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ALTALEX NEWS


sabato 26 settembre 2009

Rapporti Giurisdizionali con Autorità Straniere M.A.E.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
UFFICIO DEL MASSIMARIO
Servizio penale
Rel. n. 28/08/quater Roma, 20 maggio 2009
ORIENTAMENTO DI GIURISPRUDENZA
- Rapporti Giurisdizionali con Autorità Straniere –
- Mandato arresto europeo (M.A.E.) -
- Legge n. 69 del 2005 -


http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%2028quater%20MAE_09.pdf

Legge 15 luglio 2009, n. 94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”

CASSAZIONE RELAZIONE N. III/09/09 DEL 27 LUGLIO 2009

Novità legislative: Legge 15 luglio 2009, n. 94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”

http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relazione%20III_09_09.pdf

la legge n. 94/2009 è commentata in modo sistematico punto per punto

venerdì 25 settembre 2009

Se si offende un anziano con il turpiloquio, la colpa è più grave

Se si offende un anziano con il turpiloquio, la colpa è più grave

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/canalecittadino/grubrica.asp?ID_blog=269&ID_articolo=68&ID_sezione=&sezione=

Secondo la Cassazione, la volgarità verso un anziano assuma una carica ancora più offensiva «in quanto rivolta a persona non adusa a certe disinvolture di linguaggio». Ecco perchè la Quinta Sezione penale ha disposto un nuovo processo civile che consentirà ad una signora ultraottantenne romagnola di ottenere il risarcimento dei danni. Il caso La signora si era sentita dare della "str..." da un ultrasessantenne vicino di casa «in un contesto assolutamente formale». E' scattato il reato di ingiuria, poi prescritto, ma la Cassazione ha ritenuto che certa volgarità non abbia attenuanti, accordando alla signora M. C. la possibilità di avere un «equo risarcimento» per l’offesa. Inutilmente I. R., già condannato ad una multa per ingiuria dalla Corte d’Appello di Bologna nel giugno 2008, si è difeso sostenendo che l’epiteto è diffuso nel linguaggio dei giovani e meno giovani e che dunque ha perso la sua carica offensiva. La difesa, a parte la prescrizione del reato, non ha convinto la Suprema Corte secondo la quale «l’intrinseca valenza offensiva spregiativa è tanto più intensa e rimarchevole» quando viene «rivolta a una persona anziana, non abituata certamente a certe disinvolture di linguaggio».

Garze nell'addome, ne risponde tutta l'equipe medica

Garze nell'addome, ne risponde tutta l'equipe medica
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/canalecittadino/grubrica.asp?ID_blog=269&ID_articolo=69&ID_sezione=&sezione=

Tutta l’equipe medica (non solo il chirurgo che opera, ma anche i suoi aiuti) risponde, con il risarcimento dei danni e la condanna penale per lesioni, dei gravi errori commessi nel corso di una operazione, come dimenticare garze o pinze nell’addome. Lo sottolinea la Cassazione confermando la colpevolezza di un vice primario pugliese. Il caso Un aiuto primario ha sostenuto che non era colpa sua se durante un intervento su una paziente il primario aveva lasciato le garze laparotomiche nella pancia della malcapitata signora. La Suprema Corte (sentenza 36580/09) ha invece affermato che deve essere considerata «corale» l’attività dell’equipe medica quando «riguarda quelle fasi dell’intervento chirurgico in cui ognuno esercita il controllo del buon andamento di esso». Quindi, tutto il personale «deve partecipare ai controlli volti a fronteggiare il frequente e grave rischio di lasciare nel corpo del paziente oggetti estranei». Invece le colpe sono dei singoli quando i ruoli e i compiti sono «distinti nettamente». In tal caso, dell’errore risponde «il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell’intervento, o l’errore sia riferibile ad una specifica competenza medica». In sostanza, «l’anestesista non potrà certo rispondere dell’errore del chirurgo e il chirurgo non risponderà di una inidonea somministrazione di anestetico». Ma se c'è una svista eclatante pagano tutti.

Le spese condominiali

Le spese condominiali
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/canalecittadino/grubrica.asp?ID_blog=265&ID_articolo=23&ID_sezione=&sezione=

GERMANO PALMIERI
I criteri di ripartizioneFra i punti dolenti della vita condominiale rientra a pieno titolo il problema delle spese comuni: non tanto ai fini della loro ripartizione fra i condomini (nei condomìni dotati di tabelle millesimali, infatti, sono sufficienti delle semplici operazioni aritmetiche per stabilire la quota da ciascuno dovuta), quanto ai fini deliberativi; il più delle volte, infatti, i contrasti si manifestano nella fase decisionale: per esempio quando si tratta di approvare o meno una certa spesa o di scegliere un preventivo piuttosto che un altro. Ma andiamo con ordine. Va premesso che il primo comma dell’articolo 1123 del codice civile stabilisce che le spese necessarie alla conservazione e al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune e alle innovazioni deliberate dalla maggioranza, devono essere sostenute dai condomini in proporzione ai millesimi di proprietà, salvo diverso accordo al quale devono però aderire tutti i condomini. Il secondo comma del citato articolo dispone che, se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne. La Cassazione (sentenza n. 13160 del 6/12/1991) ha precisato che questa norma si riferisce al caso in cui la cosa comune sia oggettivamente destinata a permettere ai singoli condomini di goderne in misura diversa (inferiore o superiore) al rispettivo diritto di comproprietà sulle parti comuni, e che nella sua applicazione si deve avere riguardo non all'uso effettivo ma a quello potenziale, a nulla rilevando che un condomino, pur potendo usare del bene, si astenga dal farlo, o che un altro condomino ne faccia un uso particolarmente intenso.Qualora, infine, un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità, parlandosi a riguardo di condominio parziale.Se non vi sono tabelle millesimali l’assemblea può adottare, a titolo di acconto e salvo conguaglio, tabelle provvisorie, avendo cura di rispettare la proporzione fra la quota di spesa a carico di ciascun condomino e la quota di proprietà esclusiva a questi appartenente; il criterio di determinazione delle singole quote, infatti, preesiste e prescinde dalla formazione delle tabelle millesimali.Il criterio di ripartizione delle spese stabilito dalla legge può essere modificato soltanto da un regolamento contrattuale, ossia approvato o accettato da tutti i condomini, o da una convenzione alla quale abbiano aderito tutti i condomini: l’eventuale modifica deliberata a maggioranza dall’assemblea sarebbe pertanto nulla.Naturalmente il condomino ha il diritto, in ogni tempo e senza essere tenuto a specificarne la ragione, di prendere visione o estrarre copia della documentazione riguardante le spese condominiali, assumendosene il relativo costo e sempre che l'esercizio di questo diritto non si risolva in un intralcio per l'amministrazione e non sia contrario ai principi di correttezza.
Vietato rinunciare ai servizi comuniL’art. 1118 c.c. stabilisce che un condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire a determinate spese comuni (per esempio quelle per la piscina) rinunciando al relativo servizio, a meno che non venga esonerato da tutti gli altri condomini. La Cassazione ha però statuito (sentenza n. 4652 del 27/4/1991) che si può rinunciare a quegli impianti condominiali che devono essere considerati superflui in relazione alle condizioni obiettive e alle esigenze delle moderne concezioni di vita, oppure illegali perché vietati da norme imperative: come nel caso della rinuncia all'impianto di autoclave in presenza di un servizio idrico pubblico efficiente, o al pozzo nero perché in contrasto con le prescrizioni di legge. Altro servizio al quale si può rinunciare, sia pure parzialmente dovendosi comunque contribuire alla spesa richiesta dalla conservazione dell’impianto, è quello di riscaldamento centralizzato, dal quale il condomino può distaccarsi a patto che provi che dall’intervento non derivano né aggravi di spesa per coloro che continuano a fruire dell’impianto, né squilibri termici pregiudizievoli della regolare erogazione del servizio.Da ciò deriva che il proprietario è tenuto a contribuire alle spese condominiali indipendentemente dal fatto che l'unità immobiliare sia da lui occupata, concessa in locazione o disabitata: come sopra anticipato, infatti, quello che rileva è l’uso potenziale, non l’uso effettivo. Un classico esempio è costituito dall’ascensore: si è tenuti a contribuire alla spesa anche se ci si serve sistematicamente delle scale, mentre non si può aumentare la contribuzione a carico del proprietario di un ambulatorio o di un ufficio molto frequentati. Per derogare a questo principio è necessario un accordo sottoscritto da tutti i condomini.
La responsabilità del pagamento nei confronti dei terziPremesso che i condomini rispondono delle obbligazioni assunte nel loro interesse verso terzi dall'amministratore autorizzato dall’assemblea (in pratica fornitori ed eventuali dipendenti del condominio: per esempio giardiniere, portiere), le sezioni unite della Corte di Cassazione, ponendo fine a un contrasto giurisprudenziale che durava da decenni, con sentenza n. 9148 dell’8/4/2008 hanno stabilito che la responsabilità dei condomini di fronte alle obbligazioni assunte del condominio è parziaria e non solidale, per cui ciascun condomino risponde soltanto della propria quota di debito: sia perché l'obbligazione, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di denaro, sia perché la solidarietà nel condominio non è contemplata da alcuna disposizione di legge. Prima che intervenisse questa sentenza l’orientamento prevalente della Suprema Corte era nel senso di applicare ai condomini l’art. 1294 c.c., che prevede la solidarietà fra condebitori, ritenendoli solidalmente responsabili per le obbligazioni contratte nell’interesse del condominio, salva la possibilità, per chi avesse pagato, di rivalersi nei confronti degli altri condomini per essere rimborsato della rispettiva quota; se poi uno o più condomini si trovavano nell'impossibilità di pagare, la perdita andava ripartita fra i condomini solvibili in proporzione ai millesimi di proprietà.
Facciata e balconiAlla spesa richiesta dal rifacimento e dalla manutenzione della facciata devono contribuire, in proporzione ai millesimi di proprietà, tutti i condomini, anche quelli i cui appartamenti non vi hanno aperture. Se però l'intervento comporta, per esempio, anche la riparazione o la posa in opera di pannelli aventi, oltre che funzione ornamentale, anche funzione protettiva delle abitazioni, la Cassazione (sentenza n. 13655 del 23/12/1992) ha ritenuto applicabile il criterio previsto dal secondo comma dell'art. 1123 c.c., per il quale, nel caso di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, la spesa dev’essere ripartita in proporzione all'uso che ciascuno può farne; si tratta quindi di distinguere la quota di spesa attinente all'aspetto esteriore della facciata, da ripartire fra tutti i condomini, da quella attinente alla coibentazione, da ripartire fra i soli condomini che ne traggono direttamente utilità.Le spese occorrenti al rifacimento e alla manutenzione dei balconi costituenti pertinenza dei vari appartamenti gravano sui rispettivi proprietari, con la sola eccezione di quelle relative agli elementi decorativi (per esempio rivestimenti), qualora siano riguardabili come destinati all'abbellimento della facciata nel suo insieme e non del singolo balcone, da porsi a carico del condominio su base millesimale (Cass. 28/11/1992, n. 12792). A questa voce di spesa devono contribuire anche i condomini i cui appartamenti non siano dotati di balcone o siano situati su un'altra facciata dell'edificio.L'indagine volta ad accertare se gli elementi decorativi sono finalizzati ad abbellire il balcone o non piuttosto la facciata nel suo insieme dev'essere condotta caso per caso, in relazione alle caratteristiche dell’edificio (fra gli elementi decorativi possono essere compresi, a seconda dei casi, anche le ringhiere e i divisori). La Corte d'Appello di Napoli (sentenza del 16/10/1990), per esempio, ha posto le spese per la riparazione delle colonnine e dei pilastrini che fanno parte integrante del parapetto dei balconi a carico del proprietario esclusivo, motivando col fatto che il parapetto assolve alla funzione primaria di protezione dell'unità immobiliare del condomino; la Corte d'Appello di Salerno (sentenza del 16/3/1992), invece, al pari del Tribunale di Roma (sentenza n. 31717 del 24/11/2004), ha posto le spese per il rifacimento dei parapetti a carico del condominio, insieme ai doccioni (canalini che allontanano l'acqua dal muro) e alle fasce d’intradosso (superfici interne delle porte e delle finestre). Anche la tinteggiatura dei parapetti, trattandosi di elementi cromatici inseriti nella facciata e quindi componenti del decoro architettonico dell'edificio, viene posta dai giudici a carico di tutti i condomini, in proporzione ai millesimi di proprietà.
Scale e ascensoreLa spesa occorrente alla manutenzione e alla ricostruzione delle scale va ripartita fra i condomini seguendo il criterio dettato dall’art. 1124 c.c.: per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzioni di piano e per l'altra metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo. Ai fini del concorso nella metà della spesa rapportata al valore si considerano come piani le cantine, i palchi morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, qualora non siano di proprietà comune. A questa voce di spesa devono contribuire anche i proprietari di autorimesse, laboratori e negozi, ancorché aventi accesso autonomo e quindi indipendente da quello destinato agli altri piani dell'edificio, poiché, per costante giurisprudenza, le scale costituiscono parte essenziale della proprietà comune.Quanto alla spesa richiesta dalla pulizia e dall’illuminazione delle scale, essa non è finalizzata alla conservazione di questa parte comune dell'edificio (ossia non è diretta a preservarne l'integrità e a mantenerne il valore), ma a permettere ai condomini un più confortevole uso e godimento di essa e delle parti di esclusiva proprietà; di conseguenza, per la Cassazione (sentenza n. 432 del 12/1/2007), la ripartizione va fatta non in base ai millesimi di proprietà ma in base all’uso che ciascun condomino può fare di questa parte comune, secondo il criterio fissato dal secondo comma dell’art. 1123 c.c., applicando a tal fine, per analogia, quale criterio idoneo ad esprimere la diversa utilità che da tale servizio ricavano i proprietari dei singoli piani, quello dell’altezza del piano dal suolo, senza che possa attribuirsi rilevanza, invece, alla destinazione (abitativa o meno) delle singole unità immobiliari o alla consistenza dei nuclei familiari che utilizzano le unità immobiliari a destinazione abitativa. Dal punto di vista della ripartizione fra i condomini delle spese di manutenzione e ricostruzione dell’ascensore, la giurisprudenza assimila questo impianto alle scale, per cui la quota di spesa va rapportata, metà e metà, al valore dei singoli piani o porzioni di piano e all’altezza di ciascun piano dal suolo. Nell’ipotesi, invece, d’installazione ex novo dell’impianto, trova applicazione la disciplina dell’art. 1123 c.c. relativa alla ripartizione delle spese per le innovazioni deliberate dalla maggioranza: in proporzione al valore della proprietà di ciascun condomino, salvo diversa convenzione (Cass. 25/3/2004, n. 5975).Le spese di esercizio dell’ascensore, ossia quelle richieste dall’uso dell’impianto (per esempio quelle per la forza motrice), sono comprese nella metà di spesa riconducibile all’altezza di ciascun piano dal suolo. L’assemblea non potrebbe deliberare di ripartire le spese di esercizio dell’ascensore in ragione della diversa consistenza dei nuclei familiari, poiché non è detto che una famiglia, per il fatto di essere più numerosa di un'altra, faccia necessariamente un maggior uso dell’ascensore; l’adozione di questo criterio potrebbe pertanto essere adottato soltanto in base ad un accordo fra tutti i condomini.
Appartamenti ubicati a piano terraUn caso particolare, in relazione alle spese richieste dall’ascensore, è quello dei proprietari di appartamenti ubicati a piano terra.Il Tribunale di Milano (sentenza del 16/3/1989) ha considerato l'ascensore parte comune dell'edificio anche per i proprietari delle unità immobiliari site al piano terra, poiché essi possono trarre utilità dall'impianto, idoneo a valorizzare l'intero immobile e a permettere di raggiungere più comodamente parti superiori che siano comuni a tutti (ciò indipendentemente dal fatto che chi abita a piano terra sia solito recarsi o meno, per esempio, sul lastrico solare condominiale o a far visita ad altri condomini).Il Tribunale di Parma, invece, con sentenza del 29/9/1994, ha escluso che i proprietari degli appartamenti ubicati a piano terra debbano concorrere alle spese di ordinaria manutenzione. C'è infine un terzo orientamento, per il quale il Tribunale di Monza (sentenza del 12/11/1985) ha posto a carico dei proprietari delle unità immobiliari situate al piano terreno, o aventi accesso separato mediante scala di proprietà esclusiva, le spese di manutenzione e ricostruzione delle scale e dell'ascensore, limitatamente a quella parte di oneri che viene suddivisa, ai sensi dell'art. 1124 c.c., in base al valore del piano o della porzione di piano, esonerandoli dalla quota di spesa riconducibile all’altezza del piano dal suolo.Da ultimo il Tribunale di Genova (sentenza del 2/5/2003, n. 1512) ha stabilito che, in assenza di prova circa l’esistenza di un regolamento contrattuale o di una convenzione fra i condomini che stabilisca criteri derogatori, deve applicarsi il criterio legale per il quale anche i proprietari di unità immobiliari poste al piano terra che non usufruiscono dell’ascensore, essendo comunque comproprietari dell’impianto, sono tenuti a contribuire alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria e a quelle di ricostruzione, mentre gli stessi sono esonerati ex art. 1123, secondo comma, c.c., dal contribuire alle spese di esercizio e di pulizia di detto impianto. Dello stesso avviso la Corte d’Appello di Milano, che con sentenza n. 76 del 21/2/2006 ha stabilito che il principio dettato dall’art. 1124 c.c. per la ripartizione delle spese relative alle scale, comportante un contributo anche a carico dei proprietari di unità immobiliari ubicate a piano terra, è applicabile alle spese di conservazione e manutenzione dell’ascensore, a nulla rilevando che esso sia stato installato contestualmente alla costruzione dell’edificio o in un secondo momento; tale ultima ipotesi (installazione successiva), per i giudici milanesi, rileva solo se l’installazione è avvenuta con il dissenso di alcuni condomini.La spesa richiesta dall'adeguamento dell'ascensore alla normativa dell’Unione Europea, essendo finalizzate al conseguimento di obiettivi di sicurezza della vita umana e di incolumità delle persone, attiene alla proprietà e non all'uso di questa parte comune dell'edificio. Di conseguenza essa dev’essere ripartita fra tutti i condomini, anche quelli proprietari di unità immobiliari site a piano terra, in base ai millesimi di proprietà e non seguendo il criterio dettato dal codice civile per la manutenzione e la ricostruzione delle scale. Lo stesso criterio dev'essere seguito per l'eventuale spesa di tinteggiatura dell'androne, se conseguente ai lavori di adeguamento dell'ascensore.
Lastrico solare Diverso è il criterio sulla base del quale ripartire la spesa occorrente alla manutenzione e al rifacimento del lastrico solare (la terrazza che in molti edifici sostituisce il tetto), a seconda che questo sia condominiale o di proprietà (o comunque di uso esclusivo) di un condomino.Alla spesa richiesta dalla manutenzione e dalla ricostruzione del lastrico solare condominiale devono contribuire tutti i condomini, anche se proprietari di unità immobiliari non coperte dal lastrico (Cass. 20/3/2009, n. 6889), in proporzione ai millesimi di proprietà. Lo stesso criterio di ripartizione della spesa, peraltro derogabile da un regolamento condominiale contrattuale o da un accordo al quale abbiano aderito tutti i condomini, vale per i parapetti, trattandosi di accessori indispensabili al lastrico solare.Più sfaccettato è il criterio di ripartizione della spesa richiesta dalla riparazione e dalla ricostruzione del lastrico solare di uso esclusivo (art. 1126 c.c.). In tale ipotesi, infatti, il proprietario esclusivo del lastrico solare deve contribuire alla spesa in ragione di un terzo, restando gli altri due terzi a carico dei condomini proprietari delle unità immobiliari comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, con esclusione dei condomini alle cui unità immobiliari il lastrico stesso non sia sovrapposto. Pertanto, se il proprietario esclusivo del lastrico è anche proprietario di una o più unità immobiliari sottostanti, in aggiunta al terzo di cui sopra dovrà concorrere anche alla spesa degli altri due terzi. Il suddetto criterio si applica non solo alle spese riguardanti la manutenzione o il rifacimento del solaio o del manto impermeabilizzante, ma anche alle spese rese necessarie dai suddetti interventi: per esempio rifacimento della pavimentazione e del parapetto, trasporto e discarica dei detriti. Sono invece a carico del condomino che ha l'uso esclusivo del lastrico le spese relative agli elementi collegati al suo godimento diretto: per esempio quelle occorrenti alla manutenzione delle ringhiere e dei parapetti. Anche in questo caso il criterio è derogabile da un regolamento condominiale contrattuale o da un accordo al quale abbiano aderito tutti i condomini. Se la ricostruzione del lastrico si rende necessaria esclusivamente per fatto e colpa del proprietario esclusivo, sarà soltanto questi a doversi fare carico della spesa. Se invece la ricostruzione si rende necessaria esclusivamente per fatto e colpa del condominio, che pur ripetutamente diffidato dal proprietario del lastrico solare non provvede con tempestività, per esempio, alla sistemazione della grondaia causa del danno, la conseguente spesa grava sul condominio in proporzione al valore di piano di ciascun condomino, compreso il denunciante. Se una parte del lastrico solare aggetta rispetto al fabbricato e non funge quindi da copertura a sottostanti unità immobiliari, la riparazione di essa fa carico al proprietario esclusivo, in quanto assimilabile a una terrazza a livello.Il criterio previsto dall'art. 1126 c.c. trova applicazione, ai sensi del successivo art. 1139, anche nel caso del cosiddetto condominio minimo, ossia formato da due soli condomini; pertanto un terzo della spesa fa carico al proprietario esclusivo del lastrico solare, mentre i restanti due terzi fanno carico al condomino alla cui unità immobiliare il lastrico serve da copertura.Il criterio di ripartizione della spesa previsto dall'art. 1126 c.c. si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal proprietario del lastrico. In tale ipotesi, pertanto, sia le spese di riparazione che il risarcimento degli eventuali danni gravano esclusivamente sul proprietario, ai sensi dell'art. 2051 c.c., con possibilità di rivalersi, ricorrendone i presupposti, sul costruttore. Proprietari di negoziIl principio della proporzionalità fra spese e uso di cui al secondo comma dell'art. 1123 c.c., secondo cui le spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne, comporta che, qualora la possibilità dell'uso sia esclusa, con riguardo alla destinazione delle quote immobiliari di proprietà esclusiva, per ragioni strutturali indipendenti dalla libera scelta del condomino, debba essere escluso anche l'onere, in capo al condomino stesso, di contribuire alle spese di gestione del relativo servizio. È questo il caso dei proprietari di negozi che la Cassazione (sentenza n. 5179 del 29/4/1992) ha esonerato dalle spese relative ai servizi di giardinaggio, piscina e portineria, cui non avevano accesso. Un regolamento contrattuale potrebbe comunque prevedere che anche i proprietari di negozi siano tenuti a concorrere alla spesa dei suddetti servizi, nonostante non vi abbiano accesso.
Spese anticipate dall'amministratore o da un condominoSe l’amministratore ha anticipato nell’interesse del condominio una spesa non approvata o ratificata dall’assemblea, per avere diritto al rimborso, deve dimostrare che si trattava di spesa urgente e riferirne alla prima assemblea, oltre, naturalmente, a fornire prova degli esborsi sostenuti (art. 1134 c.c.). Se il rimborso avviene con ritardo, l’amministratore può pretendere gli interessi legali sul dovuto, con decorrenza dal giorno in cui la spesa è stata effettuata, oltre al risarcimento dell'eventuale danno (Cassazione 30/3/ 2006, n. 7498). Non può invece pretendere la rivalutazione della somma, trattandosi di debito cosiddetto di valuta.Anche il condomino che abbia anticipato, senza autorizzazione dell’assemblea o dell’amministratore, una spesa occorrente alla conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso da parte degli altri condomini, a condizione che dimostri che si trattava di spesa urgente.Ma quand’è che una spesa può definirsi urgente? A questa domanda ha risposto la Cassazione, che con sentenza n. 6440 del 6/12/1984 ha precisato che si può definire urgente la spesa che, secondo la valutazione di una persona di media diligenza, appare indifferibile se si vuole evitare un possibile, anche se non certo, danno alla cosa comune: la Suprema Corte ha considerato tale, per esempio, la spesa sostenuta per opere la cui esecuzione era stata ordinata dal Sindaco nell'esercizio dei poteri attribuitigli dalla legge in materia edilizia.L'onere di provare che si tratta di spesa urgente spetta naturalmente a chi ne chiede il rimborso; in particolare, si deve provare sia che sussistano le condizioni che impongono di provvedere senza ritardo, sia la possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini.Nell'epoca del fax, del cellulare e delle email, è raro che non si riesca a comunicare agli altri condomini, con la dovuta tempestività, l'esigenza di provvedere ad una spesa urgente. Nei casi, comunque, in cui i condomini (o alcuni di essi) fossero raggiungibili di persona ma non sia possibile convocare l'assemblea in tempo utile, l'amministratore o il condomino che intenda effettuare la spesa urgente potrà sottoporre alla firma dei condomini che riesce a contattare una dichiarazione di adesione all'effettuazione della spesa e di obbligo a contribuirvi in ragione della propria quota; la stessa Cassazione, infatti, ha successivamente precisato (sentenza n. 10738 del 3/8/2001) che il condomino che abbia anticipato una spesa comune ha diritto al rimborso a condizione che abbia precedentemente interpellato, o quando meno preavvertito, gli altri condomini o l’amministratore, e fornisca la prova sia della loro trascuratezza che dell’urgenza della spesa.
Se il condomino è moroso Può accadere che uno o più condomini non paghino il dovuto alla prevista scadenza. L’amministratore deve pertanto attivarsi per il recupero coattivo (e preferibilmente tempestivo) del credito, inviando al debitore un sollecito a mezzo lettera raccomandata e, battuta senza esito questa strada, provvedendo a richiedere alla competente Autorità Giudiziaria un decreto ingiuntivo. Se poi il regolamento del condominio lo prevede, l’amministratore può, nei confronti del condomino moroso da almeno un semestre, sospendere l'erogazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato; questa possibilità, però, è stata esclusa dal Pretore di Roma (sentenza del 4/12/1997) nel caso in cui il recupero del credito non sia considerato a rischio.Un deterrente alla morosità condominiale potrebbe essere, a parte l’obbligo, in capo al condomino ritardatario, di corrispondere al condominio gli interessi legali sugli importi pagati con ritardo, quello di prevedere un’indennità di mora a carico dei ritardatari, da acquisire alle casse del condominio; il suo importo, però, non dev’essere eccessivamente gravoso, ad evitare che, in caso di contestazione, possa essere ridotto dal giudice ai sensi dell’art. 1384 c.c.Una cosa, invece, che l’amministratore non può fare, è affiggere nell’androne condominiale l’elenco dei condomini morosi, con l’invito a mettersi in regola o addirittura con l’indicazione dell’importo dovuto; l’Autorità garante della protezione dei dati personali, infatti, ha stabilito che questo tipo d’iniziativa contrasta con il diritto alla privacy dei destinatari, mentre la Cassazione (sentenza n. 35543 del 26/9/2007) ha addirittura ravvisato il reato di diffamazione nell’affissione nella bacheca condominiale, potenzialmente accessibile anche agli estranei, dell’elenco dei condomini morosi. La stessa Autorità garante, con nota del 21/7/2008, ha precisato che l’amministratore può comunicare ai creditori del condominio i nominativi dei condomini morosi, i millesimi di cui sono titolari e gli importi dovuti.In caso di effettiva, improrogabile urgenza, per esempio se c’è in corso un'azione esecutiva nei confronti del condominio tendente al recupero della somma, o se si tratta di pagare la fornitura del carburante nell’imminenza dell’accensione dell’impianto di riscaldamento, l’assemblea può, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000 in prima convocazione, e con il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio in rappresentanza di almeno 334 / 1.000 in seconda convocazione, deliberare di ripartire fra gli altri condomini la quota dovuta dal condomino moroso, salvo ad intraprendere nei suoi confronti un’azione legale per il recupero del dovuto.
Se il condomino muore In caso di decesso del condomino gli eredi, ai sensi dell'art. 752 c.c., devono contribuire al pagamento delle spese condominiali cui era tenuto il loro dante causa in proporzione alla rispettiva quota ereditaria, salvo che il testatore abbia disposto diversamente. Gli eredi possono evitare il pagamento dei contributi condominiali rinunciando all'eredità o accettandola con il beneficio d'inventario.Con la rinuncia l'erede non percepisce nulla dell'eredità a lui devoluta; si opta per la rinuncia all’eredità quando vi è la certezza che i debiti del defunto superano le attività, ad evitare di essere chiamati a rispondere per la differenza con il proprio patrimonio, dal momento che l’accettazione pura e semplice comporta la confusione dei patrimoni: quello del defunto e quello dell’erede.Sicuramente preferibile, qualora non si abbia la certezza che il valore dei beni ereditati coprirà i debiti del defunto (indicato anche come de cuius, dall’espressione latina de cuius hereditate agitur, ossia colui della cui eredità si tratta), l'accettazione con beneficio d’inventario, ricevuta a un notaio o dal cancelliere del Tribunale nel cui circondario si è aperta la successione, consistente nel redigere nelle forme di legge l'inventario dei beni lasciati dal defunto e nel pagare debiti e spese gravanti sull'eredità, con l'eventuale residuo che andrà all'erede.
Acquirente dell’immobile e spese Il secondo comma dell’art. 63 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile stabilisce che chi subentra nei diritti di un condomino (si pensi a un acquirente o a un erede) è obbligato, in solido con questo, al pagamento dei contributi condominiali relativi all'anno in corso e a quello precedente; quello che conta, hanno precisato i giudici, non è l'anno solare ma l'anno di gestione, anno la cui decorrenza potrebbe anche non coincidere con quella dell'anno solare, tutto dipendendo da come è stata impostata la gestione del condominio.Ciò significa che l'amministratore può rivolgersi, per il pagamento, indifferentemente al venditore o al compratore (il criterio è comunque estensibile, per esempio, al rapporto donante-donatario), col risultato che, se è questi a pagare, dovrà attivarsi per il recupero della somma nei confronti del venditore. Nel concetto di “contributi” di cui parla la citata norma rientrano non solo la quota, generalmente mensile, che viene periodicamente versata all'amministratore, ma anche le spese straordinarie (per esempio rifacimento del tetto, sostituzione dell'ascensore). In particolare, l’obbligo di contribuire alle spese sorge (Cass. 2/9/2008, n. 22034) per effetto della delibera dell'assemblea che approva le spese stesse; pertanto, nel caso di alienazione di un appartamento, obbligato al pagamento è chi risulta proprietario nel momento in cui la spesa viene deliberata.Attenzione, infine, a non acquistare senza garantirsi da chi sia in debito, oltre che dei contributi condominiali, anche delle spese legali sostenute dal condominio per il recupero coattivo del credito: il Tribunale di Roma (sentenza del 17/10/1996), infatti, ha stabilito che la solidarietà dell'acquirente si estende ad esse, salvo a rivalersi nei confronti del venditore-debitore.L'obbligo di pagare le spese condominiali presuppone l'acquisto della proprietà di una porzione dell'edificio (cosa che non avviene con un semplice contratto preliminare), e pertanto non grava sul promissario acquirente (intendendosi per esso il compratore chi abbia sottoscritto un contratto preliminare di vendita), neppure se abbia effettuato spontaneamente alcuni pagamenti. E’ fatto ovviamente salvo il diverso accordo fra le parti.Se, infine, un regolamento contrattuale esonera un condomino dal contribuire a una certa spesa condominiale, in caso di vendita dell'unità immobiliare si presume salvo prova contraria, che il beneficio abbia, come si dice tecnicamente, natura reale (ossia che riguardi il bene prescindendo d chi ne sia proprietario), con conseguente estensione ai successivi titolari (per esempio acquirenti, eredi) dell’unità immobiliare.
Spese e locazioneL’art. 9 della legge 27/7/1978, n. 392, dispone che sono interamente a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni. In particolare, le spese per il servizio di portineria sono a carico del conduttore nella misura del 90% (restando l’altro 10% a carico del locatore), salvo che le parti abbiano convenuto una misura inferiore. Tenuto a pagare i contributi condominiali è, nei confronti del condominio, il condomino-locatore e non il conduttore. Di fatto, in base a specifica clausola contenuta nel contratto di locazione, a pagare è il conduttore; se però questi non paga l'amministratore non può agire legalmente nei suoi confronti ma deve attivarsi nei confronti del condomino. Il condomino-locatore che sia stato costretto a pagare potrà ovviamente rivalersi nei confronti del conduttore, se del caso con un'azione di sfratto per morosità. Ciò vale anche per le spese di riscaldamento; nonostante, infatti, il conduttore abbia diritto di voto al posto del locatore nelle assemblee riguardanti la gestione di questo servizio, l'azione dell'amministratore dev'essere rivolta esclusivamente nei confronti del condomino-locatore. Il diritto del locatore al pagamento degli oneri condominiali posti a carico del conduttore si prescrive nel termine di due anni.
Spese e usufruttoNon è infrequente che la proprietà di un appartamento spetti a un soggetto (nudo proprietario) e il godimento dello stesso a un’altra persona (usufruttuario). In tale ipotesi di fronte al condominio tenuto a pagare è il nudo proprietario, che si rivale nei confronti dell’usufruttuario per la quota di spesa da questi dovuta (Trib. Milano 5/10/1998). Nei rapporti interni fra nudo proprietario e usufruttuario, questi, ai sensi dell’art. 1004 c.c, è tenuto a farsi carico delle spese e, in genere, degli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione e alla manutenzione ordinaria della cosa, nonché a corrispondere al nudo proprietario gli interessi legali sulle somme da questi spese per riparazioni straordinarie (terzo comma art. 1005 c.c.). Se però si tratta di spese conseguenti all’inadempimento degli obblighi riconducibili alla manutenzione ordinaria, esse sono a carico dell’usufruttuario e non del nudo proprietario, anche se attinenti a riparazioni straordinarie.
Separazione e divorzioIn caso di separazione o divorzio l'assegnazione in godimento della casa familiare è gratuita; di conseguenza il coniuge che ne beneficia non è tenuto a corrispondere all'altro alcun corrispettivo, indipendentemente dal fatto che l'abitazione sia in comproprietà o in proprietà esclusiva di uno dei coniugi. La gratuità, però, non si estende alle spese ordinarie di condominio; di conseguenza obbligato al pagamento è il coniuge cui sia stato assegnato il godimento della casa familiare, restando ovviamente a carico dell'altro coniuge che sia unico proprietario dell'immobile il pagamento delle spese straordinarie: si pensi al rifacimento della facciata o alla sostituzione dell'ascensore.Se la casa è in comproprietà, fermo restando che il coniuge assegnatario è tenuto ad accollarsi le spese ordinarie, quelle straordinarie vanno ripartite fra i coniugi in proporzione alla quota di proprietà di ciascuno. Naturalmente se i coniugi, in sede di separazione consensuale omologata dal Tribunale, si sono accordati nel senso che sia il proprietario-non assegnatario a sostenere anche le spese ordinarie, troverà applicazione questo diverso criterio.Per quanto attiene, invece, ai rapporti coniugi-condominio, in mancanza di diverso accordo contenente l'indicazione di chi debba pagare, accordo che dev'essere idoneamente portato a conoscenza dell'amministratore, questi è legittimato a chiedere il pagamento soltanto al coniuge che risulti proprietario dell’appartamento.
Spese legaliRientrano fra le spese condominiali anche quelle sostenute dal condominio per intraprendere una causa o per resistere in una causa intrapresa da altri nei suoi confronti. Il condomino può, come previsto dall’art. 1132 c.c., dissociarsi dall’iniziativa giudiziaria, avendo cura di comunicare questa sua decisione all’amministratore nelle forme di legge. Di fronte a questa presa di posizione, pertanto, l’assemblea non può deliberare di addebitare pro-quota al condomino dissenziente le spese legali; una delibera siffatta sarebbe nulla, e quindi impugnabile senza limite di tempo, poiché solo l'unanimità dei condomini può modificare il criterio legale di ripartizione delle spese stabilito dal primo comma dell'art. 1132 c.c. Per il Tribunale di Bologna (sentenza n. 2618 del 12/10/2007) l'operatività dell'art. 1132 c.c. non va oltre l'esonero del condomino dissenziente dall'onere di partecipare alla rifusione delle spese di giudizio in favore della controparte, nell'ipotesi di esito della lite sfavorevole per il condominio, lasciando la norma immutato l'onere di partecipare alle spese affrontate dal condominio per la propria difesa.Se l’assemblea, prima di deliberare se intraprendere un’azione giudiziaria, incarica un avvocato, se del caso assistito da un tecnico, di formulare un parere sull’opportunità o meno di attivarsi, il condomino che si dissoci dalla successiva delibera con la quale l’assemblea decide di dar corso alla causa non può esimersi dal contribuire alla spesa richiesta dalla consulenza legale se non aveva impugnato la relativa delibera, trattandosi di onere non riconducibile alla difesa in giudizio ma propedeutico ad essa (Trib. Firenze 4/12/2006, n. 4149).Il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa. Se l'esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese di giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente.Il condomino, infine, che abbia vinto una causa nei confronti del condominio, non è tenuto a contribuire alle spese legali da questo sostenute, dovendosi ritenere il condomino implicitamente dissenziente rispetto alla lite (Trib. Civitavecchia 26/11/2007, n. 1806, con riferimento alla causa promossa da un condomino per infiltrazioni di acqua provenienti da una parte comune dell’edificio).
Il fondo speseNon v'è dubbio che, dal punto di vista dell’economia condominiale, lo stanziamento di un fondo spese comune, finalizzato alla copertura di spese impreviste o di una certa entità, sia senz'altro consigliabile, per ridurne l'impatto, a volte devastante, sul budget dei condomini. Dal punto di vista giuridico, questa forma di previdente accantonamento è legittima, a condizione però che venga deliberato all'unanimità (Cass. 21/8/1996, n. 7706).Se, soprattutto nell’attuale momento di crisi che sta attraversando il Paese, molte famiglie non riescono a sopperire neppure alle esigenze ordinarie, con conseguente impossibilità di pervenire ad una decisione unanime circa l’istituzione del fondo comune, nulla vieta che alla sua costituzione contribuiscano i soli condomini che l'hanno approvata, versando i relativi importi su un conto separato da quello riservato alla gestione condominiale e suddividendo fra i depositanti, in proporzione ai versamenti effettuati, sia gli utili (per esempio interessi bancari od obbligazionari) che le spese di gestione. Naturalmente il problema della separazione delle casse non si pone qualora l'accantonamento venga deciso all'unanimità. La Cassazione (sentenza n. 1553 del 13/2/1988) ha però riconosciuto la legittimità di un fondo di riserva deliberato a maggioranza e costituito dai canoni di locazione provenienti da alcuni locali condominiali.

giovedì 24 settembre 2009

Art. 126 bis Codice della Strada: un problema tormentato e infinito

Art. 126 bis Codice della Strada: un problema tormentato e infinito
Articolo di Renato Amoroso 18.11.2008

Art. 126 bis Codice della Strada – un problema tormentato e infinito
A cura dell’Ufficio del Giudice di Pace di Monza
(si ringraziano Roberto Ambrosini, Renato Amoroso e Andrea Mario Busca)
A seguito della contestazione non immediata di una violazione che comporti la decurtazione di punti della patente, con contestuale invito a comunicare i dati della persona fisica del conducente, si potranno verificare varie ipotesi di comportamento da parte del proprietario del veicolo:
Il proprietario dell’auto non comunica i dati del conducente; in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 27/2005 non si procederà a decurtazione di punti ma si applicherà al proprietario la sanzione di cui all’art. 126 bis, n. 2.
Il proprietario comunica i dati del conducente: non si procederà ad applicazione di alcuna sanzione a carico del proprietario ma si aprirà una fase di contestazione ed accertamento a carico della persona indicata quale conducente. Resta la responsabilità personale del proprietario per eventuali false dichiarazioni.
Il proprietario fornisce una risposta che non contiene elementi di identificazione del conducente, oppure precisa di non poter fornire i dati del conducente e motiva tale omissione con la impossibilità di accertare i movimenti dell’auto all’epoca della violazione, o con altra argomentazione. E’ il caso più frequente che riguarda, soprattutto ma non solo, le cosiddette auto aziendali o comunque intestate a persone giuridiche.
E’ stato opportunamente posto il quesito di quale sia il fondamento giuridico della norma di cui all’art. 126 bis che, nell’ultima parte del punto 2), dispone a carico del proprietario un obbligo giuridico di comunicazione di dati e, successivamente, prevede la sanzione per l’omissione di detta comunicazione. Come già ricordato dalla Corte costituzionale, la giustificazione risiede nella normativa generale della responsabilità soggettiva prevista dagli artt. 40 e 41 c.p., applicabili anche in tema di responsabilità civile o comunque personale (Cass.civ. 8 agosto 2000, n. 10414 – Cass. Sez. unite 11 settembre 2002, n. 30328). Il secondo comma dell’art. 40 c.p. dispone che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Anche il diritto civile, in ogni caso, conosce la responsabilità omissiva, quale violazione di uno specifico obbligo di fare.
Si può osservare che la comunicazione dei dati del conducente non equivale ad ammissione dell’addebito, assolvendo ad una semplice operazione storica di accertamento della conduzione del veicolo; non sembra che, sotto un profilo sistematico, tale risposta possa essere del tutto esauriente.
Non vi può essere dubbio che dalla richiamata norma discendano per il proprietario del veicolo due distinte conseguenze: sia l’obbligo di comunicazione dei dati del conducente, sia la sanzione relativa alla violazione di detto obbligo. Si tratta di fattispecie disciplinate distintamente, con separato regime sanzionatorio (art. 126 bis e art. 180 CdS) e tali norme sono frutto di un potere discrezionale del legislatore che non viola alcun principio costituzionale.
Resta da considerare l’inciso previsto dalla norma in ordine alla ipotesi di un giustificato motivo; si tratta di una esimente aperta, suscettibile di valutazione ponderata in rapporto al caso concreto. Il conflitto che si preannuncia riguarderà, da un lato, l’interesse pubblico alla repressione delle condotte illecite e la punizione dell’effettivo responsabile, mentre, dall’altro lato, si porrà la valutazione del fatto oggettivo che, pur sussistendo l’obbligo del cittadino alla collaborazione con l’ente pubblico per il raggiungimento di scopi di interesse collettivo, “ad impossibilia nemo tenetur”.
Il primo quesito concerne l’individuazione del soggetto competente alla valutazione del giustificato motivo addotto per la omissione dei dati del conducente. Poiché il destinatario primo della comunicazione del proprietario è l’autorità procedente, quest’ultima è titolare in via istituzionale del potere di valutazione discrezionale della fondatezza o meno delle motivazioni addotte, anche sotto il profilo dell’esercizio nell’interesse pubblico del potere di autotutela. Qualora, quindi, la P.A. ritenesse, per propria valutazione, di non procedere ad applicazione alcuna di sanzione a carico del proprietario, a causa della sussistenza di un giustificato motivo, nessuna illegittimità sarebbe riscontrabile in una simile decisione.
Ma l’ipotesi più probabile sarà quella dell’applicazione della sanzione, in forza dell’argomentazione contenuta alla lettera c) del punto 2) della circolare ministeriale del 4.2.2005 n. 300/A/1/41236/109/16/1. In detto documento si pone l’accento in via esclusiva sull’effetto prodotto dalla omissione dei dati, sottolineando il pregiudizio dell’interesse pubblico a perseguire l’effettivo responsabile dell’illecito. Tuttavia in tanto può comminarsi una sanzione ad un soggetto in quanto sussista a carico dello stesso una responsabilità; non basta il solo effetto negativo dell’impunità del conducente per poter affermare che, con certezza inoppugnabile, sussista una responsabilità in capo al proprietario. E’ consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, il convincimento della necessità di un accertamento rituale e puntuale del nesso di causalità fra condotta del soggetto ed evento negativo prodotto. Nella predetta circolare si vuole accreditare l’ipotesi di un automatismo fra insufficienza dei dati forniti dal proprietario ed obbligo della sanzione di cui all’art. 126 bis. Ma non è così semplice.
Nella fattispecie, infatti, non si può evitare di verificare che fra il contenuto della risposta e l’evento negativo della mancata punizione del responsabile possa sussistere una esimente della responsabilità omissiva a carico del proprietario del veicolo. Tale compito, molto verosimilmente, sarà affidato al Giudice di Pace nel momento in cui il proprietario, avendo ricevuto la sanzione di cui all’art. 126 bis, proponga ricorso sostenendo di avere rappresentato un giustificato motivo di impossibilità di fornire i dati del conducente.
In tal senso si è espressa la sentenza della Corte costituzionale n. 165/2008. Nel rigettare l’eccezione di incostituzionalità, la Corte osserva come il giudice rimettente “non avesse attribuito il dovuto rilievo «alla circostanza che agli illeciti amministrativi contemplati dal codice della strada si applica la disciplina generale dell'illecito depenalizzato di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il cui art. 3, nel subordinare la responsabilità all'esistenza di un'azione od omissione che sia "cosciente e volontaria", ha inteso, appunto, prevedere il caso fortuito o la forza maggiore quali circostanze idonee ad esonerare l'agente da responsabilità”.
Prosegue la detta sentenza osservando che “di conseguenza, la medesima ordinanza n. 244 del 2006, «alla stregua di tale duplice argomento ermeneutico (letterale e sistematico)», ha affermato che tra le varie interpretazioni della norma oggi censurata rientra anche quella che riconosce «la possibilità di discernere il caso di chi, inopinatamente, ignori del tutto l'invito "a fornire i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione", da quello di colui che, "presentandosi o scrivendo", adduca invece l'esistenza di motivi idonei a giustificare l'omessa trasmissione di tali dati».
Conclude la Corte “che debba essere riconosciuta al proprietario del veicolo la facoltà di esonerarsi da responsabilità, dimostrando l'impossibilità di rendere una dichiarazione diversa da quella "negativa" (cioè a dire di non conoscenza dei dati personali e della patente del conducente autore della commessa violazione); è una conclusione che discende anche dalla necessità di offrire della censurata disposizione, nella parte in cui richiama l'art. 180, comma 8, del medesimo codice della strada, un'interpretazione coerente proprio con gli indirizzi ermeneutici formatisi in merito alla norma richiamata, e secondo i quali essa sanzionerebbe il «rifiuto» della condotta collaborativa (e non già la mera omessa collaborazione) necessaria ai fini dell'accertamento delle infrazioni stradali. Inoltre, come anche affermato da questa Corte con l'ordinanza n. 434 del 2007, appare necessario precisare - per fugare «persistenti dubbi nell'interpretazione del testo originario dell'art. 126-bis, comma 2, del codice della strada» - che la scelta in favore di «un'opzione ermeneutica, che pervenisse alla conclusione di equiparare ogni ipotesi di omessa comunicazione dei "dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione", presenterebbe una dubbia compatibilità con l'art. 24 Cost.»; essa, infatti, «non consentendo in alcun modo all'interessato di sottrarsi all'applicazione della sanzione pecuniaria, si risolverebbe nella previsione di una presunzione iuris et de iure di responsabilità», con conseguente «lesione del diritto di difesa», dal momento che risulterebbe preclusa all'interessato «ogni possibilità di provare circostanze che attengono alla propria effettiva condotta». Resta, dunque, confermata, nell'applicazione anche del testo originario dell'art. 126-bis, comma 2, del codice della strada, la necessità di distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all'invito rivoltogli (contegno per ciò solo meritevole di sanzione) e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante dovrà essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle caratteristiche delle singole fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio”.
E’ lecito chiedersi a quali riscontri oggettivi potrà fare riferimento il Giudice, posto che le giustificazioni meramente soggettive non potranno costituire una esimente giuridicamente valida.
E’ appena il caso di ricordare che l’esenzione da responsabilità, pur in presenza di un illecito certo, costituisce un fatto eccezionale e che, pertanto, l’ipotesi dovrà essere esaminata con particolare prudenza e rigore. Il Giudice dovrà fare riferimento, per quanto possibile, a riscontri oggettivi certi.
In primo luogo, trattandosi di violazioni accertate senza contestazione immediata, la notifica del relativo verbale deve essere effettuata entro 150 giorni; si verificherà, pertanto, il caso costante di un certo lasso di tempo fra la violazione e la sua contestazione. Il fatto è tutt’altro che trascurabile, poiché è certamente oggettiva la difficoltà di ricostruire con esattezza i propri movimenti a distanza di alcuni mesi. E’ altrettanto fondata l’osservazione che ciò può costituire una lesione certa del diritto di difesa, poiché qualunque testimonianza di terzi, eventualmente acquisita a distanza di diversi mesi, sarebbe giustamente esaminata con molta diffidenza da qualsiasi giudicante. Resta quindi aperta la valutazione della possibilità o meno per il proprietario dell'auto di acquisire certezze in linea di fatto in ordine ad una ipotesi di violazione notificata a distanza di alcuni mesi. Per una ipotesi di passaggio con luce semaforica rossa, infatti, non si vede con quale mezzo di memorizzazione l’individuo possa conservare tracce sicure del proprio transito regolare o meno, in totale assenza di contestazione immediata e di qualunque segnale sonoro in occasione dell’illecito. La giustificazione di non poter fornire i dati del conducente in considerazione del tempo trascorso resta, quindi, tutta da valutare nel caso concreto.
Per talune categorie lavorative esiste un’agenda di appuntamenti e di movimenti che può fornire un riscontro, ma si tratta pur sempre di dati soggettivi ed autogestiti, per i quali non sussiste un obbligo di legge di tenuta e conservazione secondo criteri prestabiliti.
In secondo luogo si può ricorrere all’esame delle caratteristiche del soggetto proprietario, in caso di auto aziendale; una ditta formata da sole due persone (o da marito e moglie con quest’ultima senza patente e casalinga) potrà concretamente offrire nei termini poche possibilità di un giustificato motivo a sostegno della impossibilità di accertare l’effettivo trasgressore al momento della violazione. Una società composta da molti dipendenti e con una organizzazione di movimentazione auto variabile giornalmente potrà invece rivestire maggiore attendibilità. Gli elementi di prova in fatto, tuttavia, dovranno essere forniti dal soggetto che invoca l’esimente, e la loro insufficienza ricadrà a danno esclusivo del proprietario.
Infine si può fare ricorso al genere di attività del proprietario ed all’esame delle persone che possono avere avuto l’uso dell’auto, per motivi personali, familiari o aziendali. Anche quest’ultimo costituisce un esame in fatto e in forza di indizi, positivi o negativi, forniti dal proprietario stesso.
Sarebbe, invero, auspicabile un intervento chiarificatore, che non può essere affidato ad uno strumento amministrativo, quale la circolare ministeriale. Molto potranno fare le decisioni dei Giudici di merito che, tuttavia, saranno sempre ancorate alle caratteristiche peculiari del caso concreto.
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Si pone un ulteriore quesito, da coordinare con altre norme che disciplinano la materia.
L’art. 126 bis dispone che “L'organo da cui dipende l'agente che ha accertato la violazione che comporta la perdita di punteggio, ne dà notizia, entro trenta giorni dalla definizione della contestazione effettuata, all'anagrafe nazionale degli abilitati alla guida. La contestazione si intende definita quando sia avvenuto il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i procedimenti dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali ammessi ovvero siano decorsi i termini per la proposizione dei medesimi. Il predetto termine di trenta giorni decorre dalla conoscenza da parte dell'organo di polizia dell'avvenuto pagamento della sanzione, della scadenza del termine per la proposizione dei ricorsi, ovvero dalla conoscenza dell'esito dei ricorsi medesimi”.
Il provvedimento di decurtazione dei punti, pertanto, consegue alla comunicazione da parte dell’accertatore all’anagrafe, ma detta comunicazione non deve essere eseguita prima che l’accertamento sia divenuto definitivo, nel senso precisato dalla norma. Devono perciò ritenersi privi di effetto alcuno quei provvedimenti di decurtazione inviati contestualmente alla notifica della violazione o nel corso del procedimento di opposizione.
Dice ancora l’art. 126 bis: “La comunicazione deve essere effettuata a carico del conducente quale responsabile della violazione; nel caso di mancata identificazione di questi, il proprietario del veicolo, ovvero altro obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196, deve fornire all’organo di polizia che procede, entro sessanta giorni dalla data di notifica del verbale di contestazione, i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione. Se il proprietario del veicolo risulta una persona giuridica, il suo legale rappresentante o un suo delegato è tenuto a fornire gli stessi dati, entro lo stesso termine, all'organo di polizia che procede. Il proprietario del veicolo, ovvero altro obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196, sia esso persona fisica o giuridica, che omette, senza giustificato e documentato motivo, di fornirli è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 250 a euro 1.000.”.
E’ lecito porsi il quesito del possibile conflitto fra la pendenza del giudizio di opposizione e la richiesta dei dati del conducente, da coordinare con altre norme che disciplinano la materia.
Nel caso di pendenza di ricorso, visto che la norma stessa dispone che la sanzione accessoria della decurtazione possa essere applicata soltanto dopo l’esaurirsi della procedura giudiziaria, si può ritenere che l’organo accertatore debba inoltrare la richiesta di precisazione dei dati del conducente soltanto dopo che la contestazione sia divenuta definitiva, con il rigetto dell’opposizione (nell’ipotesi di accoglimento dell’opposizione, infatti, non vi sarebbe nessuna violazione e quindi non sussisterebbe alcuna necessità di accertamento del responsabile). Il proprietario opponente che si veda rigettare il ricorso, deve avere la possibilità di indicare i dati del conducente, effettivamente responsabile della violazione, anche nel momento in cui diviene definitiva la contestazione. Ciò corrisponde ad una corretta valutazione sistematica del complesso normativo.
Infatti, la stessa Corte Costituzionale, nella motivazione della sentenza 27/2005, pur non affrontando ex professo il tema, ha chiaramente precisato che “in nessun caso il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per l’annullamento del verbale di contestazione dell’infrazione” dovendosi intendere “definita” la contestazione “quando sia avvenuto il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i procedimenti dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali ammessi ovvero siano decorsi i termini per la proposizione dei medesimi”.
Sulla scorta del mutato assetto normativo a seguito della declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art.126 bis cds, ed in applicazione del principio richiamato, vanno quindi esaminate le varie fattispecie che possono presentarsi al vaglio giudiziale, nell’ottica dell’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine previsto per le comunicazioni richieste dall’art. 126 bis, comma 2 cds.
Ipotesi a): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale e non effettua alcuna comunicazione.
In tal caso la contestazione deve intendersi “definita”, nel senso evidenziato dalla Consulta, allo scadere del termine previsto per il pagamento della sanzione pecuniaria stabilita per la violazione contestata; il verbale infatti diventa definitivamente esecutivo per mancato pagamento nei sessanta giorni dalla sua notifica. Va tuttavia considerato che il proprietario avrà teoricamente ancora la disponibilità di sessanta giorni di tempo da tale scadenza per adempiere l’obbligo di comunicazione delle generalità e del numero di patente di colui che era effettivamente alla guida del mezzo.
In tal caso il verbale ex art. 180 ottavo comma cds sarà legittimamente emesso, non essendo intervenuta alcuna comunicazione, ma i termini di validità per la sua notifica dovranno farsi decorrere dal centoventesimo giorno (60+60) dalla notifica del verbale di contestazione.
Ipotesi b): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica, ma comunica nello stesso termine le generalità e del numero di patente di colui che era effettivamente alla guida del mezzo.
Si tratta dell’ipotesi “fisiologica”. In tal caso, il proprietario ha adempiuto l’onere informativo su di esso incombente, e quindi non sarà soggetto, se non quale obbligato solidale, né alla sanzione pecuniaria di cui al verbale di contestazione notificatogli, né a quella “derivata” di cui all’art. 180 ottavo comma cds. La P.A, dovrà quindi notificare un altro verbale di contestazione all’effettivo conducente, dalla cui patente verrà decurtato il relativo punteggio, ed il termine per tale notifica decorrerà dal giorno della comunicazione effettuata dal proprietario del veicolo sanzionato.
Ipotesi c): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale ma effettua la comunicazione dei dati del conducente oltre la detta scadenza.
Sebbene si tratti di ipotesi di difficile applicazione per ovvi motivi, tuttavia il sistema pare ammettere che il proprietario legittimamente comunichi i dati del conducente dopo la scadenza dei termini per il pagamento della sanzione recata dal verbale di contestazione e nei sessanta giorni da detta scadenza.
Da un lato il proprietario sarebbe soggetto al pagamento della sanzione pecuniaria prevista dal verbale di contestazione nella misura non più ridotta, essendo ormai lo stesso divenuto esecutivo definitivamente, mentre il conducente sarebbe soggetto alla sanzione della sola decurtazione del punteggio dalla patente di guida, sempre salva l’eventuale impugnazione da parte di quest’ultimo del verbale successivamente notificatogli (come si vedrà al paragrafo successivo). L’eventuale successiva notifica del verbale di cui all’art. 180 ottavo comma cds nei confronti del proprietario per pretesa tardiva comunicazione dei dati richiesti, ossia oltre i sessanta giorni dalla notifica del verbale di contestazione, ma comunque entro i 120 giorni dalla medesima, sarà quindi sicuramente impugnabile per manifesta illegittimità in quanto il relativo termine non poteva dirsi ancora scaduto al momento di detta comunicazione.
Ipotesi d): Il proprietario non paga la sanzione ed impugna nei termini il verbale di contestazione
Anche tale ipotesi ricorre frequentemente. Il proprietario, avendo motivi per opporsi al verbale, lo impugna nei termini di legge radicando un procedimento giurisdizionale in ordine alla legittimità dell’accertamento effettuato. In tale caso la contestazione non potrà considerarsi “definita” sino a che risulterà pendente il procedimento medesimo e quindi sino a che lo stesso non sarà deciso con un provvedimento con autorità di giudicato.
In realtà è facile che il verbale ex art. 180 ottavo comma cds sia notificato al ricorrente mentre ancora pende il giudizio di opposizione sul verbale di contestazione; invero, con le modifiche apportate dalla riforma del processo civile, ora la prima udienza viene fissata a non meno di 90 giorni più 20 per la notifica dal deposito del ricorso, mentre il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, considerando il termine dei sessanta giorni dalla notifica del verbale di contestazione, viene notificato entro i 150 giorni dal decorso di tali sessanta giorni e se il procedimento non si definisce alla prima udienza è facile che si verifichi una simile situazione. Orbene, poiché, come detto, il termine dei sessanta giorni per la comunicazione dei dati richiesti dall’art. 126 bis, comma 2, cds non può decorrere se non dalla definizione della contestazione, pendendo ancora il procedimento sulla contestazione stessa, l’eventuale opposizione al verbale ex art. 180 ottavo comma cds (nel frattempo notificato) da parte del ricorrente dovrà essere accolta, essendo lo stesso stato emesso illegittimamente.
Nella ipotesi in cui il procedimento di opposizione al verbale di contestazione sia già definito si deve considerare il suo esito.
Così in caso di accoglimento del ricorso, l’accertata illegittimità della contestazione esclude in radice la necessità di accertare l’effettivo responsabile. Infatti, nell’ipotesi in cui, successivamente all’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del verbale impugnato, il ricorrente si veda notificare un verbale ex art. 180 ottavo comma cds, per mancata comunicazione dei dati richiesti, e lo impugni per tale motivo, invocando la sentenza irrevocabile del giudice di pace emessa al riguardo, l’opposizione va senz’altro accolta.
In caso di rigetto del ricorso si deve invece accertare se la relativa sentenza sia stata impugnata o meno. Nel primo caso, pendendo un giudizio di appello avanti il tribunale, la contestazione non si può dire ancora “definita” nel senso divisato e quindi il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, eventualmente notificato al ricorrente, dovrà considerarsi illegittimo per gli stessi motivi sopra indicati.
Nell’ipotesi in cui la sentenza del giudice di pace non sia stata impugnata bisognerà accertare se siano o meno decorsi i termini per la sua impugnazione.
In caso negativo, potendo ancora essere proposta impugnazione, la contestazione non si può dire ancora “definita” nel senso divisato e quindi il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, eventualmente notificato al ricorrente, dovrà considerarsi illegittimo per gli stessi motivi sopra indicati.
In caso positivo invece, poiché la contestazione si deve intendere definita con il vano decorso del termine per l’impugnazione della sentenza di primo grado, il verbale ex art. 180 ottavo comma cds dovrà essere considerato legittimo solo se sia stato notificato nei 150 giorni successivi al decorso dei sessanta giorni dalla scadenza del termine per impugnare la sentenza di primo grado e quindi da quando è intervenuto il giudicato sulla contestazione.
Ipotesi e): Il proprietario paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale e non effettua alcuna comunicazione.
In tale ipotesi, che ricorre frequentemente, il proprietario, con il pagamento, riconosce implicitamente di essere anche conducente, ma ritiene di avere adempiuto compiutamente il proprio obbligo, il più delle volte perché non presta particolare attenzione a quanto indicato nel verbale in tema di conseguenze dell’omessa comunicazione ex art. 126 bis secondo comma cds.
Una volta ricevuta la notifica del verbale di cui all’art.180 ottavo comma cds il proprietario solitamente interpone opposizione e sostiene la propria buona fede, evidenziata comunque dalla volontà solutoria in ordine alla sanzione pecuniaria, ovvero dichiara di non aver effettuato alcuna comunicazione credendo di subire la decurtazione dei punti personalmente ed anzi invocandola in sede di impugnazione.
Si ritiene che in tal caso l’impugnazione sia da rigettare sotto entrambi i profili. Quanto al primo appare evidente l’applicazione del noto brocardo ignorantia legis non excusat, né può invocarsi la buona fede laddove viene evidenziato chiaramente l’obbligo di comunicazione imposto al proprietario dalla norma di legge e la relativa sanzione in caso di inadempimento (che figura in ogni verbale di contestazione differito che comporti la decurtazione di punti dalla patente di guida). Quanto al secondo, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 126 bis secondo comma cds, la decurtazione dei punti dalla patente di guida del proprietario del veicolo può conseguire solo ad una espressa comunicazione dei dati richiesti del conducente (mentre nel previgente regime tale comunicazione serviva ad evitare la decurtazione dei punti del proprietario del mezzo) con la conseguenza che il proprietario che vuole evitare la sanzione pecuniaria prevista dall’art.180 ottavo comma cds, preferendo la decurtazione dei punti dalla propria patente di guida, non può legittimamente ritenere che essa consegua automaticamente al pagamento tout court della sanzione prevista dal verbale, ma deve comunicare i propri dati entro il termine, come visto, dei sessanta giorni dal momento dell’avvenuto pagamento di tale sanzione, perché è con tale pagamento che la contestazione è stata “definita”, e non certamente in sede di impugnazione del verbale ex art.180 ottavo comma cds, in modo oltre che irrituale anche intempestivo.
In definitiva si può affermare che:
l’applicazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti è l’effetto della definitività dell’accertamento;
detta definitività matura a seguito del decorso del termine utile al ricorso, senza che questo venga proposto, o dalla sentenza che rigetta il ricorso ed in assenza di impugnazione;
prima della definitività, ogni provvedimento di decurtazione non ha effetti giuridici ed appare perciò illegittimo;
il proprietario ha l’obbligo di comunicazione dei dati ma potrà adempiere a detto obbligo sia nel termine di sessanta giorni dalla richiesta, in qualunque tempo inviata, sia entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza del rigetto del suo ricorso;
non sembra legittima l’applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 126 bis CdS fino a quando pende l’opposizione che, se accolta, annullerebbe il fatto illecito che forma il presupposto per l’applicazione di qualsiasi sanzione, principale o accessoria.
il proprietario che comunichi i dati del conducente entro sessanta giorni dalla conoscenza della sentenza di rigetto, ha diritto che si proceda alla decurtazione dei punti a carico del responsabile e non all’applicazione a proprio carico della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 126 bis comma CdS.
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Legittimazione al ricorso da parte del trasgressore effettivo, cioè del conducente, soggetto diverso dal proprietario.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha sempre negato la legittimazione attiva a proporre ricorso avverso la contestazione di violazione al codice della strada a persona diversa da quella alla quale è stato notificato il verbale. Nell’adottare tale linea costante di orientamento la Cassazione ha affermato che, essendo la notifica del verbale l’atto preordinato alla formazione del titolo esecutivo, il soggetto al quale non sia stato notificato tale verbale non avrebbe alcun interesse processuale alla proposizione del ricorso, in quanto nei suoi confronti non potrebbe mai prodursi un titolo idoneo alla riscossione coattiva della sanzione pecuniaria (si vedano Cass. Civ. sent. 11.01.2007, n. 325 e Cass.civ. sent. 19.06.2006, n. 14098).
Tale giurisprudenza, tuttavia, giudicava di casi concreti avvenuti in un’epoca anteriore alla introduzione della patente a punti. La decurtazione può colpire persona diversa dal proprietario del veicolo, al quale viene notificato il verbale, nei casi di contestazione non immediata. Inoltre mentre nella pena pecuniaria vi può essere solidarietà fra conducente e proprietario, per la decurtazione dei punti sussiste una responsabilità esclusiva del solo conducente, in quanto identificato.
Il mutamento del regime sanzionatorio ha quindi condotto sia la Corte costituzionale che la Cassazione ad una preziosa precisazione.
Cassazione civ. sent. 18.02.2008, n. 3948 afferma: “L'estinzione di una pecuniaria, prevista dal codice della strada, derivante dal pagamento in misura ridotta da parte del coobbligato solidale, proprietario dell'autoveicolo, non preclude al conducente, in qualità di autore materiale dell'infrazione, di proporre ricorso giurisdizionale al fine di evitare l'applicazione della sanzione personale relativa alla decurtazione di punti della patente di guida, conseguente alla violazione accertata (v. Corte Cost. n. 471 del 2005)”.
Nella detta sentenza la Corte Costituzionale così si esprimeva: “E’ evidente, quindi, che - una volta definita la vicenda relativa alla sanzione pecuniaria, in virtù' del pagamento in misura ridotta effettuato da taluno dei soggetti coobbligati solidalmente per la stessa, ex art. 196 del Codice della strada (soggetti, tra l’altro, a carico dei quali non si potrebbe írrogare la sanzione accessoria della decurtazione dei punteggio dalla patente di guida, secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 27 del 2005) – nessuna norma preclude al conducente ­del veicolo, autore materiale dell’infrazione stradale, di adire le vie giudiziali per escludere l'applicazione, a suo carico, della sanzione “personale" suddetta, Essa, oltretutto, non riveste più carattere accessorio, ma assume valore di sanzione principale per il contravventore, tale motivo presentandosi come l’unica suscettibile di contestazione in sede giudiziaria; contestazione, invece, preclusa per la sanzione pecuniaria, proprio per l'avvenuto pagamento della stessa in misura ridotta, da parte di uno dei coobbligati in solido.
E’ chiaro, infine, come l’iniziativa intrapresa dal contravventore non possa essere considerata propriamente diretta all'annullamento del verbale di contestazione dell'infrazione stradale ex art 204-bis del codice della strada, bensì al mero accertamento della sua illegittimità, al solo e specifico scopo di escludere che lo stesso possa fungere da titolo per irrogare a tale soggetto la sanzione della decurtazione del punteggio dalla patente di guida e da titolo per una eventuale azione di regresso”.
Anche alla luce del principio dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), pertanto, al soggetto che, con dichiarazione confessoria, si qualifichi conducente del veicolo al momento dell’infrazione contestata con notifica al solo proprietario, potrà essere riconosciuta legittimazione attiva a proporre ricorso, anche nell’ipotesi di acquiescenza e pagamento della sanzione pecuniaria da parte di quest’ultimo.
Aspetti giuridico-processuali
CLASSIFICAZIONE DELL’ILLECITO
Trattasi di illecito omissivo. L’istituto è noto al diritto penale, all’art. 40 – 2° comma c.p., ove si specifica che non impedire un evento che si ha l’obbligo di prevenire, equivale a cagionarlo. In realtà, nel caso de quo, si tratta più semplicemente di un inadempimento ad un obbligo di legge, che costituisce comunque una violazione. L’interesse pubblico tutelato, tuttavia, è quello della individuazione del reale trasgressore, al quale applicare la sanzione del tutto personale della decurtazione dei punti della patente. In tal senso l’obbligo de quo è stato anche classificato quale obbligo di collaborazione del cittadino con la Pubblica Amministrazione. La condotta illecita, in ogni caso, è essenzialmente un “non fare” in presenza di un obbligo di “fare”.
MOMENTO DI CONSUMAZIONE DELL’ILLECITO
L’illecito omissivo, allorchè la condotta dovuta debba essere adempiuta entro un termine di tempo prestabilito, si consuma allo spirare del termine utile, senza possibilità di recupero.
“In tema di fatti omissivi connessi alla mancata attuazione di una determinata condotta entro un termine prefissato, al fine di verificare se si tratti di reato istantaneo o di reato permanente è necessario considerare se, decorso inutilmente il termine penalmente sanzionato, la condotta prescritta non possa essere più tenuta utilmente, perché l'inosservanza del dovere ha cagionato in modo irreparabile e definitivo la lesione dell'interesse protetto dalla legge; ovvero se l'azione prescritta possa essere ancora utilmente tenuta, stante la persistenza dell'interesse giuridico sotteso alla norma penale incriminatrice” (Cassaz. penale, sez. IV, 3 giugno 1995).
“Per aversi reato omissivo istantaneo non basta che sia prefissato un termine per l'adempimento del dovere sanzionato penalmente ma è necessario che si tratti di termine oltre il quale l'azione prescritta non può essere utilmente compiuta, dato che la inosservanza del dovere ha prodotto in modo definitivo la lesione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice” (Cassaz. penale, sez. III, 20 maggio 1985).
La individuazione del momento di consumazione dell’illecito istantaneo e non permanente determina la competenza.
Il tempo della consumazione: è lo spirare del termine previsto per la comunicazione
Il luogo della consumazione: l’ultimo luogo, prima dello spirare del termine, nel quale avrebbe potuto essere adempiuto l’obbligo.
TIPOLOGIA DELLA CONDOTTA DOVUTA
Si tratta di una comunicazione scritta, da inoltrare ad un destinatario precisato. Si deve quindi presumere che il mezzo della comunicazione tramite servizio postale sia la modalità più comune (anche se non l’unica).
Il principio generale (ormai codificato dalle nuove norme del Codice di procedura civile a seguito della sentenza della Corte Cost. 26.11.2002, n. 477 e successive conferme) sancisce l’adempimento agli obblighi di notifica o comunicazione nel momento della consegna all’ufficiale postale o ufficio delle notifiche. Gli effetti per il notificante maturano dal momento dell’inoltro, restando estranei al mittente gli eventuali effetti negativi delle operazioni materiali di trasporto e consegna della comunicazione
La comunicazione può essere inviata da qualunque luogo sul territorio nazionale ma tale riflessione non porta a conclusioni significative. Poiché si discute della possibilità astratta della comunicazione, e quindi, dello spirare della possibilità concreta di inviare la stessa, si deve presumere che l’ultimo momento utile a tale invio si consumi nel luogo principale degli affari e degli interessi dell’obbligato, cioè la sua residenza.
PRIMA CONCLUSIONE
L’illecito si consuma nel momento e nel luogo in cui il trasgressore lascia spirare presso la sua residenza il termine utile per spedire la comunicazione, quindi sessanta giorni.
VERIFICA DELLE NORME DI ORDINE PROCESSUALE
NORME DEL C.P.C.
L’eventuale opposizione avverso la contestazione ha quale convenuto la Pubblica Amministrazione.
L’art. 25 c.p.c. indica il Giudice del luogo ove è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. In relazione all’art. 126 bis CdS, l’obbligo sorge al momento e nel luogo ove viene ricevuto l’invito, cioè la residenza dell’obbligato.
Il luogo ove deve essere eseguita l’obbligazione con la comunicazione, per quanto sopra già esposto, coincide con l’ultimo momento utile ad eseguire l’atto che comporta l’estinzione dell’obbligo: la residenza dell’obbligato resta il luogo più probabile.
Competenza territoriale
LEGGE 689/81
L’art. 22 determina la competenza per territorio del Giudice ove è commessa la violazione.
Senza ripetersi, la violazione dell’invito di cui all’art. 126 bis CdS e quindi la violazione dell’obbligo, sono commesse nel luogo di residenza del trasgressore (restando irrilevante la violazione della norma di comportamento che ha dato origine all’invito a comunicare i dati del conducente).
La Cassazione ha affermato più volte che, per tutto quanto non previsto dalla legge 689/81, devono applicarsi le norme processuali del giudizio ordinario civile.
NORME DEL C.P.P.
La legge 689/81 deriva dalla depenalizzazione di illeciti penali; l’impostazione sistematica di tale normativa è di natura penale e l’illecito omissivo è tipico del diritto penale. E’ d’obbligo, tuttavia, prendere atto che la detta legge non disciplina reati ma illeciti amministrativi. Non è quindi conferente il richiamo alle norme che regolano il processo penale. In via residuale, peraltro, anche l’esame delle norme che regolano la competenza per territorio in materia penale, di cui agli artt. 8 e 9 c.p.p., non portano a concludere per luoghi diversi dalla residenza dell’imputato.
La Cassazione con ordinanza n. 17580 in data 09/08/2007, in sede di regolamento di competenza, si è espressa nel senso della competenza del luogo ove è stata commessa l’infrazione originaria, pur senza addurre alcuna convincente motivazione al riguardo.
“È territorialmente competente a decidere l'opposizione avverso il verbale di contestazione della violazione dell'articolo 126 bis, comma secondo, cod. strada - sanzionante il proprietario del veicolo che senza giustificato motivo non comunichi nel termine previsto le generalità del conducente al momento della commessa infrazione - il giudice del luogo dove ha sede l'organo di polizia procedente, giacchè l'infrazione si consuma nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata omessa”.
Non risultano esaminate tutte le osservazioni sopraesposte.
In merito si è espresso il Ministero dell’Interno, con circolare PROT. N. M/2413/28, in risposta a segnalazioni da parte di alcune Prefetture, circa le incertezze e le difficoltà in ordine alla individuazione del Prefetto e/o del Giudice di Pace territorialmente competenti a decidere i ricorsi proposti avverso i sommari processi verbali di contestazione delle violazioni dell’art. 180, comma 8, CdS, violazione richiamata espressamente dall’art. 126 bis, comma 2 dello stesso Codice, ritenendo che:
- al fine di fondere la competenza del Prefetto e/o Giudice di Pace cui proporre ricorso avverso la condotta omissiva tenuta successivamente alla violazione contestata, il luogo della commissione di quest’ultima non possa assumere alcun rilievo e che debba, piuttosto, farsi riferimento al luogo di residenza dell’interessato.

Guida, sostanze stupefacenti, conducente, esame, presenza, principio attivo

Guida, sostanze stupefacenti, conducente, esame, presenza, principio attivo
Cassazione penale , sez. IV, sentenza 09.08.2009 n° 28219
http://www.altalex.com/index.php?idstr=70&idnot=47360

Ai fini della configurabilita' della contravvenzione di guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti, è necessario che lo stato di alterazione del conducente dell'auto venga accertato attraverso un esame tecnico su campioni di liquidi biologici, onde deve escludersi che lo stato di alterazione possa essere desunto da elementi sintomatici esterni, come invece e' ammesso per l'ipotesi di guida sotto l'influenza dell'alcool (articolo 186, C.d.S.), in quanto l'accertamento richiede conoscenze tecniche specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze.
Costituisce "opzione scientifica non arbitraria" il fatto che la presenza del principio attivo stupefacente persista per un certo arco temporale, della durata anche di diversi giorni, dopo l'assunzione dello sostanza.
Ciò implica che, astrattamente, tale circostanza potrebbe non costituire prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio di uno stato di "alterazione" da stupefacenti, che costituisce il proprium del reato di cui all'articolo 187 C.d.S.. (1-5)
(*) Riferimenti normativi: art. 187 C.d.S..(1) In materia di guida sotto l’influsso di sostanze stupefacenti, si veda Tribunale Savona, sentenza 02.04.2009 n° 354.(2) In materia di guida, sostanze stupefacenti e competenza, si veda Corte Costituzionale, ordinanza 13.03.2008 n° 54.(3) In tema di reato di guida in stato di ebbrezza e competenza del Tribunale, si veda Corte Costituzionale 133/07. (4) In tema di guida in stato di ebbrezza e disciplina dell’alcool test, si vedano Cassazione penale 19486/08 e Cassazione penale 43405/07.(5) In tema di guida in stato di ebbrezza e guida sotto effetto di stupefacenti, si veda Sanzioni Amministrative: manuale operativo, Adducci/Camilletti, Altalex eBook, 2008.
(Fonte: Altalex Massimario 32/2009) guida sostanze stupefacenti supefacenti droga conducente esame principio attivo
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza del 9 luglio 2009, n. 28219
(Presidente Rizzo, Relatore Piccialli)
FATTO E DIRITTO
Il GIP presso il Tribunale di Savona, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di "patteggiamento" avanzata nell'interesse di C.C.A., imputato dei reati di cui all'articolo 589 c.p., articoli 186 e 187 C.d.S., ha ritenuto di applicare la pena solo relativamente ai primi due reati, mentre ha prosciolto il prevenuto per la contravvenzione di cui all'articolo 187 C.d.S., ritenendo che l'esito degli accertamenti sui liquidi biologici non fossero bastevoli per dare la prova della condizioni di alterazione del conducente, sul rilievo che la "positivita'" in ordine alla presenza di sostanze stupefacenti nel sangue puo' risultare anche a diversi giorni di distanza dalla relativa assunzione, onde in difetto di apposita visita neurologica volta ad accertare la "perduranza" dello stato di alterazione dovuta all'assunzione di stupefacenti non poteva ritenersi raggiunta la prova della responsabilita'.
Avverso il proscioglimento parziale ricorre il Procuratore della Repubblica di Savona, che prospetta l'abnormita' del provvedimento gravato.
Il ricorso e' fondato, giacche' la decisione gravata, pur se non abnorme in senso tecnico, e' viziata sotto un duplice profilo, per evidenti violazioni di legge.
In primo luogo, sviluppando le doglianze del ricorrente, vi e' da rilevare come il giudice abbia esorbitato dai poteri/doveri attribuitigli dall'ordinamento in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti. Come e' noto, infatti, a fronte di una richiesta di "patteggiamento", e' potere/dovere del giudice quello di esaminare, prima della verifica dell'osservanza dei limiti di legittimita' della proposta di pena concordata, gli atti del procedimento al fine di riscontrare l'esistenza di una qualsiasi causa di non punibilita'. Tale operazione preliminare consiste in una ricognizione allo stato degli atti, che puo' condurre ad una pronuncia di proscioglimento ex articolo 129 c.p.p. soltanto se le risultanze disponibili rendano "palese" l'obiettiva esistenza di una causa di non punibilita', indipendentemente dalla valutazione compiuta dalle parti e senza la necessita' di alcun approfondimento probatorio e di ulteriori acquisizioni (cfr. Sez. un. 25 novembre 1998, Messina). Ne deriva, coerentemente, che qualora non ricorra alcuna delle ipotesi previste dall'articolo 129 c.p.p., la motivazione al riguardo e' sufficiente che contenga menzione dell'avere il giudice effettuato la verifica richiesta dalla legge e dell'insussistenza di alcuna delle ipotesi riconducigli al citato articolo 129 c.p.p. (tra le tante, cfr. Sezione 4, 3 dicembre 2003, Okorie).
Nella specie, il giudice e' andato oltre i limiti suindicati, laddove ha inteso affrontare e risolvere una tematica inconciliabile con il limitato spazio valutativo imposto dalla corretta applicazione dell'articolo 129 c.p.p..
Infatti, la giurisprudenza, sul punto, e' assolutamente costante: tra le tante, Cassazione, Sezione 4, 6 giugno 2007, Loffredo; Sezione 4, 7 febbraio 2007, Macchiarelli; Sezione 4, 1 marzo 2006, Orsini; nonché, Sezione 4, 28 aprile 2006, Verdi, ai fini della configurabilita' della contravvenzione di guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti, è necessario che lo stato di alterazione del conducente dell'auto venga accertato attraverso un esame tecnico su campioni di liquidi biologici, onde deve escludersi che lo stato di alterazione possa essere desunto da elementi sintomatici esterni, come invece e' ammesso per l'ipotesi di guida sotto l'influenza dell'alcool (articolo 186 C.d.S.), in quanto l'accertamento richiede conoscenze tecniche specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze.
Tale accertamento risultava, nella specie, essere stato effettuato e, cio', ai limitati fini del "patteggiamento" poteva e doveva escludere una soluzione liberatoria ex articolo 129 c.p.p.. Diverso discorso, infatti, si sarebbe potuto fare, ma solo in sede di processo di merito, con riferimento alla tematica evocata dal giudicante circa la possibile non corrispondenza tra esito positivo del riscontro sui liquidi ed effettività dello stato di alterazione. E' tematica che potrebbe in astratto porsi in quanto secondo un'opzione scientifica non arbitraria, la presenza del principio attivo stupefacente persiste per un certo arco temporale (anche alcune settimane), dopo l'assunzione dello stupefacente, sicché potrebbe non costituire prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio di uno stato di "alterazione" da stupefacenti che costituisce il proprium del reato di cui all'articolo 187 C.d.S.. E' situazione, questa, che dovrebbe imporre il ricorso anche ad elementi di riscontro esterni in primo luogo, gli elementi sintomatici esterni trasferibili nel processo attraverso la deposizione degli operanti sì da poter pervenire, solo allora, ad una pronuncia di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio.
E' pero' tematica, come si e' detto, propria dell'accertamento processuale ordinario, inconferente rispetto alla diversa situazione del "patteggiamento" e, rispetto a questo, del proscioglimento ex articolo 129 c.p.p..
Sotto questo profilo, quindi, la sentenza merita censura.
A tali argomenti va soggiunto un ulteriore rilievo, pur non evocato direttamente nel ricorso. Il giudicante, in vero, operando una "frammentizzazione" della decisione rispetto alla richiesta concordata ha finito con il vulnerare il proprium dell'accordo pattizio.
Infatti, l'eliminazione di uno o più reati oggetto del "patteggiamento", modificando il quadro processuale valutato dalle parti in sede di richiesta della pena, determina la caducazione del "patteggiamento" nella sua interezza (cfr. Sezione 4, 1 luglio 2004, PG in proc. Temperini).
In conclusione, la sentenza va annullata senza rinvio e gli atti trasmessi al competente Tribunale.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Savona

Legittima la diagnosi genetica di pre-impianto sull’embrione a rischio

Legittima la diagnosi genetica di pre-impianto sull’embrione a rischio
Tribunale Bologna, sez. I, ordinanza 29.06.2009

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Stranieri: i flussi 2009 per la partecipazione a corsi di formazione e tirocini

Stranieri: i flussi 2009 per la partecipazione a corsi di formazione e tirocini
Decreto Ministero Lavoro 29.07.2009

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Dibattimento, prova penale, perizia, presupposti per l’ammissibilità

Dibattimento, prova penale, perizia, presupposti per l’ammissibilità
Tribunale Genova, ordinanza 07.07.2008
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Nel processo penale in cui è stata resa la superiore ordinanza, sono stati imputati, a vario titolo, il direttore strutturale dei lavori, il direttore di cantiere, il progettista strutturale dell’opera, il collaudatore in corso d’opera, per una serie di gravi reati (omicidio colposo, lesioni colpose crollo di costruzioni) conseguenti al crollo, avvenuto nel 2003, di un noto edificio genovese realizzato per un evento previsto per l’anno successivo.
Nel collasso in questione ha perso la vita un operaio, e altri sono rimasti feriti.
Il dibattimento è stato caratterizzato da una forte contrapposizione dialettica fra i vari giudicabili e i loro consulenti, giunta sino alla richiesta di espletare una perizia, la cui necessità non è stata ritenuta dal decidente per le ragioni su esposte.
L’istituto della perizia secondo il pre-vigente codice di rito
Giova quivi muovere da una premessa di carattere generale. Ogni considerazione di natura tecnica afferisce al codice di rito del 1930, sicché, di seguito, non si preciserà che la narrativa riguarda il precedente sistema,dovendo tale aspetto, d’ora in avanti, ritenersi implicito.
L’istituto della perizia è stato inserito, dal legislatore, nel CAPO III (Dei periti e dei consulenti tecnici) del LIBRO SECONDO che il codice di procedura penale ha intitolato: DELL’ISTRUZIONE.
La prima norma da esaminare è rappresentata dall’art. 314 del c.p.p., dedicata alla facoltà del giudice di procedere a perizia.
Estrema è la chiarezza della disposizione che fornisce, al preposto alla statuizione, questo strumento nel caso in cui si debba svolgere un’indagine per la quale necessitino particolari cognizioni di determinate scienze o arti. In guisa, le palesi esclusioni normative inflettono i temi dell’abitualità, della professionalità nel reato, della tendenza a delinquere, del carattere e della personalità dell’imputato, nonché delle qualità psichiche svincolate da patologie.
La perizia è disposta d’ufficio ma può, in alternativa, essere richiesta, all’istruttore, dalle parti interessate.
Il sistema faculta il giudice, in ogni stato e grado del procedimento, ad incaricare uno o più periti di compiere una nuova indagine, sia pur vincolata agli stessi quesiti sottoposti ai precedenti esperti.
Interessante è osservare l’evoluzione della giurisprudenza all’uopo.
Per la suprema Corte di cassazione, è vietato sostituire l’indagine tecnica con altro mezzo quando vi siano i presupposti per disporre la perizia (sez. VI, 12.10.1979, Perciabosco) alla cui ammissione il giudice è obbligato per la decisione nel caso debba procedere ad indagini espletabili solo avvalendosi di cognizioni di scienze ed arti (sez. V, 25.02.1977, Marzollo), pur potendo escludere, insindacabilmente in punto legittimità, il mezzo istruttorio mediante adeguata e logica motivazione (sez. I, 27.11.1978, Manco).
In alternativa alla perizia si pone la valutazione del peritus peritorum che attinga alle proprie conoscenze per giudicare e per coerentemente motivare (sez. IV, 25.10.1971, Furnari), così come nel caso di attività collegiale dalla quale sortisca un contrasto fra essenziali circostanze individuate dagli esperti (Cass. 10.07.1948, Grande).
Gli articoli 315 e 315-bis regolamentano il profilo dell’incapacità dei periti e quello della loro incompatibilità e ricusabilità. Le disposizioni in argomento non abbisognano di alcun corredo interpretativo, dedotta la loro estrema chiarezza.
La rubrica dell’art. 320 del c.p.p. attiene al compimento della perizia del giudice e non riguarda altri aspetti (ad esempio, quelli della polizia giudiziaria);il successivo art. 323 prevede la facoltà delle parti private di nominare consulenti tecnici che, nell’alveo vincolante della CTU, possono presentare od inoltrare osservazioni o riserve al giudice, sino a domandare di esaminare la persona o la cosa oggetto della perizia (ibidem art. 324 del codice di rito).
Il complesso tema della prova,già in costanza del pre-vigente sistema, verte sul confronto di due aspetti che, talvolta, possono assumere, soltanto apparentemente, la prevalenza dell‘uno sull‘altro: il libero convincimento del giudice e la perizia.
Ogni strumento per accertare il fatto,se non vietato dalla legge,assurge a (valido) presupposto per un giudizio legittimo; talché, l’elencazione, pre-costituita,dei mezzi di prova è puramente indicativa, rispetto alla centralità del libero convincimento del giudice che si rintraccia nella motivazione della decisione; almeno allorquando essa non sia la sintesi di postulati di natura esclusivamente assertiva.
La libertà - nella fase valutativa-decisionale - può anche segnare il superamento del contenuto della prova legale, purché costituisca l’apprezzamento delle effettive risultanze processuali.
Sicché, una perizia disattesa può anche appalesarsi come un coerente antecedente logico, il segnale di una statuizione che, con coerenza, ne svilisca la portata ed il valore.
La metamorfosi cognitiva che si risolve nell’elisione di un principio che, geneticamente, appartiene all’hortus clausus della scelta.
Il rischio. L’abuso del diritto. Cenni
Quanto alla decisione del tribunale di Genova in commento, è pacifico come la richiesta di espletare una perizia a dibattimento in corso (e quasi in esaurimento),al di là dell’imprescindibile diritto delle parti,possa rappresentare, in concreto, anche se in via mediata, un’iniziativa che favorisce il maturare della prescrizione del reato;soprattutto in caso di evento risalente nel tempo.
Pertanto, sul più generale tema della ragionevole durata del processo (indipendentemente dalle cause che generano il suo protrarsi), si impone una riflessione globale,anche in ossequio alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e, in particolar modo, alla circolare del C.S.M. del 6.7.2000.
L'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, entrata in vigore, nel nostro ordinamento, soltanto nel 1955, sancisce «il diritto di ogni persona ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta».
La proposizione, sinteticamente espressiva di fondamentali principi giuridici elaborati dai sistemi europei tanto di civil law che di common law, ha trovato un ulteriore riconoscimento nell'art. 111 Cost., nel quale, tra l'altro, si è ritenuto di ribadire che «La legge assicura la ragionevole durata del processo in condizioni di parità tra leparti e di imparzialità e terzietà del giudice».
E' stato condivisibilmente sostenuto come - in ordine alla durata del processo - sia innegabile che essa (durata), vista in negativo, costituisca – a posteriori - tanto un pregiudizio ingiusto per la parte vittoriosa, quanto - nel corso del processo - un inevitabile, riprovevole pedaggio che la parte privata deve ingiustamente scontare in conseguenza di iniziative processuali delle parti di natura dilatoria, pretestuosa e strumentale.
Perciò, ponendosi il problema della qualità effettivamente democratica dei rapporti tra cittadini e Stato e avuto riguardo, non secondariamente, alla tempestività della risposta istituzionale alla richiesta di giustizia,sinonimo di unica e concreta garanzia di effettività dei diritti, la giurisprudenza della Corte europea ha, in questi decenni, sempre più efficacemente elaborato i criteri fondamentali in materia di ragionevole durata del processo, affermando che la realizzazione dell’equo processo costituisce un vero e proprio obbligo di risultato per il singolo Stato, e che - ai fini della cd. valutazione globale per l’accertamento di un'infrazione all'art. 6 della Convenzione - deve aversi riguardo alla complessità del giudizio, al comportamento delle parti, al comportamento del giudice e degli organi di cancelleria, parametri mediante i quali valutare il lasso temporale complessivo intercorso tra la data di inizio della vertenza e la sua naturale conclusione.
Pur senza finalità esaustive, quanto al comportamento del giudice, sono state approfondite le dinamiche attinenti alle udienze di mero rinvio, ai rinvii su istanza delle parti ed alla durata delle attività peritali, significativamente affermandosi, rispetto a tali dati, addirittura l'irrilevanza della disorganizzazione dell’ufficio giudiziario, indipendentemente dalle sue cause.
Segnatamente, si è dedotto come, quanto alle udienze di mero rinvio, il principio dispositivo nell'ordinamento processuale italiano investa l'an ma non anche il quomodo, disponendo il giudice dei poteri di conduzione espressamente riconosciutigli dal codice di rito.
Analogamente, quanto all'espletamento della ctu,si è riaffermata la responsabilità dello Stato in caso di mancata tempestiva sostituzione del perito che ritardi nel deposito della relazione, anche in tal caso dovendosi imputare il conseguente ritardo - non sanzionato - all'organo giurisdizionale.
I richiami alla effettività dei diritti di giustizia, già presenti sin dal 1980 nel massimario,sono sempre più attuali nelle decisioni di condanna dell'Italia, tanto da assumere, dal 1985 in poi, una frequenza statistica inquietante per sistematicità e puntualità: lo Stato italiano è divenuto il principale accusato dalla Corte, tanto da rilevarsi, negli ambienti delle istituzioni europee, come il crescente numero di ricorsi provenienti dalla patria del diritto destasse fondate preoccupazioni per l’effetto paralizzante che tale carico di lavoro sortisce sui lavori della suddetta Corte, la quale è chiamata a pronunciarsi, in maniera quasi esclusiva, su mere questioni di calcolo connesso alla lunghezza dei processi.
Un unico dato per tutti: nella nota della Rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio d'Europa si legge come, dall'inizio del 2000, sino al 15 febbraio dello stesso anno, siano stati depositati 741 (settecentoquarantuno) ricorsi contro l'Italia e come, nel medesimo periodo, il comitato dei ministri e la Corte europea abbiano rispettivamente pronunciato 110 (centodieci) decisioni e 74 (settantaquattro) sentenze con un onere complessivo pari a 4,8 miliardi.
Situazione critica, tanto più grave alla luce dei recenti orientamenti del Giudice europeo, che, con un salto di qualità in funzione marcatamente punitiva, ha evidenziato il carattere patologico assunto, nel nostro Paese, dalle violazioni sulla durata del processo, rilevando la Corte l'insorgere di una pratica sistematica ed ontologicamente incompatibile con la Convenzione.
La svolta giurisprudenziale è destinata ad incidere concretamente sulle future decisioni europee, sia in ordine alle regole dell'onere della prova per l'accertamento della violazione nel caso singolo, sia in merito all'applicazione delle condizioni di ricevibilità dei ricorsi per esaurimento dei rimedi interni.
È necessario, infatti, rilevare come, in Italia, l'esistenza di una pratica in contrasto con la Convenzione - per irragionevole durata dei processi - implichi una vera e propria presunzione di colpevolezza dello Stato italiano ogniqualvolta venga sollevata una siffatta questione, con l’aggravamento della posizione del convenuto, chiamato a dimostrare come, nel caso di specie, non si sia verificata nessuna violazione; vieppiù, dovendosi considerare come, attraverso tale formula, si sia apprezzata una forte ed evidente semplificazione del profilo motivazionale delle sentenze di condanna dell’Italia, con grave compromissione del diritto di difesa interno,soccombente (con inimmaginabili conseguenze pecuniarie) dinanzi alla Grande Camera.
La nuova formulazione della norma: verso una discrezionalità vincolata
Il comma 1 dell’art. 220 c.p.p., rubricato «oggetto della perizia», dispone che «la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche».
Va premesso che il transito dalla disposizione del codice abrogato a quella attualmente vigente si è sviluppato con l’intervento della L. 18 giugno 1955, n. 517, la quale ha modificato profondamente il testo originario dell’art. 314 c.p.p., pur lasciandone inalterata la rubrica - «facoltà del giudice di procedere a perizia» -. Il mutamento si è sostanziato nel sostituire, alla facoltà di disporre il mezzo istruttorio, l’obbligo di disposizione in presenza di certi, determinati presupposti. Il giudice, infatti, già dal 1955, «dispone la perizia con ordinanza».
Il legislatore delegato con l. 16 febbraio 1987, n. 81, all’emanazione del nuovo codice di procedura penale si è mosso sulla linea della discrezionalità vincolata del giudice nell’ammissione della perizia.
Sulla scorta della fondamentale prescrizione del comma 1 dell’art. 12 delle preleggi, secondo cui «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», si rileva come già il dato testuale stimoli una prima riflessione, di carattere strettamente linguistico.
Alla necessità di particolari cognizioni di determinate scienze o arti, il nuovo dettato sostituisce lo svolgimento di indagini o l’acquisizione di valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. L’aggettivazione è più ampia, comprendendo le specifiche competenze tecniche, mentre individua con miglior precisione la fruibilità delle perizie artistiche, introdotte nel nostro sistema normativo con L. 20.11.1971, n. 1062, «Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d'arte». Nell'ambito di tale ultimo genere di indagini, necessariamente implicanti giudizi di tipo estetico, si dà ingresso a valutazioni legate a parametri socio-culturali in continua evoluzione.
Ma la modifica importante sta nel servirsi dell’espressione «è ammessa quando occorre», per delimitare il campo dell’attività dispositiva della perizia da parte del Giudice di merito. Da un lato, è chiaro come, «quando occorre», la perizia non può non essere ammessa. Dall'altro, si registra evidente il passaggio dal piano delle necessità a quello delle utilità, e, quindi, dell’opportunità.
L'opzione legislativa, quindi, in continuità con quella del 1955, propende per la discrezionalità vincolata del giudice nella scelta del mezzo di prova de quo. Di tale discrezionalità, peraltro, vanno adeguatamente precisati i limiti e le caratteristiche.
Per affrontare tale riflessione non si può prescindere dalla considerazione del contesto giuridico-culturale nel quale la norma s’innesta, contesto che prende il nome di rito cd. adversary, come processo di parti che mira a coniugare garantismo e speditezza dell’accertamento.
In questo quadro, della compresenza e del necessario equilibrio fra tutela e stimolo del contraddittorio e riconoscimento del ruolo attivo delle parti, da un lato, e necessità di fruire di un processo di durata ragionevolmente breve, dall’altro, va intesa l’interpretazione della discrezionalità del giudice nell’ammettere la perizia d’ufficio.
Due aspetti, dei molti caratterizzanti il rito accusatorio, sembrano più rilevanti in questa sede.
Il primo riguarda l'eccezionale importanza dell'elemento probatorio, fondamento principe della decisione e, quando il fatto probando sia connesso a verità tecnico-scientifiche, tanto più incisivo sul libero convincimento del giudice.
Il secondo concerne la pluralità degli strumenti a disposizione nel processo per acquisire il contributo tecnico-scientifico, con un deciso potenziamento del ruolo delle parti e, con esse, dei loro consulenti.
Sotto quest'ultimo profilo, alla figura del giudice peritus peritorum delineata dal codice Rocco si contrappone l'imponenza del ruolo partecipativo delle parti, e la tendenza alla valorizzazione della collaborazione paritaria. Rileva, in proposito, il disposto del comma 2 dell'art. 226 c.p.p., secondo il quale il giudice, prima di formulare i quesiti da sottoporre agli esperti, è tenuto a sentire il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti. Con il che è evidente che l'istituto in parola nasce e vive, almeno potenzialmente, nella collaborazione e partecipazione dei soggetti coinvolti nel processo.
I criteri guida della discrezionalità vincolata
L’ordinanza in commento si misura con i due principi/criteri guida che s’impongono all’attenzione del giudice nella decisione se avvalersi o meno di propri - in quanto da esso nominati - esperti per verificare un determinato tema di prova.
Il primo di essi consiste nella necessità di colmare la lacuna conoscitivo-informativa, e di adoperarsi al massimo per ottenere ogni elemento utile al fine di giungere a una decisione completa e motivata sulla base di criteri più vicini possibile alla certezza, in settori nei quali il progresso scientifico, tecnico o artistico consente di avvalersi di strumenti cognitivi specifici.
Il secondo è principio di rango costituzionale, che impone di negare ingresso nel processo a tutte le attività non necessarie, a tutela della ragionevole durata del giudizio.
Il decidente genovese affronta il problema dell'ammissibilità della perizia verificando quanta parte dell'attività processuale sia stata dedicata a fornire materiale conoscitivo sui quesiti da risolvere e se, nell'acquisizione di tali elementi, sia stato lasciato il giusto spazio al contraddittorio fra le parti. Infine, se i dati acquisiti agli atti lascino ancora non definiti problemi tecnico-scientifici sottesi al quesito formulato. Nel caso negativo, osserva il giudice, occorre speditamente negare accesso alla perizia e proseguire il processo, in ossequio al principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
Il preposto, nel caso di specie, ha disatteso la richiesta di disporre perizia «accertato che dell'evento passato si possiede ogni dato conoscitivo che legittimamente appartiene a questo processo e che essi - i dati conoscitivi - esauriscono quanto è necessario per decidere».
Il Tribunale, pertanto, ha considerato se i dati conoscitivi a sua disposizione fino a quel momento fossero stati idonei a fornire una soluzione ai problemi tecnico-scientifici sottopostigli. Si tratta, in sostanza, di una verifica ex-ante di "decidibilità".
I suddetti dati conoscitivi possono trovare fonte nell’ambito del cd. "notorio", ma soprattutto proverranno dall’attività espletata dai consulenti delle parti, e offerta al giudice sotto la forma di relazioni, documenti, modelli, rappresentazioni, nonché dall’audizione dei consulenti stessi che si sottoposti ad esame ed a contro-esame.
Tale ultima attività, di chiarificazione, discussione, ragionamento e dibattito sulle prospettazioni tecnico-scientifiche avanzate dalle parti, consente al decidente (e alle parti stesse) di fruire di una versione del materiale tecnico fondante la decisione già sottoposta alla lente del contraddittorio.
Se, verificata l’esaustività del materiale conoscitivo, il giudice ritiene possibile dare soluzione al quesito, il secondo principio summenzionato interviene a imporre la non disposizione della perizia ed il rapido proseguire nelle fasi processuali.
Sembra, pertanto, che le parti siano investite di un ruolo fondamentale nella decisione sull’ammissibilità di un mezzo istruttorio che,nella giurisprudenza costante, è «sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito».
Quanto più i contraddittori si attiveranno per fornire al decidente materiale conoscitivo esaustivo, adeguato, e chiaramente comprensibile, tanto più egli sarà costretto a negare ingresso alla perizia d’ufficio, e a decidere sulla base di quanto da esse stesse prospettato.
Conclusioni
Da quanto sopra accennato, sembra potersi concludere che il giudice, nel decidere, vincolatamene, se ammettere o meno la perizia, è soggetto a due imperativi fondamentali: il primo gli impone l'ammissione, quando i dati acquisiti al processo non consentano la soluzione di tutti i quesiti probatori; il secondo muove in senso opposto, per negare la perizia e proseguire oltre, al fine di evitare che la durata degli accertamenti e, con essa, del processo, divenga irragionevole.
I due anzidetti postulati, peraltro, non sembrano dotati della stesa forza vincolante.
Mentre a presidio della ragionevole durata del processo la CGE ha sanzionato lo Stato italiano in innumerevoli occasioni - si veda, in punto, il par. 3 - il dettato codicistico, che prescrive la disposizione della perizia, continua a non essere corredato da alcuna sanzione.
Se, peraltro, kelsenianamente, l'imperatività di una norma non consiste nel suo prescrivere un comportamento, ma nella sua coattività, ovvero nel fatto che,alla mancata osservanza di quanto prescritto,deve seguire una sanzione (fondamento logico della normatività), le due spinte non sembrano operare ad armi pari. Tanto più che l'espressione «quando occorre», come già ricordato, pertinente alla sfera dell'opportunità, lascia uno spazio di valutazione piuttosto ampio, a fortiori quando il giudice si trovi a dover verificare se gli strumenti conoscitivi acquisiti gli consentano di decidere.
Tali valutazioni, riferite alla sola sfera del decidente, sembrano ben difficilmente sindacabili. Va altresì tenuto presente, in punto, che l'orientamento costante in giurisprudenza, confermato anche di recente, ha chiarito come «la perizia, per il suo carattere "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606, 1º comma, lett. d), c.p.p., in quanto giudizio di fatto che,se sorretto da adeguata motivazione è,insindacabile in cassazione» (Cass., sez. IV, 22 gennaio 2007, in Foro It., Rep. 2007, voce Cassazione penale, n. 33).
Così, anche Cass., sez. VI, 7 luglio 2003, in Foro it., Rep. 2004, voce Perizia penale, n. 2, sulla stessa linea ha statuito che «la perizia è un mezzo di prova essenzialmente discrezionale, essendo rimessa al giudice di merito, anche in presenza di pareri tecnici e documenti prodotti dalla difesa, la valutazione della necessità di disporre indagini specifiche; ne consegue che non è sindacabile in sede di legittimità, sempre che sia sorretto da adeguata motivazione, il convincimento del giudice circa l’esistenza di elementi tali da escludere la situazione che l’accertamento peritale richiesto dovrebbe dimostrare».
(Altalex, 10 settembre 2009. Nota di Giuseppe Maria Gallo e Francesca Bartolini, già pubblicata su Archivio della Nuova Procedura Penale n° 3/2009 (maggio-giugno).
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BIBLIOGRAFIA NOTEVOLE
Amodio E. - Perizia e consulenza tecnica nel quadro probatorio del nuovo processo penale, in Cass. Pen., 1989, pp. 170 ss.
Bielli D. - Periti e consulenti nel nuovo processo penale, in Giust. Pen., 1991, pp. 66 ss.
Calcagni C. - Ruolo del consulente tecnico nel nuovo processo penale, in Giust. Pen., 1992, pp. 558 ss.
Carini C. - Accertamenti tecnici, in Il diritto-Enc. Giur., Milano, 2007, vol. I, p. 18.
Conte M., Loforti R. - Gli accertamenti tecnici nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2006.
Conti C. - Perizia e consulenza tecnica, in Il diritto-Enc. Giur., Milano, 2007, vol. XI, p. 123.
De Cataldo Neuburger L. (a cura di) - La prova scientifica nel processo penale, Padova, 2007.
Gianfrotta F. - Oggetto della perizia, sub art. 220, in Comm. al nuovo c.p.p., coordinato da Chiavario M., Torino, 1990.
Scalfati A. – voce Perizia, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1997, vol. XXIII. dibattimento prova penale perizia Giuseppe Maria Gallo Francesca Bartolini
Tribunale di Genova
Ordinanza 7 luglio 2008
(Est. Mazza)
ORDINANZA
Il Giudice …
Quanto alla richiesta di procedersi a perizia sulla “causa del crollo” avanzata dalle difese di X e A, indifferente la difesa di B, contrarie le altre parti tutte
Osserva
la formulazione del comma primo dell’art. 220 codice procedura penale “la perizia è ammessa quando occorre” richiama l’attenzione sulla discrezionalità vincolata del giudice all’esito dell’accertamento presupposto … la perizia deve essere disposta una volta che il giudice abbia verificato la sussistenza del presupposto di ammissibilità dell’incombente … costituito dall’esistenza di un determinato tema di prova per la cui adeguata verifica occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche scientifiche o artistiche … nella gnoseologia accusatoria il perito è organo utile alle parti prima ancora che al giudice in quanto apporta le premesse indispensabili al contraddittorio, e contribuisce a razionalizzare il convincimento del giudice, evitando che questi si giovi di elementi completamente ignoti alle parti o faccia riferimento ad incerte ed evanescenti regole di esperienza …
La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che l’art. 220 comma primo non sancisce un obbligo assoluto ed incondizionato del giudice di avvalersi dell’ausilio di persone esperte nei vari rami della tecnica, della scienza o dell’arte …
Nel caso siano stati esaminati consulenti tecnici di parte è lecito desumere dalle loro dichiarazioni e dai loro chiarimenti elementi di prova e di giudizio ed è il ragionevole convincimento espresso dal giudice che afferma l’esistenza o l’inesistenza di elementi tali da escludere la situazione che l’accertamento peritale richiesto dovrebbe dimostrare …
Ancora una volta … è evidente che la questione per il giudice, al fine di stabilire se disporre o meno perizia, è constatare se i dati conoscitivi offerti dalle consulenze di parte siano tali da consentire la soluzione dei problemi tecnico scientifici sottesi al quesito formulato. Nel caso affermativo (se consentono la soluzione) v’è obbligo di non disporre perizia ed in ossequio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo, se conclusi gli incombenti istruttori, dichiarare chiuso il dibattimento e senza indugio passare alle conclusioni. Nel caso negativo (se non consentono la soluzione) v’è obbligo di disporre con sollecitudine perizia. Invero è la lettera della legge che ha sostituito il modale “può disporre” del codice del 1930 con l’assertivo “è ammessa” a fondare la correlazione tra i due obblighi, di disporre o di non disporre,in esito all’accertamento della sufficienza dei dati conoscitivi acquisiti. Delle ventidue udienze del processo, sette (più in parte una ottava) sono state esclusivamente dedicate ad approfondire in ogni sua sfaccettatura tecnica,in pieno e vivo contraddittorio, il tema per cui si chiede perizia: le cause del crollo,altre dodici alla ricostruzione dei fatti, tre alle questioni preliminari. In altri termini tutte le parti hanno avuto modo direttamente e con l’ausilio dei loro consulenti tecnici … di fornire dati conoscitivi e proporre la interpretazione di questi e dei fatti depositando altresì documentazione e scritti valutativi che si sono raccolti in diversi faldoni; i consulenti di ogni parte a loro volta sono stati sottoposti a controesame ed il contraddittorio è stato ricco, prolungato ed esauriente. Gli imputati che hanno ritenuto di sottoporsi ad esame sono stati invitati a procedere ed hanno proceduto … ad esporre liberamente anche questioni tecniche come consulenti di loro stessi. Accertata così la quantità e la qualità dei contributi frutto del contraddittorio, la loro comprensibilità giacché le parti si sono studiate di rendere le loro tesi utili al giudice presentandole anche con mezzi multimediali, modelli plastici, esperimenti in aula di fisica … si deve solo ancora esaminare se effettivamente tanta copia e tanta scienza è funzionale alla soluzione del quesito, ovvero per quanto oggi appare vi siano aporie irresolubili per la soluzione delle quali occorra un salto scientifico tecnico. Non pare che allo stato emergano aporie irresolubili, dell’evento passato si possiede ogni dato conoscitivo che legittimamente appartiene a questo processo ed essi esauriscono quanto è necessario per decidere; di esso evento si danno essenzialmente due diverse cause ed esse sono ampiamente spiegate ed illustrate …
Per tali motivi,
non accoglie la richiesta e dispone procedersi oltre…
quanto alla richiesta di procedersi a perizia sulle differenze fra (testuale) “il progetto genovese ed il progetto spagnolo” avanzata dalla difesa dell’imputato Y, richiamata la parte illustrativa del sopra esteso provvedimento di non accoglimento della richiesta di perizia sulle cause del crollo, considerato che in atti vi sono sufficienti elementi che consentono di pervenire, ove utile alla decisione,alla individuazione degli specifici apporti di ogni figura tecnica coinvolta nel fatto e/o nel processo, e dunque anche dell’imputato Y, non accoglie la richiesta e dispone procedersi oltre.

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