direttiva pone agli Stati è invero solo quello di predisporre un indennizzo equo ed adeguato; che i criteri di liquidazione di tale indennizzo dovrebbero essere pertanto del tutto autonomi rispetto ai parametri di liquidazione del risarcimento ordinario dovuto dai responsabili del fatto di reato; che pertanto la liquidazione fatta dal Tribunale, del tutto errata ed esorbitante, andrà comunque operata ex novo e ridimensionata. La Corte osserva che il Tribunale ha fatto riferimento per la liquidazione”al risarcimento ai sensi della citata direttiva”, risarcimento che “deve essere adeguato al fine di consentire una effettiva riparazione (la direttiva parla di un indennizzo equo ed adeguato delle vittime), con criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni di diritto interno, e ispirati al principio di non discriminazione”/”ha poi considerato la gravità delle circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolti i fatti criminosi, le modalità con le quali i reati sono stati commessi, le conseguenze morali e psicologiche subite da___________ tenuto conto della giovanissima età;ha considerato anche che il sistema istitutivo prevede un’indennizzo tale da assicurare una idonea compensazione, che proviene peraltro da un soggetto che non ha responsabilità per i fatti di causa; in conclusione ha ritenuta equa una liquidazione, a titolo di danno morale, in €90.000,00, somma comprensiva degli interessi legali e della rivalutazione. La ………… ha eccepito l’inammissibilità del presente motivo di appello “per la sua assoluta genericità”. Tale eccezione non è fondata, avendo la Presidenza del Consiglio dei ministri proposto specifici motivi di critica alla decisione di primo grado.Ciò premesso, la Corte richiama la citata sentenza n. 9147/09 delle Sezioni unite della Cassazione, la cui massima è stata riportata esaminando il secondo motivo di appello.La Suprema Corte ha definito la responsabilità dello Stato italiano per omessa o tardiva trasposizione delle direttive comunitarie non autoesecutive come responsabilità di natura indennitaria per attività non antigiuridica, che dà luogo al relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, che va determinato in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita.Ora, nel caso di specie, la perdita subita da ………… è consistita nel non ricevere alcun indennizzo per la violenza sessuale subita, per non avere la Repubblica Italiana previsto tale reato, intenzionale e violento, tra quelli che avrebbero dovuto consentirle di ottenere un equo ed adeguato indennizzo.Lo Stato italiano, nella sua discrezionalità, in attuazione della Direttiva, avrebbe potuto stabilire condizioni e presuppósti ed eventualmente limiti pecuniari al ristoro del danno; o, in ipotesi, forme di indenizzo anche diverse dal pagamento di una somma di denaro, purché eque ed adeguate.Non avendolo fatto, deve indennizzare la …………… della perdita che essa ha subito, nel senso sopra indicato.Tale indennizzo, a giudizio di questa Corte, non può però essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da quanto pare essere stato deciso dal Giudice di prime cure, con il richiamo per la liquidazione “a criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni di diritto interno”.L’indennizzo -come ha ricordato la Cassazione- va determinato con i mezzi offerti dall’ordinamento interno.La liquidazione non può che essere fatta, per il danno non patrimoniale, in via equitativa, ex art. 2056-1226 ce.In proposito la Corte osserva che i fatti criminosi di cui ………. è stata vittima sono gravissimi. E’ sufficiente in proposito la lettura dei capi di imputazione a carico dei due imputati, ora condannati con sentenza passata in giudicato e in particolare del capo b) dove sono descritte le minacce e le violenze subite dalla ………. per costringerla a subire e compiere atti sessuali, ripetuti più volte. Occorre considerare che la ……….. aveva appena diciotto anni. E’ logico trarne la conclusione che la vittima abbia subito gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico, che giustificano un indennizzo di €50.000,00(già tenuto conto di rivalutazione ed interessi dal giorno del fatto) alla data della sentenza di primo grado, oltre gli interessi legali dalla data di tale sentenza.In conclusione, la sentenza impugnata va parzialmente riformata nel senso or ora indicato.Non si ravvisano validi motivi per disporre la cancellazione di alcune espressioni contenute nelle difese della ………., richiesta dalla Difesa della Presidenza del Consiglio dei Mlnistri (espressioni a pag. 25, 34 e 36 della memoria di replica). Si tratta infatti di espressioni, in qualche caso “pesanti”, ma pur sempre attinenti all’esercizio del diritto di difesa. Le spese del presente grado di giudizio vengono poste a carico della parte appellante, tenendo conto che essa è pienamente soccombente in ordine alla responsabilità per mancata attuazione della Direttiva comunitaria e che la quantificazione del danno è oggetto di valutazione discrezionale. In mancanza di nota, esse vengono liquidate come in dispositivo.PQMpronunciando definitivamente;respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione;in parziale riforma della sentenza n. 3145/10 emessa il 3.5.2010 dal Tribunale di Torino;riduce ad € 50.000,00, oltre interessi di legge dalla data della sentenza di primo grado, la somma che la Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata condannata a pagare a ……….. conferma nel resto;respinge l’istanza, proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cancellazione di espressioni contenute nelle difese, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri a rimborsare alla ………… le spese del presente grado di giudizio, che liquida in € 1.200,00 per diritti ed € 7.300,00 per onorari, oltre 12,5% rimborso forfettario spese generali, CPA e IVA.Così deciso in Torino, nella camera di consiglio della III Sezione civile della Corte di Appello, il 30 novembre 2011.Il Presidente estensore

Dove stiamo andando e perchè rispunta l'antisemitismo

Dove stiamo andando e perchè rispunta l'antisemitismo

Alcuni fenomeni vanno di pari passo. L'Europa ha dimenticato molto velocemente i regimi del '900 e l'insegnamento nelle scuole non ha neppure una grossa qualità visto cosa sforna ogni giorno. Nel volume di cuic'è una bella sintesi qui di seguito, scritto nel 1951 può aiutare a comprendere in che direzione sta viaggiando l'Europa oggi che poi sembra ieri.Per chi avesse dubbi sul progressivo detrioramento della democrazia, sull'assoluta perdita di significato nel quotidiano anche nei luoghi di giustizia dei principi e dei valori fondamentali (ormai completamente dimenticati), sulla deriva politica e culturale in cui versiamo (tra un pò ci sentiremo dire per farci ingoiare il peggio che "lo vuole l'Europa" senza che noi rispondiamo "ma se l'Europa siamo noi e noi non lo vogliamo allora perchè anzichè no dovremmo dire si e il si a quale padrone è rivolto?) si potrà leggere il link finale.

Le origini del totalitarismo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. http://it.wikipedia.org/wiki/Le_origini_del_totalitarismo

Le origini del totalitarismo è un libro di Hannah Arendt del 1951. Riconosciuto alla sua pubblicazione come la trattazione più completa del totalitarismo - e in seguito definito un classico dal The Times Literary Supplement - quest'opera continua da molti ad essere considerata il testo definitivo sulla storia dei regimi totalitari o quantomeno delle loro incarnazioni del XX secolo.Il libro inizia con una disamina delle cause dell'antisemitismo europeo nel primo e medio XIX secolo, continuando poi con un esame dell'imperialismo coloniale europeo dal 1884 alla prima guerra mondiale. L'ultima parte tratta delle istituzioni e delle azioni dei movimenti totalitari, esaminando in maniera approfondita le due più pure forme di governo totalitario del Novecento: quelle cioè realizzatesi nella Germania del nazismo e nella Russia di Josif Stalin.L'autrice discute la trasformazione delle classi sociali in masse, il ruolo della propaganda nel mondo non totalitario (all'esterno della nazione come nella popolazione ancora non totalitarizzata) e l'uso del terrore, condizione necessaria a questa forma di governo.Nel capitolo conclusivo, la Arendt definisce l'alienazione e la riduzione dell'uomo a una macchina come requisiti necessari al dominio totale.Indice [nascondi] 1 L'antisemitismo2 L'imperialismo3 Il totalitarismo4 Bibliografia5 Altri progettiL'antisemitismo [modifica]I banchieri ebrei furono da sempre prestatori eccellenti per lo stato nazionale: paradossalmente, furono loro a fornirgli i capitali necessari a permettere l’istituzione di monopoli e lotterie, con cui lo stato si affrancò dal bisogno di prestiti: nessun gruppo finanziario gentile aveva fiducia nelle capacità finanziarie degli stati. Verso la metà del XVIII secolo praticamente ogni corte aveva un proprio finanziatore ebreo, la cui influenza veniva sfruttata dalle piccole comunità ebraiche: attraverso quest’ultimo avevano un canale privilegiato per esprimere i propri problemi a corte, e questo contribuì a far sorgere un diffuso sentimento antiebraico tra i contadini gentili. Prestavano inoltre la loro fama e le loro conoscenze internazionali; la loro fitta rete di relazioni internazionali li rendeva pertanto sospettati di poter manovrare i singoli stati mediante una società segreta. Genericamente, poiché gli ebrei erano il solo gruppo sociale a poter essere identificato come “amico dello stato”, ogni classe o gruppo che fosse in tensione con quest’ultimo riversava il proprio odio verso l’ebreo.Se questi sono dunque motivi di odio antiebraico, l’antisemitismo vero e proprio nacque in Prussia nel 1807, dopo la sconfitta ad opera di Napoleone. La seguente abolizione generalizzata dei privilegi mise l’aristocrazia contro lo stato, determinata ad attaccare gli ebrei come "simbolo dello stato", sebbene questi fossero stati i primi a perdere dall’eguaglianza. Ogni uomo politico, poi, (come del resto gli ebrei più ricchi) aveva ottimi motivi per ritardare l’assimilazione ebraica: i ricchi ebrei continuavano a essere “ebrei speciali” (e quindi potenti) per le loro comunità, mentre i politici conservavano l’apparente cristianità dello stato e allo stesso tempo non concedevano pregi agli ebrei poveri delle regioni riannesse alla Prussia dopo il congresso di Vienna del 1816.La forma di antisemitismo più moderna del XIX secolo fu quella dei primi partiti e movimenti antisemiti; questi ultimi, sfruttando la povertà generale della piccola borghesia seguente spregiudicate avventure come quella della compagnia di Panamá (e la correlata sfiducia nel classico sistema dei partiti) ottennero vasta popolarità proclamandosi “al di sopra dei partiti, contro nobili e giudei” per sostituirsi allo stato nazionale. Ciò è confermato dalla loro riluttanza a diffondere l’antisemitismo nei partiti esistenti: non si voleva cacciare gli ebrei, quanto usarne la cacciata come leva per sostituire il classico stato nazionale. Queste caratteristiche videro la loro massima espressione in Austria, nel partito liberale pangermanista di Georg Ritter von Schönerer: l'impero austro-ungarico fu sempre tormentato da persistenti differenze sociali tra le varie etnie, le quali ebbero tutte un ottimo motivo per essere scontente della monarchia degli Asburgo; per la consueta identificazione tra stato ed ebrei, a Schönerer fu facile trovare consenso predicando la cacciata violenta dell’ebreo e l’unificazione con la Germania (sebbene sopravanzato dai socialcristiani di Luger, che ottennero il consenso della destra tradizionale: Schönerer, infatti, fomentava anche pulsioni anticattoliche). Se in Austria l’apice dell’antisemitismo tradizionale si ebbe alla fine del XVIII secolo, in Francia fu invece prematuro: l’ebreo era perseguitato per retaggio dell’illuminismo, che in esso vedeva una figura chiave nell’appoggio all’aristocrazia; queste motivazioni arcaiche ne limitarono l’attrazione esercitata nel XX secolo.Nei venti anni tra il declino dei partiti antisemiti e la prima guerra mondiale si ebbe l’età aurea della sicurezza: l’imperialismo e l’espansione economica divennero le sole materie di cui si occupassero i politici (e in grado di far presa sulle masse); nessuno sembrava accorgersi dell’imminente collasso delle strutture politiche tradizionali, e l’antisemitismo politico si sciolse come neve al sole; si tramutò nell’astio che il medio borghese provava per l’ebreo banchiere, membro della ricca élite a cui sognava di appartenere.Il mondo accetta difficilmente l’idea che l’uguaglianza non spetti a tutti gli uomini come a esseri uguali tra loro, bensì a tutti gli uomini in quanto esseri diversi ma di pari dignità. L’esempio più clamoroso si ha con gli ebrei: quando gli fu accordata l’emancipazione fu sempre nei confronti di persone fuori dall’ordinario, e sempre da parte di ristretti gruppi di intellettuali. Quest’ultimi trattavano l’ebreo come proprio pari non perché ritenessero ogni uomo pari all’altro, ma perché ottima dimostrazione di come potessero esserci uomini normali e degni di stima anche all’interno della categoria dei diversi: l’ebreo si distingueva come essere sollevatosi dalla misera base. E, nel caso dei salotti parigini, si aggiungeva una morbosa attrazione verso lo sporco, l’indegno, che nell’ebreo trovava il suo apice; non cambiava pertanto l’idea che si aveva degli ebrei, quanto il modo di rapportarsi agli stessi. Durante tutto il XIX secolo, l’ebreo non cercherà di prendere coscienza della figura di paria del suo popolo e modificarla, bensì di diventare egli stesso un parvenue, ciò che non si è, mediante l’accettazione nei salotti bene. L’ossessione per l’assimilazione porterà gli ebrei a ridursi a cliques dell’ebreo tipo (ad esempio, in concomitanza dell’affaire Dreyfus si mostreranno spesso proni al tradimento); abbiamo così una curiosa situazione in cui l’antisemitismo politico imperversa, la plebe è carica d’odio per gli ebrei, e gli illustri rappresentanti di questi ultimi si rinchiudono nei salotti a cercare di apparire quanto più marci e corrotti possibile. Il più illustre esempio è Benjamin Disraeli, primo ministro inglese; il suo paese di nascita non conosceva quasi più l’ebraismo dopo la cacciata degli ebrei nel medioevo, per cui egli stesso sapeva molto poco delle sue origini. Con la mente sgombra, si fece facilmente suggestionare dalle chiacchiere antisemite così comuni nell’Europa continentale, e giunse ad auto-convincersi di appartenere a una stirpe di oscuri dominatori del mondo, non mancando di propagandare questa tesi quanto più possibile. Come gli ebrei dei salotti, voleva essere assimilato grazie alla sua diversità.Fine 1894; Alfred Dreyfus, ufficiale dello stato maggiore francese, ebreo, viene accusato di aver venduto informazioni militari alla Germania. Il solo ufficiale dell’esercito convinto della sua innocenza, Piquart, viene trasferito a un incarico ad alto rischio in Tunisia (1896); da qui scoprirà che Dreyfus è stato incolpato per via di una maldestra falsificazione ad opera dell’ ufficiale francese Walsin Esterhazy e lo comunicherà al senato nel 1897. Nel teso clima di fine secolo questo processo dividerà la popolazione in una lotta tra conservatori e radicali (antidreyfusards e dreyfusards): ogni processo in quegli anni era guardato come la conferma o meno dell’avvenuta uguaglianza, e la situazione era complicata dall’antisemitismo seguente il fallimento della compagnia del Canale di Panamá; Quest'ultima (guidata dall'ingegner Ferdinand De Lesseps, già creatore del canale di Suez), già diretta verso l fallimento, cercò in tutti i modi di evitarlo corrompendo metà del parlamento e la stampa, al fine farsi elargire consistenti prestiti pubblici, per mezzo di due intermediari ebrei: Jacques de Reinach per la destra e Cornelius Herz (assoldato da Reinach) per la sinistra. Quest'ultimo ricattò spesso il primo, portandolo al suicidio quando si fece elargire una grossa provvigione (circa 600.000 franchi) per un servizio che poi non rese; Reinach, disperato, diede la lista dei politici corrotti alla Libre Parole (giornale antisemita) in cambio della promessa di non venir nominato, per poi uccidersi. Una parte considerevole della media borghesia, rinfrancata dai prestiti statali (la cui concessione era teoricamente possibile solo a compagnie la cui onestà veniva controllata) aveva investito tutti i propri risparmi in questo affare, ritrovandosi ad essere ormai plebe, una caricatura del popolo in cui confluivano tutti i reietti dello stesso, costretta a chiedere prestiti ai banchieri ebrei. Persa completamente la fiducia nello stato, reclamava una mano forte ed antichi valori: esattamente le doti che esercito e clero (i gesuiti in special modo) proclamarono proprie, cavalcando l’ondata di sdegno e antisemitismo nella speranza di poter ripristinare la monarchia. Furono avversati e sconfitti, oltre che da Piquart, da illustri personaggi come Émile Zola e Georges Clemenceau: questi ultimi pubblicando articoli e guidando manifestazioni - sebbene fatti oggetto di agguati alle proprie abitazioni - costrinsero l’esercito quantomeno a congedare Esterhazy con disonore e si batterono per la revisione del processo, la quale avvenne in tutta furia nel 1899 (non discolpando Dreyfus ma concedendogli la grazia, per evitare ulteriori disordini durante l’esposizione universale di Parigi del 1900). Divenuto primo ministro, Clemenceau nel 1906 fece discolpare Dreyfus dalla corte di cassazione.L'imperialismo [modifica]L’imperialismo fu la naturale valvola di sfogo per capitali e uomini superflui: le aziende operanti sui mercati nazionali - ormai saturi – necessitavano di impiegare in qualche modo i capitali accumulati negli anni, mentre allo stesso tempo decine di migliaia di persone - rese superflue al mercato del lavoro dalle continue migliorie ai processi di produzione – necessitavano di impiego. Come nella rivoluzione francese il feudalesimo fu abbattuto prima nelle regioni in cui era meno forte (il popolo non tollera chi non contribuisce alla società; un signore feudale senza poteri ma ancora ricco diventa estremamente superfluo, esattamente come un capitalista che non offre un lavoro), era facile prevedere che si sarebbero potute verificare tensioni per via di queste due classi. L’apparente uovo di colombo fu l’espansione delle industrie sulle colonie: per la prima volta era la borghesia, il capitale, ad espandersi per proprio conto in terre straniere: il potere politico non farà altro che fornirgli protezione (servizi di polizia), per poi assumere il controllo (diretto nel caso della Francia, indiretto in quello dell’Inghilterra) solo quando l’espansione e l’imperialismo siano diventati pilastro della vita politica – quando cioè i borghesi e gli industriali, convinta la plebe che l’espansione economica fosse il solo obiettivo politico a fare gli interessi di tutta la nazione, si insediarono in parlamento allo scopo di favorire i propri affari. La borghesia, quindi, unica classe sociale ad aver finora dominato senza interessarsi mai della politica, divenne padrona di quest’ultima, contando sull’appoggio della plebe (gli scarti di tutte le classi sociali) e dei nazionalisti, che nell’imperialismo vedevano il trionfo della propria nazione sulle altre.Prima dell’imperialismo le teorie razziali avevano valenza di semplici opinioni, e come tali confutabili; è solo con l’imperialismo che quest’ultime diventano vere ideologie, cioè singole ipotesi con cui si riesce a spiegare qualsiasi aspetto della vita. Prima di questa trasformazione erano perfettamente rappresentate dalle sciocchezze del marchese Henri de Boulainvilliers o del Conte di Gobineau: mitici popoli germanici di razza superiore che, scesi in Francia, avevano fondato l’aristocrazia (nel caso del primo) o una teoria che spiegava - col mescolamento del sangue nobile a quello plebeo – l’ormai sopravvenuto declino dell’aristocrazia e permetteva al suo nobile teorizzatore di proclamarsi puro (in virtù del suo sangue mai mescolato) nel caso del secondo. Un po’ diverso il caso di Edmund Burke e del razzismo inglese: in una società che ancora conservava i privilegi aristocratici, esso estese la definizione di “razza pura” a tutto il popolo inglese, allo scopo di dare una consolazione alle classi più povere: seppur inferiori ai nobili, erano pur sempre superiori al resto del mondo.La razza e la burocrazia divennero i pilastri dell’espansione imperialista. Solitamente si usava colonizzare una terra nel caso essa fosse stata ricca e scarsamente abitata, o impiantarvi una stazione marittima nel caso mancassero questi due requisiti; Nel Sudafrica gli olandesi attuarono la seconda opzione, usandolo come base per l’India per poi dimenticarsi dei propri uomini una volta aperto il canale di Suez; questi ultimi erano i Boeri, o Afrikaner, che si erano garantiti la sopravvivenza in terre così ostili sfruttando la propensione delle popolazioni autoctone a crederli esseri superiori per renderli schiavi. Quando in Sudafrica si scoprirono miniere di diamanti e folle di nobili avventurieri inglesi e scarti della società vi si riversarono, a contatto con i boeri ne mutuarono il razzismo; la madrepatria scoprì così che era possibile usare la sola forza bruta per assicurarsi il controllo di una popolazione. Il controllo istituzionale era invece affidato alla burocrazia imperialista: il primo e più fulgido esempio di questa fu l’inglese Lord Cromer. Console egiziano dal 1883 al 1907, arrivò animato da sentimenti nobili: tenere in mano inglese il canale di Suez così che essi potessero continuare a “proteggere l’India”, insegnando agli autoctoni la loro superiore cultura. Appena stabilitosi, non poté più credere che agli inglesi interessasse qualcosa di popoli che gli apparivano “arretrati”, ed iniziò a dominare il paese senza che gli fosse mai stata davvero concessa questa autorità. Il suo dominio di decreti provvisori, leggi non scritte, arbitrarietà perpetrate non da riconoscibili soldati ma da agenti segreti fu il modello per tutte le altre colonizzazioni.I panmovimenti, attivi già dal 1870 (vedasi il partito pangermanista di Schonerer) con l’avvento dell’imperialismo iniziano a farsi violenti: Se i paesi con sbocchi sul mare si arrogano il diritto di espandersi negli altri continenti, i panmovimenti reclamano il diritto di annettere le terre loro confinanti; a differenza dell’imperialismo d’oltremare, in questo imperialismo continentale non è il capitale il motore ultimo delle azioni, quanto “un'ampliata coscienza etnica” e un nazionalismo tribale: l’idea che il proprio popolo fosse eletto da Dio al dominio, e che solo la divisione lo impedisse. Pangermanisti e panslavisti facevano affidamento sulle frustrazioni dei popoli che non avevano un proprio stato o non erano rappresentati; quando invece lo avevano – come i pangermanisti tedeschi – fidavano sulla frustrazione del popolo per non poter partecipare al banchetto dell’imperialismo d’oltremare. Crocevia di queste pulsioni fu l’impero Austro-Ungarico, dilaniato da pangermanisti austriaci e panslavisti ungheresi. Come già accennato prima, entrambi i movimenti erano intrisi di antisemitismo – come naturale, dato il loro odio nei confronti dello stato e l’identificazione dell’ebreo con questo – che sfogavano in violente azioni contro le comunità ebraiche: il loro assoluto disprezzo per la legalità era mutuato dall’arbitrarietà propria dell’impero Austro-Ungarico e dell'impero Russo, i quali non si facevano eccessivi scrupoli a disprezzare le proprie stesse leggi. I panmovimenti non riuscirono mai a sovvertire l’ordine nazionale, ma sfruttando bene la mancanza di fiducia del popolo nei confronti dei partiti tradizionali -corrotti o impossibilitati ad agire per il bene della popolazione- evidenziarono come lo stato nazionale non avesse mai risposto alle esigenze della popolazione.Dopo la prima guerra mondiale quel che restava dell’impero Austro-Ungarico fu diviso in stati, ovviamente a loro volta suddivisi in minoranze (date le peculiari caratteristiche dell’Europa dell’est). Senza l’oppressiva burocrazia dell’impero, cade il mito dell’unione tra Stato (organo di governo) e nazione (popolo): dalla rivoluzione francese in poi si era sempre dato per scontato che il primo fosse diretta espressione del secondo, e il conferire i diritti umani ai propri cittadini avrebbe significato conferirli a tutto il popolo. In un contesto in cui non si poteva neanche definire un popolo come numericamente prevalente sull’altro (Cecoslovacchia, ad es.) e gli apolidi si erano affacciati sulla scena, si presentava il problema di cosa farne: non era possibile naturalizzarli in blocco, né dare asilo politico alle masse; rimpatriarli era impossibile perché non desiderati.Il totalitarismo [modifica]Il regime totalitario, basato sul moto perpetuo, viene dimenticato in fretta quando quest’ultimo si arresta: basato sulle masse, deve fare i conti con la volubilità naturale di quest’ultime, specie se private dell’influenza del regime. La massa, a differenza della plebe, non è una caricatura della borghesia: è il risultato del crollo di ogni Classe sociale dovuto alla disoccupazione e alla miseria, lo specchio di ogni classe sociale che non esiste più. Amorfa nei confronti della vita e sfiduciata nei confronti del sistema dei partiti: in quest’ultimo ogni partito rappresentava una classe sociale i cui membri si occupavano della politica per difenderne gli interessi, e lasciare agli altri appartenenti alla stessa la possibilità di condurre una vita apolitica. Alla caduta delle classi sociali i partiti tradizionali non rappresentarono più nulla se non la volontà di tenere in piedi il vecchio sistema; ma chi lo avrebbe voluto, in un sistema che finora aveva garantito solo miseria e alienazione? Cade quindi un altro mito della rivoluzione francese: che tutto il popolo si interessasse della politica, e chi non lo facesse fosse solo una minoranza (o se anche maggioranza, sarebbe stata irrilevante, semplice sfondo). Il totalitarismo necessita di masse senza la scintilla dell’individualità (ottimo motivo per cui si può definire il primo movimento antiborghese)Come le masse, gli intellettuali appoggiavano i movimenti totalitari: essi avevano rifiutato il vecchio sistema basato sulle classi sociali prima che quest’ultime sparissero, e avrebbero salutato con gioia qualsiasi cosa significasse un netto cambiamento rispetto al passato; se le masse ammiravano Hitler come loro campione (un diseredato come loro), gli intellettuali lo ammiravano come estremo sovvertimento dell’ordine costituito: un plebeo gretto, meschino ma almeno schietto, al comando della nazione avrebbe messo in riga tutti i politicanti borghesi gretti e meschini quanto lui, ma fondamentalmente ipocriti. Al trionfo, Hitler li liquiderà, come ovvio: un intellettuale è pur sempre un'espressione di individualità.Plebe ed elite, quindi, seguono naturalmente il movimento totalitario; la massa, invece, va prima convinta: a questo pensa la propaganda. Essa serve sia per le masse non totalitarizzate, che per il mondo esterno, che per i membri del partito non ancora totalitari. Con essa si propugna l’ideologia, per mezzo del terrore (Esso è coadiuvante della propaganda, ma anche motore del movimento) e, in misura minore, della scienza. Una volta raggiunto il potere la propaganda viene sostituita dall’indottrinamento. L’abilità propagandistica dei nazisti non fu frutto di belle parole o dell’invenzione di nuovi concetti: essi scelsero tra le teorie già esistenti quelle che facevano più presa sulla massa (come l’antisemitismo). Il campo in cui invece furono realmente originali fu l’organizzazione: il nazismo era strutturato come un’organizzazione a strati. I frontisti erano i meno totalitari, poi venivano i membri del partito, poi le gerarchie più alte del partito, etcetera. Questo è dovuto all’ideologia: il nazismo proclama di avere contro (e dover combattere) tutto il mondo: agli occhi di chi sta più in alto nella scala gerarchica, lo strato immediatamente precedente è il mondo non totalitario. Questa organizzazione vale in due sensi: conforta i membri del partito, e fa vedere alle masse ancora non totalitarizzate il lato meno estremo dei nazisti. Altra peculiarità nazista fu il duplicare qualsiasi organizzazione statale: formazioni paraprofessionali di medici, avvocati e quant’altro. Questo gli permise di sostituire rapidamente tutto l’apparato statale con uomini di fiducia, oltre che far sentire ogni ramo della società rappresentato nel nazismo. Al centro di tutto c’è il capo, ultimo strato dell’organizzazione, che si assume ogni responsabilità per quello che fanno i suoi uomini. Così facendo difende il movimento dall’esterno e allo stesso tempo (prendendosi le responsabilità di tutti) fa in modo che la vittima del terrore nazista non sappia da chi venga l’ordine -se non dal capo, un'entità irraggiungibile. È quindi una organizzazione simile a quella delle società segrete: gerarchie secondo il grado di devozione e potere accentrato, oltre a un'iniziazione e un rituale: la prima fu messa in atto con l’esame della razza, il secondo con l’adunata oceanica.Una volta conquistato il potere, il regime consegna il potere ai suoi duplicati dell’autorità; ogni organizzazione tradizionale, come lo stato stesso, perde di valore e vi vengono confinati i meno utili alla causa. Il potere non è dello stato ma del partito: tanto più un'istituzione è in vista, tanto meno potere ha; chi conta è colui che è meno in vista, e questi a sua volta non fa che il volere del capo, essenziale al movimento. L’immensa macchina burocratica che si viene a creare ha ragion d’esistere solo perché il nazismo ragiona in termini non utilitaristici: lo spreco di denaro e le sovrapposizioni di ruoli sono giustificabili di fronte all’ideale razziale, specialmente se guardate come fastidi momentanei in una futura storia millenaria. La sicurezza del dominio futuro si nota anche dall’applicazione di leggi retroattive nei paesi conquistati: si punisce chi non si è attenuto alla legge del Fuhrer quando è stata proclamata; era già in vigore anche nel proprio paese, mancavano solamente gli uomini (i soldati della Wehrmacht) incaricati di farla rispettare.Il duplicato più importante è la polizia segreta: conquistato il potere, il movimento devia i fondi della polizia segreta ufficiale a favore della propria; quest’ultima all’estero prepara il terreno per il futuro dominio, mentre all’interno si occupa del nemico oggettivo: poiché un regime totalitario si basa sul moto perpetuo, una volta cessati i focolai di resistenza ha bisogno di un altro nemico contro cui scagliarsi, possibilmente un nemico che possa essere ritenuto tale dal mondo esterno, come gli ebrei. Questi ultimi sono i nemici oggettivi, quelli la cui colpevolezza è provata: sono colpevoli di non essere desiderati. Alla Gestapo, pertanto, sarà accordata più fiducia che a una qualsiasi polizia segreta ufficiale: non avrà mai il compito di scoprire chi trama contro il regime, né avrà potere di ignorarli o favorirli. Sarà semplicemente la prima a sapere, dopo il capo, chi deve essere ucciso. Non esistendo più la fase investigativa, il sospetto di reato viene sostituito dal delitto possibile: chiunque abbia la possibilità di fare qualcosa contro il regime è riconosciuto colpevole; Josif Stalin utilizzerà questo concetto facendo epurare tutte le cariche del partito con sufficiente autorità per preparare un colpo di stato, ad esempio. Questi concetti vengono abbandonati solo al raggiungimento del completo totalitarismo: da qui, le vittime verranno scelte a caso, nella negazione suprema della libertà: il regime non consente di scegliere neppure se diventare colpevole o meno; non consente di scegliere il suicidio in quanto - dopo anni di condizionamento atto a cancellare l’individualità – il condannato non ha neppure più la volontà per farlo. Se avesse conservato parte della propria personalità, quest’ultimo sa che sarebbe un gesto inutile: il proprio suicidio non ispirerebbe nessuno alla ribellione, perché nessuno saprebbe neppure del suo martirio: nel regime nazista la gente non muore, sparisce dal mondo, mediante l’eliminazione delle condizioni necessarie al ricordo e di chi potrebbe ricordare.Per i nazisti il campo di concentramento è un laboratorio per l’annientamento della personalità, prima ancora che per lo sterminio. In questo ambiente completamente chiuso al mondo non totalitario, il prigioniero vede solo SS, inumani esecutori. Non ha contatti con altre categorie di detenuti a parte la propria, né finisce mai nel lager per qualche motivo: chi compie un reato finisce in carcere, e solo quando avrà scontato la pena prevista dalla legge sarà deportato, di modo che sia chiaro che non finisce lì per propria scelta: non perché ha scelto di essere contro il regime e agire di conseguenza, ma perché il regime ha scelto di essere contro di lui. Non a caso il criminale è praticamente il solo a poter diventare kapò: proprio perché sa di essere quantomeno indesiderabile, trova un motivo per spiegare la propria deportazione. Compiuta la distruzione dell’uomo come soggetto di diritto, si passa ad annullare la personalità morale: si rende impossibile il martirio non permettendo a nessuno di venirne a conoscenza, né è possibile morire per conto proprio piuttosto che aiutare il nazismo; ad esempio, si viene posti di fronte alla scelta se aiutare il nazismo tradendo amici che cospirano o non aiutarlo lasciandoli cospirare, ma facendo così condannare la propria famiglia. Una volta distrutta la personalità morale, dell’essere umano rimane solo l’individualità, la consapevolezza di essere unico; ma venendo quest’ultima in larga parte dalle proprie scelte e convinzioni morali, quel che ne rimane è solo la conoscenza del proprio nome e del proprio modo di reagire alle condizioni in cui ci si trova. Nulla che un numero di serie e un trattamento ugualmente umiliante (come la deportazione nudi nei carri bestiame) per tutti non possa cancellare. Il nazismo nel lager riduceva l’uomo a un fascio di nervi - né più né meno che una bestia - per imparare e riprodurne il più possibile i risultati sui propri cittadini. Si direbbe una menzogna affermando che il nazismo fosse più avverso agli ebrei che al popolo tedesco: esso era ugualmente contro ogni forma dell’essere umano; non voleva far sì che il popolo tedesco conquistasse il mondo, quanto riorganizzare la natura umana.Bibliografia [modifica]Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Biblioteca Einaudi 179, (2004). ISBN 88-06-16935-1

Joseph Stiglitz / La globalizzazione e i suoi oppositori Tutti i danni del pensiero unico

Joseph Stiglitz / La globalizzazione e i suoi oppositori     Tutti i danni del pensiero unico

di Beniamino Lapadula
La globalizzazione e i suoi oppositori    Joseph E. Stiglitz Torino, Einaudi, 2002
pp. 276, 19 euro
Le piccole nazioni in via di sviluppo sono come barchette e il
Fondo monetario, spingendole verso una veloce liberalizzazione dei mercati, le ha messe in un mare in tempesta senza giubbotti di salvataggio. È questo l’atto d’accusa che Joseph E. Stiglitz lancia verso il Fmi, il Wto e il Tesoro Usa.
Forte dell’esperienza maturata alla Casa Bianca come chief economist di Clinton e alla Banca mondiale come senior vice president, il nobel dell’economia attacca questi protagonisti della politica economica internazionale che, invece di aiutare i paesi più poveri, li hanno danneggiati. Eppure la storia della stragrande maggioranza dei paesi industrializzati avrebbe dovuto suggerire una strategia completamente diversa nella sequenza delle riforme da richiedere ai paesi in via di sviluppo. Basti pensare alle due più grandi economie del mondo – Stati Uniti e Giappone – e a come hanno protetto in modo selettivo alcuni dei loro comparti industriali fino a quando non sono diventati abbastanza forti da poter competere con quelli di altri paesi. Così come non può funzionare il protezionismo generalizzato, anche una liberalizzazione troppo rapida del commercio genera danni. Costringere un paese in via di sviluppo ad aprire le proprie frontiere in modo indiscriminato può avere conseguenze disastrose sia sociali che economiche. È così che sono stati distrutti milioni di posti di
lavoro e la povertà non solo non è stata sradicata ma, al contrario, è aumentata.
Stiglitz non è contro il processo di globalizzazione, anzi secondo lui la globalizzazione può essere una forza positiva. Essa ha cambiato il modo di pensare della gente e ha diffuso l’ideale di democrazia e il benessere. Questo si è verificato nei paesi che si sono resi artefici del proprio destino con governi che hanno svolto un ruolo attivo nello sviluppo, senza affidarsi stupidamente a un mercato che, autoregolandosi, riuscirebbe a risolvere da solo tutti i problemi.
Negli altri casi la globalizzazione non ha funzionato.
Centinaia di milioni di persone hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita perdendo il lavoro e ogni tipo di sicurezza. Sono dunque le regole della globalizzazione a essere sbagliate e questo accade perché gli organismi che le dettano si basano su una miscela perversa di ideologia e politica che impone soluzioni a favore degli interessi dei paesi industrializzati più avanzati.
Quello di Stiglitz è dunque è un libro di denuncia coraggiosa che i tecnocrati degli organismi economici internazionali e del G8 non hanno potuto ignorare. È diventato un libro scandalo ed è stato attaccato frontalmente soprattutto dai tecnocrati del Fondo monetario internazionale con un linguaggio aspro che non è nelle abitudini dei circoli dove si forma il cosiddetto “consenso di Washington”, cioè il pensiero unico della globalizzazione. Il saggio non fa nessuno sconto ai registi dell’economia  mondiale che presiedono il Fmi. Essi sono costantemente presenti nella trama del racconto che ripercorre i disastri finanziari degli ultimi decenni provocati dalle loro ricette. Si tratta di politiche che vengono imposte ai paesi del terzo mondo e che nessun paese avanzato applicherebbe mai in casa propria. Terapie d’urto che aggravano la miseria dei paesi meno sviluppati, spesso suggerite direttamente dal ministro del Tesoro Usa. Il resoconto fatto dall’autore delle crisi del Sud-Est asiatico (1997), della Russia (1998) e dell’Argentina (2001) è particolarmente allarmante. Le politiche del Fmi hanno aggravato la situazione dell’Indonesia e della Thailandia, provocato tassi di disoccupazione a due cifre nell’America Latina, abbattuto drasticamente il Pil in Russia. Esse condizionano non soltanto i paesi che chiedono aiuto ma anche quelli che richiedono approvazioni formali dei loro programmi per poter accedere più facilmente ai mercati finanziari
internazionali.
Stiglitz denuncia il fatto che sebbene tutte le attività del Fondo monetario e della Banca mondiale oggi si svolgano nei paesi in via di sviluppo, entrambe le istituzioni sono guidate da rappresentanti delle nazioni industrializzate. Questo fatto, insieme all’applicazione di teorie economiche sbagliate di stampo neoliberista, sta producendo danni enormi. Dietro l’ideologia neoliberista c’è un modello secondo cui la “mano invisibile” delle forze di mercato guiderebbe l’economia sulla strada dell’efficienza. Una delle conquiste più importanti dell’economia moderna è stata quella di dimostrare in quali condizioni e in che senso ciò si verifica. Proprio nel periodo in cui venivano perseguite con maggior accanimento le politiche di Washington Consensus la teoria economica ha dimostrato che, ogni qualvolta l’informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, cioè praticamente sempre, la “mano invisibile” opera in modo imperfetto. Ciò è vero in particolare nei paesi in via di sviluppo e in quelli ex comunisti. Il sistema di mercato richiede, infatti, diritti di proprietà chiaramente stabiliti e tribunali in grado di farli rispettare. Esso necessita di una concorrenza e di un’informazione perfetta, ma mercati concorrenziali ben funzionanti non si creano dalla sera alla mattina.
L’ideologia del fondamentalismo di mercato ignora l’essenzialità di tali presupposti, essa non è che un ritorno all’economia del laissez-faire propugnata nell’800. Ma, come ricorda Stiglitz, dopo la grande depressione i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, mentre il Washington Consensus ha imposto interventi che sono andati incontro a conseguenze disastrose. (Rassegna sindacale, n. 39, 29 ottobre 2002)
dal sito http://archivio.rassegna.it/2002/letture/articoli/stiglitz.htm

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