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ALTALEX NEWS


domenica 3 gennaio 2010

Sanzioni più lievi per chi spaccia insieme droghe "leggere" e "pesanti"

Sanzioni più lievi per chi spaccia insieme droghe "leggere" e "pesanti"
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/responsabilita-sicurezza/news/articolo/lstp/106252/

No al vincolo della continuazione per chi viene condannato per spaccio di sostanze stupefacenti di diverso tipo: non siamo più di fronte a due reati autonomi ma ad un unico reato. Ne consegue, quindi, un trattamento sanzionatorio più lieve rispetto al passato perché non può applicarsi l’aumento di pena legato alla continuazione. La spiegazione giuridica di tutto ciò è da ricercare nelle novità introdotte dalla riforma “Fini-Giovanardi”: con la legge 49/2006 si è proceduto alla soppressione della distinzione tabellare fra droghe “leggere” e “pesanti”, pertanto, la detenzione contestuale di sostanze stupefacenti di natura e tipo diversi da luogo alla realizzazione di un solo reato e non più di due reati.
Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza 42485/09 con cui ha annullato senza rinvio un verdetto di condanna limitatamente alla continuazione nei confronti di uno spacciatore accusato di detenzione a fini di commercio di hashish ed eroina. Per l’effetto, la pena è stata ridotta a due anni ed otto di reclusione e circa seimila euro di multa.
Con l’occasione la Suprema corte ha ricordato la ratio della scelta fatta dal legislatore del 2006 di escludere qualsiasi distinzione di trattamento giuridico tra le sostanze stupefacenti: non è meno grave spacciare droghe “leggere” rispetto alle “pesanti”, lo spaccio di qualsiasi tipo di sostanza ha la stessa efficacia lesiva dei beni tutelati dalla normativa (salute e ordine pubblico).

Fare una smorfia può costare una condanna per ingiuria e il risarcimento dei danni

Fare una smorfia può costare una condanna per ingiuria e il risarcimento dei danni
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/responsabilita-sicurezza/news/articolo/lstp/106762/

Secondo la Cassazione, si può essere condannati anche per una semplice smorfia del volto. E' accaduto a un marchigiano che aveva fatto linguacce ad un vicino di casa. La condanna per ingiuria era stata inflitta dal giudice di pace di Fabriano nel 2008: il condannato, nel corso di una lite con un vicino di casa, gli aveva fatto uno sberleffo che era stato fotografato dalla persona offesa. In Cassazione la difesa dell'imputato ha sostenuto che il gesto non aveva «una oggettiva valenza dispregiativa idonea ad incidere sull’onore della vittima». La Cassazione (sentenza 48306/09) ha invece respinto il ricorso: l'interessato è stato condannato per la «testimonianza del diretto destinatario dell’offesa, attestativa della lesione al proprio onore» come indica «la stessa fotografia prova degli sberleffi e linguacce». Il condannato dovrà inoltre sborsare 1.300 euro di spese processuali sostenute dall'avversario che in sede civile avrà diritto ad avere anche il risarcimento dei danni patiti.

Simulano il furto: la ritrattazione può avere efficacia scriminante solo se contestuale alla denuncia

Simulano il furto: la ritrattazione può avere efficacia scriminante solo se contestuale alla denuncia

Elisa Ceccarelli dal sito http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/responsabilita-sicurezza/approfondimenti/articolo/lstp/109902/


La denuncia di un falso furto e due fratelli si vedono condannare, in concorso, a titolo di simulazione di reato ai sensi dell’art 367 cod. penale.
La norma dispone che “Chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta dall’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, afferma falsamente essere avvenuto un reato, ovvero simula le tracce di un reato, in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo è punito con la reclusione da uno a tre anni”.
Si tratta di una fattispecie a tutela non solo dell’attività giudiziaria, ma anche di quella collaterale svolta dalla polizia giudiziaria. Il reato si perfeziona, pertanto, nel momento in cui la falsa notizia della consumazione di un reato pervenga a conoscenza dell’Autorità ed abbia l’effetto di determinare anche solo “l’astratta possibilità di un’attività degli organi inquirenti diretti al suo accertamento” (Cassazione Sez. VI, 3 aprile 2000) senza che un procedimento penale abbia inizio “bastando che si sia verificato un pericolo di sviamento delle indagini”.
Nel caso che ci vede oggi impegnati un individuo aveva denunciato ai carabinieri di aver subito un furto nella notte ad opera di ignoti nella vecchia sede della sua impresa ortofrutticola. I carabinieri, insospettiti, si erano recati presso la nuova sede dell’impresa, dove, vinte le iniziali resistenze del denunciante e di suo fratello, li avevano costretti ad aprire un furgone parcheggiato nel piazzale dove avevano rinvenuto tutto il materiale oggetto della denuncia di furto.
La sentenza di condanna in primo grado, poi confermata in appello, non teneva conto della ritrattazione “piena, spontanea ed immediata” del denunciante e rigettava la richiesta di applicazione dell’attenuante ex art 62 n. 6 cod. pen. (il c.d. ravvedimento attuoso).
Il ricorso per Cassazione presentato dagli imputati si articola sulla base di diversi motivi. I ricorrenti lamenterebbero in primo luogo il mancato riconoscimento dell’attenuante appena citata, soprattutto perché la corte di merito non aveva valutato la ritrattazione del denunciante ed, in seconda battuta, il gravame proposto valuterebbe come insussistenti i presupposti per una responsabilità in capo al fratello del denunciante il quale si trovava semplicemente sul posto in cui era stata scoperta la merce rubata.
La Suprema Corte, con sentenza n. 38111 dichiara l’impugnazione infondata.
In primis sulla base della stessa ratio della simulazione di reato e, cioè, quella di atteggiarsi come fattispecie di pericolo ed istantanea che si perfeziona, pertanto, come visto in precedenza, con una semplice falsa notizia criminis idonea a mettere in moto la macchina investigativa. “Ne consegue”, secondo la Cassazione, “che la ritrattazione può avere efficacia scriminante solo se accompagni la denuncia e cioè sia contestuale ad essa e sia fatta alla stessa autorità che l’ha ricevuta”.
Nel caso di specie ciò non è avvenuto: la ritrattazione è stata effettuata dopo la falsa denuncia e ad indagini ormai iniziate, le quali hanno, del resto, consentito di scoprire la falsità del reato. In relazione alla posizione del fratello del denunciante non sembra secondo la Suprema Corte che egli si trovasse semplicemente sul posto all’atto di rinvenimento della merce oggetto della denuncia di furto. Tutt’altro. A suo sfavore varrebbe la valutazione sul “contegno” tenuto nel cercare di convincere le forze dell’ordine a non aprire il furgone.
Sul mancato riconoscimento dell’attenuante la Cassazione ritiene che i giudici di merito l’abbiano correttamente esclusa. Per essere integrata essa necessita di un comportamento in positivo del reo spontaneo ed efficace ad attenuare le conseguenze del fatto commesso. La distanza temporale intercorsa tra l’inizio delle indagini e l’ammissione dei fatti veri non ha permesso di recare alcun contributo efficace all’attività della polizia giudiziaria, poiché il ravvedimento c.d. attuoso è stato messo in opera dal denunciante solo dopo la scoperta della simulazione del reato.

a cura di Giuffrè Editore - Diritto e Giustizia on line

Per la responsabilità penale delle "teste di legno" non basta l'aver acconsentito a ricoprire formalmente la carica di amministratore

Per la responsabilità penale delle "teste di legno" non basta l'aver acconsentito a ricoprire formalmente la carica di amministratore

http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/responsabilita-sicurezza/news/articolo/lstp/110252/

Accertamenti più rigorosi per provare la responsabilità penale degli amministratori “teste di legno”: per rispondere dei reati fatti dagli altri vertici aziendali non basta dimostrare che non hanno vigilato correttamente e che avrebbero potuto impedire l’affare illecito. O meglio, quest’aspetto esaurisce solo il profilo oggettivo della sua responsabilità perché il richiamo agli articoli 40 cpv. del Codice penale e 2392 di quello civile riguarda soltanto il rapporto di causalità tra l’omissione dell’amministratore di diritto e i fatti di bancarotta commessi dall’amministrazione di fatto. Resta, poi, da risolvere il problema dell’elemento soggettivo della responsabilità del prestanome. Ebbene, su questo punto, la Cassazione ha affermato che ad integrare il dolo dell’amministratore di diritto è sufficiente la sua generica consapevolezza che l’amministratore effettivo abbia distratto, occultato etc., senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi nei quali l’azione del vero amministratore si è estrinsecata. Però, ed è questo il nodo centrale del problema, «tale consapevolezza non può essere semplicemente desunta dal fatto che il soggetto abbia acconsentito a ricoprire formalmente la carica di amministratore». Insomma, il profilo soggettivo della responsabilità del prestanome va accertato caso per caso, valutando il significato probatorio dell’intero contesto della sua azione.
Così la Cassazione con la sentenza 31142/09 ha confermato un verdetto di condanna per fatti di bancarotta nei confronti di un prestanome, sottolineando come correttamente i giudici del merito avevano desunto la prova della consapevolezza e volontarietà del contributo dell’amministratore fittizio alle condotte distrattive del padre, ritenuto il vero dominus della società, dal suo concreto prestarsi a fungere da «cinghia di trasmissione» della volontà del genitore, attraverso comportamenti ben ponderati e attuati. In altre parole, sull’elemento soggettivo il verdetto impugnato aveva esattamente motivato.

La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano

La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/cittadino-istituzioni/news/articolo/lstp/110462/

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer

BRUNO VENTAVOLI

ROMA
Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici.

La singolare sentenza (numero 49568) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa.

Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani.

Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

Tratto da La Stampa del 30/12/2009

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