Informativa Privacy e Privacy Policy

Informativa resa ai sensi dell'art. 13 del Codice che trovi alla pagina: http://www.shinystat.com/it/informativa_privacy_generale_free.html


Se desideri che ShinyStat™ non raccolga alcun dato statistico relativo alla tua navigazione, clicca sul pulsante OPT-OUT.

AVVERTENZA: l'OPT-OUT avviene installando un cookie (nome cookie ShinyStat di opt-out: OPTOUT) se cancelli i cookies, sarà necessario ripetere l'opt-out in quanto cancellarei anche il cookie di opt-out

http://www.shinystat.com/it/opt-out_free.html

ALTALEX NEWS


martedì 28 agosto 2012

Sospensione necessaria del giudizio: i chiarimenti delle Sezioni Unite sentenza 19.06.2012 n° 10027

Sospensione necessaria del giudizio: i chiarimenti delle Sezioni Unite
Cassazione civile , SS.UU., sentenza 19.06.2012 n° 10027 (Filippo Di Camillo)
Le Sezioni Unite delineano l’ambito operativo della sospensione necessaria del giudizio dipendente da altro giudizio, chiarendone i presupposti applicativi.
Il quadro normativo: l’art. 295 c.p.c.
L’art. 295 c.p.c. prevede la sospensione necessaria del processo allorquando dinanzi allo stesso o ad altro giudice penda una controversia (c.d. lite pregiudicante) dalla quale dipenda la decisione della causa (c.d. lite pregiudicata).
Secondo le conclusioni tratte nella decisione in commento i presupposti applicativi della sospensione necessaria sono:
  1. la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella pregiudicata;
  2. la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati secondo diritto nello stesso modo;
  3. lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perché controversi tra le parti.
Orbene, secondo gli ermellini, la sussistenza di tali requisiti, tali da giustificare la necessità della sospensione del giudizio dipendente, cessa quando nel processo sulla causa pregiudicante sia sopravvenuta la decisione di primo grado, non essendo all’uopo necessario che tale decisione passi in giudicato.
Ne deriva che, “quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ.” (Cass. civ., sez. III, ord. 29 agosto 2008 n. 21924).
Ed allora, in caso di dipendenza tra giudizi, la sospensione del giudizio pregiudicato diviene facoltativa ai sensi dell’art. 337 c.p.c. secondo comma: ciò vuol dire che - salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, imponendosi in tal modo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse (es. art. 75 c.p.p.) - in caso di impugnazione della decisione pronunciata sul giudizio pregiudicante, spetterà al giudice della lite pregiudicata decidere se sospendere o meno il relativo giudizio, ovvero, in caso di sospensione già in atto, mantenere o meno in tale stato il processo di cui una delle parti abbia sollecitato la ripresa.
In altre parole la Corte restringe il campo di applicazione dell’art. 295 c.p.c. (sospensione necessaria) al solo spazio temporale delimitato dalla contemporanea pendenza dei due giudizi in primo grado, senza che quello pregiudicante sia stato ancora deciso.
Al contrario, qualora sia intervenuta la decisione di primo grado sul giudizio pregiudicante, si applicherà l’art. 337 c.p.c. secondo comma (sospensione facoltativa).
L’interpretazione sistematica dell’art. 295 c.p.c. e la restrizione del suo ambito applicativo: la decisione resa nel primo grado del giudizio pregiudicante e la sua incidenza sul giudizio pregiudicato
Le Sezioni Unite, partendo dal presupposto che l’art. 295 c.p.c. attribuisca al giudice della causa pregiudicata il potere di sospenderne il giudizio, non indicando, tuttavia, quale sia il termine ultimo della sospensione da ordinare, cercano di rinvenire tale limite logico-temporale operando una interpretazione sistematica della disposizione.
Il Supremo Collegio nomofilattico osserva, in linea generale, che il nuovo art. 111 Cost. si muove nella direzione di imporre una lettura restrittiva dell’art. 295 c.c.: il valore della sollecita definizione dei giudizi diviene così, salvo eccezioni, prevalente rispetto al valore della tendenza alla coerenza tra giudicati (in senso contrario si erano pronunciate le Sezioni Unite nell’ordinanza del 26 luglio 2004 n. 14060).
Sempre dal punto di vista sistematico, si osserva che nella disciplina del processo penale assuma un ruolo decisivo la disposizione dettata dall’art. 282 del codice di rito: “col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado - che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari -e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro”.
Quindi, conclude la Corte, “il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l'esecuzione provvisoria (art. 282 c.p.c.), quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l'autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata” (art. 337 c.p.c.).
(Altalex, 28 agosto 2012. Nota di Filippo Di Camillo)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 22 maggio – 19 giugno 2012, n. 10027

(Presidente Relatore Vittoria)
Svolgimento del processo
1. Re.Br., con la citazione notificata il 6.3.2006, ha convenuto in giudizio, davanti al tribunale di Asti, B.V. e L. oltre alla società Sicap s.r.l. in liquidazione.

In confronto dei primi, figli di R.B., ha proposto una domanda intesa alla dichiarazione giudiziale di paternità naturale del comune defunto genitore e verso tutti i convenuti una domanda di petizione ereditaria.

2. Il tribunale, con sentenza 56/2009, ha accolto la prima domanda, ha dichiarato la relativa causa urgente in applicazione dell'art. 92, comma 2, ord. giudiziario e ne ha disposto la separazione dall'altra.

Questa sentenza è stata impugnata da B.V. e L. con distinti appelli, che sono stati riuniti.

3. Nel giudizio sulla separata causa di petizione di eredità, il tribunale di Asti, respinta la richiesta di sospensione nel contesto della sentenza 479/2010, con questa ha determinato la quota d'eredità spettante all'attrice, ha tra l'altro dichiarato inefficace l'alienazione di alcuni beni ereditari, ha condannato i B. a restituire all'attrice un terzo del corrispettivo ritratto da altra inefficace alienazione.

Anche tale sentenza è stata impugnata, da B.V. e L. oltre che dalla Sicap e i due appelli, proposti separatamente, sono stati riuniti.

4. In questo secondo giudizio, la corte di appello di Torino, che in precedenza con ordinanza aveva accolto un'istanza degli appellanti volta alla sospensione dell'efficacia provvisoria della sentenza, con altra ordinanza, del 15.3.2011, da un lato ha respinto l'istanza dell'attrice volta alla revoca della sospensione della efficacia provvisoria, dall'altro, in dichiarata applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ., ha disposto la sospensione del giudizio di appello.

La corte ha osservato che la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità e quella di petizione ereditaria sono tra loro in una relazione di pregiudizialità tecnica, che è la relazione tra le cause presupposta dall'art. 295, quando prevede che la causa dipendente sia sospesa sino al passaggio in giudicato della sentenza pronunciata sulla causa condizionante.

L'ordinanza è stata comunicata il 29.3.2011.

5. Re.Br. l'ha impugnata con ricorso per regolamento necessario di competenza di cui ha chiesto la notifica il 27.4.2011.

B.L. e V. hanno depositato memoria.

Re.Br. ha a sua volta depositato una memoria.

Vi ha riprodotto il testo della sentenza 1065/2011 del 20.7.2011, pronunciata nel giudizio di appello sulla domanda di dichiarazione di paternità naturale, che tale paternità ha riconosciuto.

6. La sesta sezione di questa Corte, all'esito della discussione del ricorso nella camera di consiglio del 13.12.2011, con ordinanza depositata il 13.1.2012, ha considerato che la pronuncia sul ricorso richiedeva la decisione di questioni di massima di particolare importanza circa i rapporti tra le due disposizioni dettate dagli artt. 295 e 337 cod. proc. civ. e ha disposto che gli atti fossero rimessi al primo presidente.

In applicazione dell'art. 374, comma 2, cod. proc. civ., è stato disposto che sul ricorso si dovessero pronunciare le sezioni unite.

7. In vista della relativa discussione, fissata in udienza pubblica, entrambe le parti hanno depositato memorie.

Le parti hanno concordemente riferito che la sentenza 20.7.2011 n. 1065 della corte d'appello di Torino è stata frattanto impugnata dagli attuali resistenti B. con ricorso notificato il 9.3.2012.

La ricorrente, che nel giudizio appena indicato ha dal canto suo notificato controricorso, ha chiesto di differire la decisione del proprio ricorso contro l'ordinanza di sospensione, per consentirne la trattazione insieme a quello proposto dai suoi contraddittori avverso la sentenza pronunziata contro di loro sulla dichiarazione di paternità naturale.

8. Il P.M. ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

9. La Corte, valutando che la ragion d'essere del ricorso contro l'ordinanza di sospensione è nella più sollecita ripresa del relativo giudizio, ha ritenuto di passare alla sua decisione.
Motivi della decisione
1. È impugnata con ricorso per regolamento necessario di competenza un'ordinanza del giudice di appello che ha disposto la sospensione del giudizio pendente davanti a sé e lo ha fatto sul presupposto che ciò fosse imposto da quanto dispone l'art. 295 cod. proc. civ.

In forza di quanto è stabilito in modo espresso dall'art. 42 dello stesso codice, il regolamento è ammissibile.

La circostanza che la sospensione sia stata ordinata sul fondamento della disposizione dettata dall'art. 295 cod. proc. civ., quando, in ipotesi avrebbe potuto esserlo in base all'art. 337, secondo comma, dello stesso codice, non incide sulla ammissibilità del ricorso inteso a far dire erroneamente applicato l'art. 295, potendo se mai condizionare l'esercizio dei poteri della Corte nella decisione sul fondo del ricorso.

Sul punto, peraltro, la giurisprudenza della Corte, a partire da Cass. 28.7.2005 n. 15794, cui ha fatto seguito Cass. 4.7.2007 n. 15111, è nel senso che, quando sia constatata l'erronea applicazione dell'art. 295, lo scrutinio del fondo del ricorso per regolamento si debba arrestare, restando al giudice del merito di tornare a valutare se la sospensione non possa essere ordinata in base ai presupposti indicati dall'art. 337, secondo comma.

E la conclusione si giustifica per la considerazione che spetta al giudice di merito valutare se riconoscere l'autorità della diversa sentenza a tale scopo fatta valere nella diversa causa pendente davanti a sé o non farlo (sui limiti del controllo esperibile dalla cassazione la Corte si è poi espressa nella ordinanza 25.11.2010 n. 23977 della prima sezione, affermando che il sindacato copre la verifica dei presupposti normativi dell'esercizio del potere e non si estende alle valutazioni di merito, che siano state esplicitate).

Per decidere del ricorso nel caso concreto si deve quindi scrutinare se la sospensione dovesse essere ordinata o potesse non esserlo.

Si tratta quindi di stabilire se, pendendo in grado di appello sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l'abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base ha accolto domanda di petizione di eredità; impugnate dai convenuti entrambe le sentenze; il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi la cosa giudicata sulla dichiarazione di paternità naturale o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l'autorità dell'altra decisione.

2. Il ricorso contiene tre motivi.

2.1. Col primo, in relazione all'art. 360 n. 4 cod. proc. civ., si denuncia la violazione degli artt. 112 e 342 dello stesso codice e dell'art. 2909 cod. civ. oltre che dei principi generali in materia di cosa giudicata.

Il motivo è stato peraltro rinunciato con la memoria richiamata al precedente punto 5 dello svolgimento del processo, ciò di cui l'ordinanza di rimessione ha dato atto.

2.2. Il secondo motivo denunzia la violazione degli artt. 295 e 337 cod. proc. civ.

La ricorrente osserva che nel giudizio sulla questione pregiudiziale di paternità naturale era intervenuta sentenza di primo grado, ancorché impugnata.

E però, pur avendo dato atto di questo specifico fatto, la corte d'appello ha ritenuto che la relazione tra causa pregiudicante e causa pregiudicata restasse ancora soggetta all'applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ..

Così facendo, tuttavia, la corte di appello, non avendo addotto argomenti critici, si sarebbe posta in contrasto con l'orientamento della giurisprudenza della cassazione.

La ricorrente considera al riguardo che tale orientamento è nel senso che l'ambito di applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. è segnato dalla contemporanea pendenza in primo grado della causa pregiudicante e di quella pregiudicata, sicché cessa d'essere operante quante volte sulla causa pregiudicante sia intervenuta una sentenza di accoglimento.

Quando si determina questa situazione, la disciplina del raccordo tra lite pregiudicante e lite pregiudicata andrebbe desunta dall'art. 337, secondo comma, che dalla autorità della decisione di primo grado sul rapporto condizionante fa discendere l'effetto che il giudice della lite condizionata possa porre a base della decisione della lite sottoposta al suo giudizio l'accertamento già compiuto dal primo giudice.

La ricorrente richiama come manifestazione del riferito orientamento l'ordinanza della sezione terza 29.8.2008 n. 21924, cui avrebbe fatto seguito l'ordinanza 16.12.2009 n. 26435 della stessa sezione, e che troverebbe antesignani nelle ordinanze 8.4.2002 n. 5006 e 3.5.2007 n. 10185 della sezione lavoro e 28.7.2005 n. 15794 della terza sezione.

2.3. Anche il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 295 e 337 cod. proc. civ., peraltro in relazione all'art. 360 n. 3 del codice e sotto diverso aspetto.

Qui la motivazione dell'ordinanza impugnata è posta a raffronto con l'orientamento giurisprudenziale che dice non riconducibile all'ambito di applicazione dell'art. 295 la relazione intercorrente tra giudizi aventi ad oggetto l'accertamento sul se dovuto e quello sul quanto dovuto, tipo di relazione alla quale, secondo i ricorrenti, andrebbe ricondotta anche quella che lega le domande oggetto della attuale controversia.

Ed al riguardo i ricorrenti si richiamano a varie decisioni, delle sezioni unite e di altre sezioni (le ordinanze 26.7.2004 n. 14060; 3.5.2007 n. 10185; 18.1.2007 n. 1072).

3. La replica dei resistenti è affidata a considerazioni che si possono riassumere così.

La ricorrente, col terzo motivo, ha preteso di trarre argomento in suo favore dalla giurisprudenza in tema di relazione tra domanda sul se dovuto e domanda sul quanto dovuto.

Ma questa giurisprudenza non sarebbe riferibile al diverso caso della relazione tra dichiarazione della paternità naturale dell'ereditando e diritto ad essere chiamato all'eredità in chi si afferma figlio naturale.

I resistenti si richiamano al riguardo a decisioni della Corte (la sentenza 26.7.2004 n. 14060 e la sentenza 3.11.2006 n. 23596): l'una impostata sulla distinzione tra pregiudizialità logica e pregiudizialità tecnico-giuridica, l'altra specificamente sull'art. 573 cod. civ., interpretato nel senso che la filiazione naturale, se non riconosciuta, debba essere dichiarata con sentenza passata in giudicato perché le disposizioni relative alla successione dei figli naturali possano trovare applicazione, ed a sostegno del quale assunto è anche richiamato l'art. 715 cod. civ., che tra i casi di impedimento della divisione dei beni caduti in successione comprende la pendenza di un giudizio sulla filiazione naturale.

4. Si deve immediatamente osservare che se la giurisprudenza della Corte fosse da considerare stabilmente orientata nel senso indicato nei due motivi di ricorso e perciò in senso contrario alla soluzione accolta dalla corte d'appello, il ricorso non potrebbe tuttavia per ciò stesso considerarsi fondato in modo manifesto, secondo la speculare ipotesi cui conduce la formulazione dell'art. 360 bis, n. 1) cod. proc. civ.

E questo perché nel controricorso, all'orientamento postulato esistente nei motivi di ricorso ed a sostegno della contraria pronuncia della corte d'appello è contrapposto come argomento critico il distinguo che si è appena finito di sintetizzare.

Con il che è realizzata l'altresì speculare ipotesi - sottesa all'ultima parte della disposizione dettata dal n. 1) dell'art. 360 bis - che il resistente offra dal t canto suo argomenti a sostegno dell'interpretazione accolta dal giudice di merito in contrasto con l'orientamento della cassazione.

Va dunque anzitutto verificata l'esistenza e consistenza dell'orientamento giurisprudenziale in cui la ricorrente ha indicato il sostegno del proprio ricorso.

5. È certo consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte che la ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul se dovuto e di quello sul quanto dovuto non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio possa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l'alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto.

Ciò è stato affermato dalla ordinanza 27.7.2004 n. 14060 delle sezioni unite, che ha così assegnato questa relazione tra processi all'area di applicazione dell'art. 337 cod. proc. civ. dicendola per contro sottratta all'area dell'art. 295 dello stesso codice.

5.1. Le sezioni unite - nell'occasione in cui è stata pronunziata l'ordinanza 14060 del 2004 - erano state chiamate a comporre il seguente contrasto allora presente nella giurisprudenza della Corte.

Secondo l'art. 295 cod. proc. civ. il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia da cui dipende la decisione della causa.

Era in discussione se all'ambito di applicazione di tale disposizione andasse ricondotto il caso in cui il giudizio intrapreso per la liquidazione del dovuto si trova ad essere pendente, mentre ancora non è passata in giudicato la sentenza pronunciata nel separato giudizio in cui è in discussione lo stesso diritto a riceverlo.

Le sezioni unite lo negarono facendo propri in larga misura gli argomenti svolti in precedenza nella sentenza 25.5.1996 n. 4844 incentrati su una lettura restrittiva dell'istituto della sospensione necessaria.

Osservarono che l'istituto della sospensione necessaria del processo configurato dall'art. 295 cod. proc. civ. “determina l'arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo è destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297, comma 1, c.p.c.), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell'armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.

Misero in rilievo che una serie di interventi normativi - tra gli altri il ridimensionamento in senso restrittivo della pregiudizialità penale (espunto dallo stesso precedente testo dell'art. 295) e la modifica dell'art. 42 cod. proc. civ. (con l'estensione del regolamento necessario di competenza all'intera area dei provvedimenti applicativi della sospensione del processo) - stava a dimostrare l'emersione di una linea di tendenza sfavorevole alla sospensione. Aggiunsero che la sopravvenuta modifica dell'art. 111 Cost. attuata con la l. cost. 29 novembre 1999, n. 2, doveva essere considerata determinante nel senso di imporre una lettura restrittiva dell'art. 295.

5.2. Con qualche differenza sul piano procedurale, nelle varie ipotesi, per il diverso rapporto tra poteri delle parti e potere del giudice quanto alla sospensione del processo dipendente, su cui anche la Corte costituzionale ha avuto agio di soffermarsi (prima nella sentenza 31 maggio 1996 n. 182 e poi nell'ordinanza 12 aprile 2005 n. 132) si è così determinata sul piano effettuale una sostanziale omologazione tra i due casi.

Il primo è quello espressamente previsto e disciplinato dagli artt. 277 e 279, comma 2, n. 4) e comma 4, cod. proc. civ.: qui nell'unico giudizio, pronunziata sentenza che accerta il diritto ma non definisce il processo, è in linea di principio previsto che il processo prosegua in vista della liquidazione del dovuto, ma, su richiesta di ambedue le parti, il giudice può disporre che resti sospeso, quando la sentenza è impugnata e sino a quando non è deciso il relativo appello.

Il secondo è il caso scrutinato dalle sezioni unite, ed è quello che il A giudizio sia promosso o comunque si concluda nel primo grado con una sentenza di condanna generica ed in pendenza dell'impugnazione di tale sentenza prosegua o sia iniziato un distinto giudizio per la liquidazione del dovuto.

La disciplina traslata dal primo al secondo caso - sottratto all'ambito di applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. - ed al quale questo è stato così attratto ne è risultata quella desumibile dagli artt. 336 e 337 cod. proc. civ.

Dalla riforma della sentenza di condanna generica si è fatta discendere nei due casi la caducazione di quella contenente la liquidazione del dovuto (ciò in base all'art. 336, primo comma); alla prima sentenza, ancorché impugnata, è stato riconosciuto l'effetto di poter spiegare autorità nel secondo, salvo il potere del giudice di sospenderlo (e questo in base all'art. 337, secondo comma), negandosi che la disposizione - come era stata intesa in precedenti occasioni - dovesse intendersi scritta per il solo caso che la sentenza, pur passata in cosa giudicata, fosse stata fatta oggetto di impugnazione straordinaria.

6. Le sezioni unite, nell'occasione che si è appena finito di considerare, non avevano avuto ragione di porre in discussione l'ambito di applicazione dell'art. 295 sino ad allora riconosciuto, ambito costituito dai casi di cosiddetta pregiudizialità tecnica, in cui per legge o volontà delle parti che ne chiedono l'accertamento in via principale, un certo fatto o rapporto, che va dunque accertato con efficacia di giudicato, si pone a sua volta come fatto costitutivo o per contro impeditivo di un diritto sostanziale o processuale controverso od esercitato in altro giudizio.

Situazione processuale in cui il giudizio dipendente - secondo tale orientamento - sarebbe stato destinato a restare sospeso sino al sopravvenire del passaggio in giudicato della sentenza destinata a giudicare del rapporto pregiudicante.

Nel ricorso, come si è anticipato, si è sostenuto che molteplici decisioni successive alla sentenza commentata al punto 5, avrebbero rovesciato tale orientamento giurisprudenziale, per avere ulteriormente ristretto il campo di applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. al solo spazio temporale delimitato dalla contemporanea pendenza dei due giudizi in primo grado, senza che quello pregiudicante sia stato ancora deciso.

L'esame dei precedenti richiamati non convalida tale assunto, almeno nei termini generali in cui è stato formulato.

Infatti, l'ordinanza 28.7.2005 n. 15794 della sezione III ha esaminato un caso in cui la domanda di rilascio di un fondo per sopravvenuta scadenza del contratto era stata accolta in primo grado e la sentenza aveva ricevuto esecuzione, ma in appello la domanda era stata rigettata: e questo per avere il conduttore efficacemente opposto un'eccezione di tacita riconduzione. Il quale conduttore, pendente il ricorso per cassazione del proprietario contro tale sentenza, aveva agito per essere di nuovo immesso nel possesso del fondo ed aveva visto sospeso dal giudice il relativo giudizio.

L'accoglimento del regolamento proposto in base all'art. 42 cod. proc. civ., ha trovato giustificazione in ciò che la domanda del conduttore trovava fondamento nell'autorità della sentenza di appello assoggettata a ricorso per cassazione, sicché la sospensione del giudizio avrebbe se mai potuto essere ordinata solo in applicazione dell'art. 337 cod. proc. civ.

Ma in questo caso unico era il rapporto oggetto di controversia e il diritto alle restituzioni derivava dall'art. 336, comma 2, cod. proc. civ.

Nella stessa area pare gravitare la precedente sentenza 8.4.2002 n. 5006 della sezione lavoro, dalla lettura della quale non è dato però ricostruire con precisione le coordinate del caso deciso.

Lo stesso si deve dire delle successive ordinanze 18.1.2007 n. 1072 della sezione II e 3.5.2007 n. 10185 della sezione lavoro.

Orbene, la prima di tali ordinanze ha escluso l'applicabilità della sospensione adottata in base all'art. 295 in quanto ha ricondotto allo schema del rapporto tra se dovuto e quanto dovuto la relazione tra il giudizio di primo grado in cui l'appaltatore chiede il pagamento del corrispettivo e quello di appello, in cui il committente impugna la sentenza che ha rigettato la sua domanda di risoluzione del medesimo contratto per inadempimento.

Nella seconda poi è venuta in discussione la sospensione d'un giudizio di opposizione a decreto d'ingiunzione, di cui era stata in precedenza sospesa la provvisoria esecutorietà: il decreto era stato richiesto per conseguire il pagamento di retribuzioni, in base ad una precedente sentenza di primo grado, pur impugnata dall'ente datore di lavoro, che aveva accertato l'esistenza del rapporto, dichiarato l'inefficacia del licenziamento e ordinata la reintegrazione nel rapporto di lavoro.

Vanno ancora considerate le ordinanze 29.8.2008 n. 21924 e 16.12.2009 n. 26345.

Nel primo caso, contro un notaio era stata proposta domanda di risarcimento del danno da responsabilità professionale, sul presupposto che egli avesse tardato a presentare la dichiarazione di accettazione di un'eredità con beneficio di inventario, così determinando la perdita da parte degli attori di benefici fiscali relativi all'imposta di successione; i riflessi fiscali della condotta del notaio sugli attori erano venuti nel contempo in discussione davanti al giudice tributario, dove era intervenuta una decisione di primo grado. Il tribunale, affermando di esercitare il potere derivante dall'art. 295 cod. proc. civ. aveva ordinato la sospensione del giudizio pendente davanti a sé in primo grado, sino a definizione di quello tributario.

In quest'occasione, senza peraltro soffermarsi a indagare sulla relazione tra le due cause, originate dal medesimo fatto, però rilevante nell'ambito di diversi rapporti, la Corte ha affermato che il potere previsto dall'art. 295 non era esercitabile, giacché nel preteso giudizio tributario pregiudicante si era esaurita la fase di primo grado ed era intervenuta una sentenza assoggettata ad appello.

Ha proseguito la Corte affermando che da tanto conseguiva che la questione della relazione fra il giudizio civile e quello tributario era divenuta soggetta alla disciplina di cui all'art. 337 cod. proc. civ., norma da ritenere applicabile anche quando la sentenza, la cui autorità è postulata in un diverso giudizio, non sia ancora passata in cosa giudicata.

Ha concluso col dire che il tribunale, nel valutare la relazione fra il giudizio tributario e quello dinanzi ad esso pendente avrebbe dovuto farlo assumendo come parametro normativo per esercitare il potere sospensivo non già l'art. 295, bensì l'art. 337.

Il caso deciso dalla Corte con la ordinanza 16.12.2009 n. 26435 è stato infine il seguente.

Il conduttore di un immobile, raggiunto da una domanda di diniego di rinnovazione del contratto, proposta contro di lui dall'acquirente dell'immobile subentrato così nella titolarità del rapporto locatizio, aveva fatto valere come ragione di sospensione del giudizio, la pendenza in grado di appello dell'azione di riscatto da lui proposta, già rigettata in primo grado. Del giudizio di diniego della rinnovazione era stata disposta la sospensione.

La Corte ha accolto il regolamento, annullando l'ordinanza di sospensione ed ha così motivato: - “Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte in punto di relazione fra la causa di riscatto ai sensi della l. n. 392 del 1978, art, 30, e quella che l'acquirente e subentrante nel contratto eserciti per far valere fatti estintivi del contratto verificatisi successivamente alla fattispecie asseritamente giustificativa del riscatto, è ferma sul seguente principio di diritto, evocato anche negli scritti difensivi: Qualora il conduttore di un immobile ad uso abitativo inizi giudizio per il riconoscimento del proprio diritto di riscatto, ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 39 e, successivamente, il terzo acquirente agisca per il rilascio, adducendo la cessazione del rapporto locativo per fatti posteriori al sorgere del nuovo diritto, la prima controversia, in quanto rivolta ad ottenere una sentenza dichiarativa che sostituisca ex tunc il titolare della prelazione al terzo acquirente, così privando con pari decorrenza l'uno e l'altro delle rispettive posizioni di locatario e locatore, ha carattere pregiudiziale, e, pertanto, impone la sospensione della seconda, a norma dell'art. 295 cod. proc. civ. (Cass. sez. un. n. 13757 del 1991).

Questa decisione, tuttavia, ebbe a scrutinare un caso nel quale la sospensione ai sensi dell'art. 295 c.p.c., era stata negata (dal pretore giudice di primo grado) in situazione di pendenza dei giudizio sul riscatto in primo grado. La relativa misura era stata poi mantenuta nei gradi successivi del giudizio pregiudicato. Le Sezioni unite e la successiva giurisprudenza della Corte non hanno mai considerato - a quel che consta - la situazione nella quale sull'azione di riscatto sia intervenuta, al momento in cui sorge la questione di pregiudizialità, sentenza di primo grado.

Questa situazione è riconducibile non già all'art. 295 bensì all'art. 337, comma 2.

Ciò sulla base del seguente principio di diritto: quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ. (Cass. ord. n. 21924).

6.1. Se si considera quanto è risultato dall'esame dei precedenti cui si è richiamata la ricorrente e si pone a raffronto il principio di diritto da ultimo enunciato nella ordinanza 26435 del 2009 con le conclusioni che furono attinte nel caso deciso con la sentenza 20.12.1991 n. 13757 che vi è stata richiamata si noteranno agevolmente alcune cose:

- che nei due casi è venuta all'esame della cassazione un'identica situazione processuale, costituita dalla successione della domanda di rilascio a quella di riscatto;

- che la meno recente decisione, collocata la situazione nell'area della pregiudizialità necessaria, considerata regolata dall'art. 295, pervenne alla conclusione di cassare la sentenza del giudice di secondo grado, rifiutatosi di sospendere il giudizio di recesso nella pendenza della causa di riscatto pur anteriormente proposta;

- che la decisione più recente, muovendo dalla considerazione che nel giudizio relativo alla causa pregiudicante era intervenuta decisione in primo grado, ha considerato che la situazione processuale veniva ad essere regolata non dall'art. 295, ma dall'art. 337, comma 2, cod. proc. civ.;

- che, dunque, l'assunto della ricorrente trova un'almeno parziale conferma nella giurisprudenza della Corte;

- che collocare la sede di disciplina della situazione processuale data dalla relazione tra causa pregiudicante e causa pregiudicata in una delle due aree comporta la conseguenza che l'apprestamento della tutela giurisdizionale chiesta da una parte e dall'altra è in grado di essere più duttilmente governata attraverso il bilanciamento dell'autorità della sentenza di primo grado e del potere di sospensione del processo sulla causa pregiudicata affidata al suo giudice, anziché imponendo la sospensione necessaria del giudizio logicamente pregiudicato sino alla decisione sul giudizio pregiudicante passata in giudicato: la decisione delle sezioni unite del 1991 pervenne invero alla conclusione che si sarebbe dovuto tenere sospeso il giudizio sulla domanda di rilascio, pur dopo che quella di riscatto era stata rigettata anche in secondo grado.

7. La Corte ritiene che in linea di principio sia da accedere alla soluzione attinta dalla ordinanza 26435 del 2009.

Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall'art. 75, comma 3, cod. proc. pen.).

8. Pare alla Corte che nell'interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della L. 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall'art. 282 del codice di rito.

Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado - che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari -e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro.

L'ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all'impugnazione si attribuisse l'effetto d'un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111, comma 2, Cost.).

Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l'esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l'autorità della sentenza di primo grado nell'ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata.

Salvo che l'ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull'elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da intendere che sia ancora al giudice che l'ordinamento rimetta, graduandolo in vario modo, il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta attraverso l'impugnazione, se l'efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo (già con la sentenza 31 maggio 1996 n. 182 la Corte costituzionale aveva del resto avuto modo di richiamare l'attenzione degli interpreti sul disfavore verso il fenomeno sospensivo in quanto tale, espresso dal legislatore, con la riforma del 1990, soffermandosi sugli orientamenti restrittivi che s'erano manifestati nella giurisprudenza di legittimità a riguardo della precedente interpretazione dell'art. 295 cod. proc. civ.).

È dunque possibile a tale riguardo una considerazione conclusiva.

Da un punto di vista logico l'istituto processuale della sospensione necessaria è costruito su questi presupposti: la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata; la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati secondo diritto nello stesso modo; lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perché controversi tra le parti.

L'idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa che ne dipende giustifica allora che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull'altra.

Lo impone prima di tutto l'esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell'attività di cognizione nei due processi pendenti.

Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull'accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell'altro processo tra le stesse parti, attraverso l'esercizio della giurisdizione.

Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.

La duplice connessa circostanza che la decisione del primo giudice giustifichi a questo punto il passaggio alla sua esecuzione coattiva se pur provvisoria e il correlativo progressivo restringersi degli elementi di novità suscettibili di essere introdotti nel giudizio di impugnazione consente di ritenere che l'ordinamento si appaghi ora in linea generale del risparmio di attività istruttoria e preferisca all'attesa del giudicato la possibilità che il processo sulla causa dipendente riprenda assumendo a suo fondamento la decisione, ancorché suscettibile di impugnazione, che si è avuta sulla causa pregiudicante, perché, come si è detto, essendo il risultato di un accertamento in contraddittorio e provenendo dal giudice, giustifica la presunzione di conformità a diritto.

L'istituto della sospensione necessaria ha così esaurito i suoi effetti.

Il rapporto di dipendenza tra le cause però resta e se la controversia si riaccende nei gradi di impugnazione, spetterà ora alla valutazione del giudice della causa dipendente decidere se mantenere in stato di sospensione il processo di cui una delle parti abbia sollecitato la ripresa.

E la valutazione andrà fatta sulla base della plausibile controvertibilità che il confronto tra la decisione intervenuta e la critica che ne è stata svolta abbia fatto emergere.

8.1. Questa impostazione non trova ostacolo nella lettera della disposizione ora contenuta nell'art. 295, che, mentre attribuisce al giudice della causa pregiudicata il potere di sospenderne il giudizio, perché la sua decisione dipende da quella di altra causa, pendente davanti ad altro giudice od anche davanti a sé, tuttavia non indica quale sia il termine ultimo della sospensione che è così da ordinare.

Né trova ostacolo nella disposizione dell'art. 297 cod. proc. civ., che dal canto suo sopporta un'interpretazione - del resto formulata in dottrina - per cui il passaggio in giudicato della sentenza resa sulla causa pregiudicante segna non già il termine di durata della sospensione, ma solo quello di inizio della decorrenza del termine ultimo oltre il quale il giudizio sulla causa pregiudicata si estingue (art. 307, terzo comma, cod. proc. civ.), se nessuna delle parti abbia assunto l'iniziativa richiesta per farlo proseguire.

La sopravvenienza della decisione di primo grado sulla lite pregiudiziale, pur suscettibile di impugnazione od impugnata, può giustificare che le parti ne attendano la decisione definitiva, ma non impedisce che chi ne rivendichi l'autorità solleciti la prosecuzione del processo, anche se il giudice potrà di nuovo farsi a sospenderlo, ma ora sulla base di una specifica valutazione.

9. La medesima soluzione può e deve essere accolta nel caso in esame ed a proposito del rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità.

Pacifico essendo nella giurisprudenza della Corte che la dichiarazione di filiazione naturale ha effetti retroattivi (Cass. 16 luglio 2005 n. 15100); quante volte la filiazione di cui è chiesta la dichiarazione è a sua volta posta a base di una distinta domanda, come nel caso di petizione d'eredità, il problema che si tratta di risolvere non è di stabilire a partire da quando questi effetti possano in concreto essere tradotti in atto, per il che in ipotesi potrebbe doversi attendere che la sentenza sulla filiazione naturale, che l'accerta, sia passata in giudicato (secondo quanto è stato ritenuto da questa Corte, sulla base dell'art. 573 cod. civ., con la sentenza 3 novembre 2006 n. 23596), ma se il giudice cui quella distinta domanda sia proposta ne possa conoscere e conoscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.

Ora, sulla base dell'art. 277, comma 2, cod. civ., che attribuisce al giudice il potere di dare i provvedimenti che stima utili per il mantenimento, C l'istruzione e l'educazione del figlio oltre che per la tutela dei suoi interessi patrimoniali, si riconosce al giudice della domanda di dichiarazione di filiazione naturale il potere di pronunciarsi anche sulla domanda di regresso proposta dal genitore, che tra la data della nascita e quella della sentenza che dichiara la filiazione dall'altro genitore, abbia provveduto al mantenimento del figlio.

Segno che, a tali effetti - pur diversi da quelli successori cui ha riguardo l'art. 573 cod. civ. - dell'accertamento della filiazione naturale, anche se contenuto in una sentenza non passata in giudicato, è dato tenere conto ai fini della pronuncia su una distinta domanda.

E d'altro canto, quando l'art. 715 cod. civ. configura come impedimento alla divisione dei beni caduti in una successione la pendenza d'un giudizio sulla filiazione naturale di colui che, in caso di esito favorevole del giudizio, sarebbe chiamato a succedere, lo fa a protezione di costui, sicché, dove, nella stessa disposizione, si stabilisce che l'autorità giudiziaria può autorizzare tuttavia la divisione fissando le opportune cautele, lo si fa ancora a tutela del possibile erede.

Sicché, da tale disposizione sostanziale si trae, sul piano processuale, che consentaneo alla sua concreta applicazione non è tanto che non possa passarsi alla divisione ereditaria, se prima non è stato accertato in modo definitivo il rapporto tra ereditando e chi se ne postula figlio naturale, quanto che dell'esito pur non definitivo del relativo processo, se negativo, il giudice della chiesta divisione possa tenere conto per autorizzarla, sia pure con le opportune cautele e per contro rifiutarla, se positivo, nei due casi così poggiandosi sull'autorità della sentenza resa nel giudizio di riconoscimento.

Il bilanciamento degli opposti interessi delineato dalla norma non appare così affidato alla paralisi della cognizione imposta dalla sospensione necessaria; al contrario bene si presta ad essere realizzato consentendo che gli esiti del giudizio sulla filiazione naturale possano essere tenuti in considerazione al fine di stabilire se proseguire in quello dipendente di petizione ereditaria, con una sentenza di accoglimento o rigetto, ovvero sospenderlo, e di autorizzare o no e se si con quali cautele la divisione.

10. La conclusione è che il ricorso per regolamento di competenza è accolto e l'ordinanza di sospensione pronunziata in applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. è cassata.

Lo è in base al principio di diritto che segue.

Fuori dei casi in cui sia espressamente disposto che un giudizio debba rimanere sospeso sino a che un altro da cui dipenda sia definito con decisione passata in giudicato, intervenuta nel primo decisione in primo grado, il secondo di cui sia stata in quel grado ordinata la sospensione può essere ripreso dalla parte che vi abbia interesse entro il termine dal passaggio in giudicato della detta decisione stabilito dall'art. 297 cod. proc. civ.

Definito il primo giudizio senza che nel secondo la sospensione sia stata disposta o ripreso il secondo giudizio dopo che il primo sia stato definito, la sospensione del secondo può solo essere pronunziata sulla base dell'art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., dal giudice che ritenga di non poggiarsi sull'autorità della decisione pronunziata nel primo giudizio.

A questo regime non si sottrae la relazione tra il giudizio promosso per la dichiarazione di filiazione naturale definito con sentenza, pur non passata in giudicato, che l'accerta ed il giudizio di petizione d'eredità promosso da chi risulterebbe chiamato all'eredità se la sua qualità di figlio naturale dell'ereditando fosse riconosciuta.

11. Le spese di questo grado del giudizio sono da compensare, com'è prassi di questa Corte, quando il ricorso investe questione di massima.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, dispone la prosecuzione del giudizio e compensa per intero le spese del presente giudizio
estratto da: http://www.altalex.com/index.php?idnot=57815
 

Tribunale Caltanissetta, sez. penale, sentenza 11.01.2012 : limiti al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale

Trinunale di Caltanissetta Sezione Penale

Sentenza 11 gennaio 2012



Il Tribunale di Caltanissetta nella persona del Giudice Monocratico

Dott. Valerio Giovanni Antonio Sasso





nella pubblica udienza del 11 gennaio 2012, ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

Sentenza



p.q.m.

Visto l’art. 530 cod. proc. pen.;

Assolve



C. S., nato in ***** il *****, e I. S., nata in ***** il ***** dal reato ai medesimi ascritti perché il fatto non sussiste.



Così deciso in Caltanissetta, 11 gennaio 2011

Il Giudice

Valerio Giovanni Antonio Sasso


Svolgimento del processo

Con decreto di citazione a giudizio del 20 dicembre 2010, gli odierni imputati venivano rinviati a giudizio per rispondere dei reati di cui in rubrica.

All’udienza del 1° aprile 2011, su istanza della difesa, veniva concesso termine per consentire la fruizione di riti alternativi; alla successiva udienza del 30 novembre 2011, non essendo pervenuta richiesta in tal senso, veniva aperto il dibattimento e si procedeva all’escussione testimoniale del carabiniere scelto G. F. e acquisita documentazione medica. All’udienza dell’undici gennaio 2012, acquisita la relazione di servizio del 25 novembre 2009, dichiarata chiusa l’istruttoria dibattimentale, le parti concludevano come in epigrafe.

Motivi della decisione

Gli imputati odierni sono chiamati a rispondere del reato di oltraggio a pubblico ufficiale in concorso tra loro poiché offendevano l’onore e il decoro del Carabiniere G. F., apostrofandolo sia il C. che I. con espressioni ingiuriose e colpendolo al braccio sinistro.

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, previsto dal vecchio art. 341 c.p., è stato abrogato (si parla di abolitio criminis, cfr. Cass. V, 13349/99) dall’art. 18 l. 205/99; successivamente, con legge 94 del 15 luglio 2009, la figura di reato è stata reintrodotta; dall’analisi comparativa della struttura del “vecchio” reato e di quello “nuovo”, si osserva la sostanziale coincidenza del bene giuridico tutelato (onore o prestigio del pubblico ufficiale, anzi, come rilevato da Corte Cost. n. 51/80, il buon andamento della P.A.), la occasionalità necessaria tra la condotta delittuosa e il compimento dell’atto d’ufficio ovvero l’esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale. Le analogie tuttavia si fermano qui: difatti, la “presenza di più persone”, elemento costitutivo del nuovo reato, era mera circostanza aggravante (art. 341 3° comma c.p.) del precedente delitto di oltraggio; inoltre, e prudentemente, il legislatore ha opportunamente richiesto l’ulteriore requisito che la condotta, affinché sia passibile di sanzione penale, sia commessa in luogo pubblico o aperto al pubblico: quanto a quest’ultima nozione, si veda, da ultimo, in fattispecie di porto di armi, Cass. I, 16690/08 “deve intendersi il luogo al quale può accedere chiunque a date condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria o comunque da un numero indeterminato di persone che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (conf. Cass. 11.02.1982, Tosani, C.E.D. Cass. n. 90217)” specie quando chi esercita sul luogo un potere di fatto o di diritto “non può far ricorso al "jus excludendi" per giustificati motivi” – Cass. I, 3187/2000. Correttamente, d’altronde, il legislatore ha ristretto l’ambito operativo della fattispecie incriminatrice, stanti i forti dubbi di costituzionalità – con particolare riferimento all’offensività della condotta rispetto al bene giuridico – che già affliggevano la vecchia dizione normativa (su tutte, vedasi Corte Cost. 341/94).

Venendo al merito: il teste G., Carabiniere scelto, si recava a mezzanotte e mezzo circa, in località Cozzo Scavo in Caltanissetta, per un intervento richiesto da S. I., che si trovava sul posto insieme al marito e al figlio C. S.; essi lamentavano che era stata estirpata la rete di recinzione unitamente ai paletti di sostegno; I. S. sosteneva che l’autore del danneggiamento fosse I. A. Pertanto, notata la luce accesa nella confinante casa di quest’ultimo, il G. citofonava. I. A. apriva il cancello di ingresso e, davanti al cancello, scoppiava una lite: la I. cercava di colpire il fratello ma finiva per colpire sul braccio l’operante, sostenendo peraltro che suo fratello poteva permettersi di fare di tutto perché andava a caccia e a mangiare insieme ai Carabinieri – circostanza recisamente negata dal G., recentemente giunto in sede – mentre il C. cercava di tenere a freno la madre e anzi non proferiva alcuna parola di offesa all’indirizzo degli operanti.

La condotta materiale contestata di offesa al prestigio del pubblico ufficiale sussiste in capo alla sola I., stante la totale estraneità di C. rispetto alla contestazione, in quanto effettivamente la I. offendeva i Carabinieri intervenuti, attribuendo loro la circostanza di andare a mangiare i conigli insieme al fratello, mettendo in dubbio la loro imparzialità di operato e onorabilità, in presenza di I. A. e i suoi figli. Tuttavia, non può dirsi integrato l’elemento oggettivo come descritto dalla norma: difatti, come narrato dal G., i fatti sarebbero avvenuti nei pressi del cancello di I. A.; cancello che affacciava su una via sterrata, di pertinenza dei proprietari (al centro della “disputa” tra i fratelli I.), sulla quale – a detta del G. – gravava il diritto di servitù a favore di I. S., costituito dalla sorella di questa. Che tale via fosse nella pertinenza di I. A., emerge dalla circostanza che vi era una rete con dei paletti (divelti da I. A., secondo quanto appreso da G. nell’immediatezza dei fatti), proprio per delimitarne la proprietà esclusiva.

Ora, tale via sterrata, sulla quale sarebbe avvenuto il fatto contestato, utilizzata esclusivamente dalle confinanti famiglie I. – in servitù a S. I. – non può essere considerata “luogo aperto al pubblico”, in quanto il proprietario ben può escludere o limitare il passaggio a chiunque, potendovi esercitare appunto uno ius excludendi nei confronti di chi voglia accedervi; si veda in tal proposito la relazione di servizio in cui risulta che il C. veniva autorizzato verbalmente a passare nella suddetta strada, con ciò escludendosi che il diritto di passaggio fosse fruibile indipendentemente dalla volontà espressa del proprietario.

Gli imputati devono pertanto essere assolti perché il fatto non sussiste, formula prevalente rispetto a quella “il fatto non costituisce reato”.

P.Q.M.

Visto l’art. 530 cod. proc. pen.;

Assolve



C. S., nato in ***** il *****, e I. S., nata in ***** il ***** dal reato ai medesimi ascritti perché il fatto non sussiste.



Così deciso in Caltanissetta, 11 gennaio 2012.

Il Giudice

Valerio Giovanni Antonio Sasso
 
Tribunale Caltanissetta, sez. penale, sentenza 11.01.2012
Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale non sussiste se la condotta non si verifica in un luogo pubblico o aperto al pubblico, da intendersi quale luogo al quale può accedere chiunque a date condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria o comunque da un numero indeterminato di persone che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto. (Nel caso di specie, i fatti avvenivano presso un cancello che affacciava su una via sterrata, utilizzata esclusivamente da due confinanti famiglie che non può essere considerata “luogo aperto al pubblico”, in quanto il proprietario poteva escludere o limitare il passaggio a chiunque, potendovi esercitare appunto uno ius excludendi nei confronti di chi volesse accedervi. In tal proposito, la relazione di servizio del Carabiniere persona offesa riporta che egli veniva autorizzato verbalmente a passare nella suddetta strada, con ciò escludendosi che il diritto di passaggio fosse fruibile indipendentemente dalla volontà espressa del proprietario.)
(*) Riferimenti normativi: art. 341 bis c.p.
(Fonte: Massimario.it - 30/2012. Cfr. nota di Alessandro Ferretti

Oltraggio a pubblico ufficiale: reato escluso in luogo non aperto al pubblico
Tribunale Caltanissetta, sez. penale, sentenza 11.01.2012 (Alessandro Ferretti)
Quando riferirsi ai conigli può costituire un reato, purché lo si faccia in un luogo aperto al pubblico! E’ questa la sintesi della sentenza 11 gennaio 2012 del Tribunale di Caltanissetta (sezione penale). I due imputati sono stati assolti dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste, in quanto il fatto contestato era avvenuto in una via che non possedeva le caratteristiche del luogo aperto al pubblico.
In particolare, tra i due – fratello e sorella – scoppiava una lite nel cuore della notte alla presenza dei carabinieri intervenuti sul luogo dove erano stati chiamati dalla donna e dalla sua famiglia in quanto lamentavano che fosse stata estirpata la rete di recinzione unitamente ai paletti di sostegno nella loro proprietà.
La donna sosteneva che l’autore del danneggiamento fosse stato il fratello confinante. I carabinieri si recavano insieme alla donna a casa del fratello e nei pressi del cancello scoppiava la lite tra i due, durante la quale la donna sosteneva peraltro che suo fratello poteva permettersi di fare di tutto perché andava a caccia e a mangiare (conigli!) insieme ai carabinieri – circostanza tra l’altro del tutto negata dagli stessi - .
Da qui l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale.
Il Giudice di merito, pur riconoscendo il carattere offensivo dell’accusa della donna nei confronti dei carabinieri, mettendo in dubbio la loro imparzialità di operato e onorabilità in presenza del fratello e dei figli, tuttavia non riconosce integrato l’elemento oggettivo del reato stesso come descritto dalla norma. Infatti, l’articolo 341-bis prevede che la condotta ivi prevista, per essere sanzionabile penalmente, debba essere commessa in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Al riguardo, il Tribunale ricorda che la Cassazione ha ritenuto possedere tali caratteristiche il luogo al quale può accedere chiunque a date condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria o comunque da un numero indeterminato di persone che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto. Al contrario, nel caso di specie, la condotta è avvenuta nei pressi di un cancello che affacciava sulla via sterrata, di pertinenza dei proprietari.
Il Giudice ritiene che tale via, utilizzata esclusivamente dalle confinanti famiglie, non possa essere considerata luogo aperto al pubblico in quanto il proprietario può escludere o limitare il passaggio a chiunque, potendo esercitare uno ius excludendi nei confronti di chi voglia accedervi.
Da qui la decisione di assolvere entrambi gli imputati perché il fatto non sussiste.
(Altalex, 28 agosto 2012. Nota di Alessandro Ferretti)
estratto da: http://www.altalex.com/index.php?idnot=18683

Fecondazione: "legge 40 incoerente" La Corte Europea "boccia" l'Italia

Fecondazione: "legge 40 incoerente" La Corte Europea "boccia" l'Italia

28 AGO 2012  
(AGI) - Strasburgo, 28 ago. - La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha bocciato un articolo della legge italiana 40 sulla fecondazione assistita. La sentenza riguarda il ricorso di una coppia italiana fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica contro il divieto di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni. I sette magistrati hanno condannato lo Stato italiano a pagare 15mila euro per danni morali e 2.500 per le spese legali per la violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare della coppia italiana. Nella sentenza, i magistrati hanno sottolineato "l'incoerenza del sistema legislativo italiano che da una parte priva i richiedenti dell'accesso alla diagnosi genetica preimpianto, e dall'altra li autorizza a effettuare un'interruzione di gravidanza terapeutica quando il feto e' affetto da questa stessa patologia". Il verdetto diventera' definitivo entro tre mesi se non ci saranno ricorsi di fronte alla Grande Camera.
Il caso era stato sollevato di fronte alla Corte europea di Strasburgo da Rosetta Costa e Walter Pavan: i due, dopo aver scoperto di essere portatori sani di fibrosi cistica, avevano deciso di rivolgersi alla fecondazione in vitro per poter effettuare test genetici sull'embrione prima dell'impianto ed escludere cosi' la trasmissione della malattia. Tale possibilita' e' vietata dalla legge 40. La Corte di Strasburgo fa riferimento anche della sentenza del tribunale di Salerno che il 13 gennaio 2010 autorizzo' per la prima volta in Italia una coppia fertile portatrice sana di atrofia muscolare spinale ad accedere alla diagnosi genetica preimpianto e alle tecniche di procreazione assistita. "Tale decisione - si sottolinea - rimane isolata".
e documenti correlati
e per una prospettiva ampia sul tema leggi http://www.janusonline.it/sites/default/files/Indice.pdf
è legittimo predire e selezionare l'uomo? di Germano Rossini
nonchè
http://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=19976&dpath=document&dfile=05052012024616.pdf&content=Fecondazione+eterologa+e+corte+europea+CEDU:+quali+effetti+vincolanti+nel+contrasto+di+interpretazione+tra+due+decisioni+ed+altri+profili+processuali+di+costituzionalità+-+unione+europea+-+dottrina+-+


Procreazione: Corte europea boccia legge 40. E' incoerente
Corte Europea Diritti dell'Uomo , sez. XII, sentenza 28.08.2012
(ASCA) - Strasburgo, 28 ago - La Corte europea dei diritti umani ha bocciato la legge 40 nella parte che riguarda l'impossibilita' per una coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
Secondo i giudici della Corte di Strasburgo il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni e' ''incoerente'' in quanto, allo stesso tempo, un'altra legge dello Stato permette alla coppia di accedere a un aborto terapeutico in caso che il feto venga trovato affetto da fibrosi cistica. I giudici della Corte di Strasburgo, la cui decisione diverra' definitiva entro tre mesi se nessuna delle parti fara' ricorso per ottenere una revisione davanti alla Grande Camera, ha quindi stabilito che cosi com'e' formulata la legge 40 ha violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare di Rosetta Costa e Walter Pavan, una coppia che desiderava utilizzare la tecnologia riproduttiva e assistita per avere un bambino senza che il feto venisse trovato affetto da fibrosi cistica.
''Il governo italiano - si legge - ha giustificato l'interferenza al fine di tutelare la salute dei bambini e le donne, la dignita' e la liberta' di coscienza degli operatori sanitari ed evitare il rischio di eugenetica''. A questo proposito la Corte rileva in primo luogo che ''i concetti di 'embrione' e 'bambino' non devono essere confusi e che non si comprende come, nel caso di malattia del feto, ''un aborto terapeutico possa conciliarsi con le giustificazioni del Governo italiano, tenendo conto tra l'altro delle conseguenze che questo ha sia sul feto sia, specialmente, sulla madre''.
La Corte ha stabilito, inoltre, che lo Stato dovra' versare 15 mila euro per danni morali e 2.500 per le spese legali sostenute.

estratto da: http://www.altalex.com/index.php?idnot=19209
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
Sezione
Sentenza 28 agosto 2012
DEUXIÈME SECTION
AFFAIRE COSTA ET PAVAN c. ITALIE
(Requête no 54270/10)
ARRÊT
STRASBOURG
28 août 2012
Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l’article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.
En l’affaire Costa et Pavan c. Italie,
La Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :
Françoise Tulkens, présidente,
Dragoljub Popović,
Isabelle Berro-Lefèvre,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, juges,
Danutė Jočienė,
Işıl Karakaş, juges suppléantes,
et de Françoise Elens-Passos, greffière adjointe de section,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 10 juillet 2012,
Rend l’arrêt que voici, adopté à cette date:
PROCÉDURE
1. A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 54270/10) dirigée contre la République italienne et dont deux ressortissants de cet Etat, Mme Rosetta Costa et M. Walter Pavan (« les requérants »), ont saisi la Cour le 20 septembre 2010 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. Les requérants sont représentés par Mes Nicolò Paoletti et Ginevra Paoletti, avocats à Rome. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») est représenté par son agent, Mme E. Spatafora, ainsi que par son coagent, Mme P. Accardo.
3. Porteurs sains de la mucoviscidose, les requérants se plaignent de ne pas pouvoir accéder au diagnostic génétique préimplantatoire en vue de sélectionner un embryon qui ne soit pas affecté par cette pathologie et allèguent que cette technique est accessible à des catégories de personnes dont ils ne font pas partie. Ils invoquent à ce titre les articles 8 et 14 de la Convention.
4. A la demande des requérants, le 4 mai 2011, la présidente a décidé de traiter la requête en priorité (article 41 du règlement).
5. Le 7 juin 2011, cette requête a été communiquée au Gouvernement. Comme le permet l’article 29 § 1 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et le fond.
6. En application de l’article 44 § 3 du règlement, les 31 août et 7 novembre 2011, la présidente a fait droit respectivement à deux demandes de tierce intervention. La première a été présentée par M. Grégor Puppinck au nom du Centre Européen pour la Justice et les Droits de l’Homme (ECLJ), de l’association « Movimento per la vita » et de cinquante-deux parlementaires italiens (ci-après, « premier tiers intervenant ») et, la deuxième, a été introduite par Me Filomena Gallo au nom des associations « Luca Coscioni », « Amica Cicogna Onlus », « Cerco un bimbo », « L’altra cicogna » et de soixante parlementaires italiens et européens (ci-après, « deuxième tiers intervenant »). Les tiers intervenants ont présenté leurs observations respectivement les 22 septembre et 28 novembre 2011.
EN FAIT
I. LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE
7. Les requérants sont nés respectivement en 1977 et 1975 et résident à Rome.
8. A la suite de la naissance de leur fille, née en 2006, les requérants apprirent qu’ils étaient porteurs sains de la mucoviscidose[1]. L’enfant avait été atteint par cette pathologie.
9. Au courant du mois de février 2010, ayant mis en route une deuxième grossesse, les requérants, désireux de procréer un enfant qui ne soit pas atteint par la maladie dont ils étaient porteurs, effectuèrent un diagnostic prénatal qui indiqua que le fœtus était affecté par la mucoviscidose. Ils décidèrent donc d’effectuer une interruption médicale de grossesse (ci-après, « I.M.G. »).
10. Les requérants souhaiteraient à présent accéder aux techniques de la procréation médicalement assistée (ci-après, « P.M.A. ») et à un diagnostic génétique préimplantatoire[2] (ci-après, « D.P.I. ») avant que la requérante entame une nouvelle grossesse. Toutefois, aux termes de la loi no 40 du 19 février 2004, les techniques de P.M.A. ne sont accessibles qu’aux couples stériles ou infertiles. Le D.P.I. est interdit à toute catégorie de personnes.
11. Par un décret du 11 avril 2008, le ministère de la Santé a étendu l’accès à la P.M.A. aux couples dont l’homme est affecté par des maladies virales transmissibles sexuellement (telles que le virus de l’H.I.V., de l’hépatite B. et C.) dans le but de leur permettre de procréer des enfants sans le risque de transmettre la maladie virale à la femme et/ou au fœtus dérivant de la procréation par les voies naturelles.
12. Selon les informations fournies par le Gouvernement et le premier tiers intervenant, cette opération s’effectue à travers le « lavage de sperme » à un stade précédant celui de la création de l’embryon in vitro.
II. LE DROIT INTERNE PERTINENT
1. Loi no 40 du 19 février 2004 (« Normes sur la procréation médicalement assistée »)
Article 4 § 1
Accès aux techniques
« L’accès aux techniques de la procréation médicalement assistée est autorisé uniquement lorsque l’impossibilité d’éliminer autrement les causes empêchant la procréation est prouvée et, de toute manière, [ledit accès] est limité aux cas de stérilité ou d’infertilité inexplicables, certifiés par un acte médical ainsi qu’aux cas de stérilité ou d’infertilité [dérivant] d’une cause vérifiée et certifiée par un acte médical. [...] »
Article 5 § 1
Conditions subjectives
« [...] Les couples ayant atteint la majorité, composés de deux personnes de sexe différent, mariés ou vivant en couple, en âge potentiellement fertile et en vie peuvent accéder aux techniques de procréation médicalement assistée. »
Article 14 § 5
Limites à l’application de techniques sur les embryons
« Les individus remplissant les conditions prévues par l’article 5 sont informés sur le nombre et, à leur demande, sur l’état de santé des embryons produits et destinés à être transférés dans l’utérus. »
2. Décret du ministère de la Santé no 15165 du 21 juillet 2004
Mesures de tutelle de l’embryon
« [...] Tout examen concernant l’état de santé des embryons créés in vitro, au sens de l’article 14, alinéa 5 [de la loi no 40 de 2004], est finalisé uniquement à l’observation de ceux-ci (« dovrà essere di tipo osservazionale »). [...] »
3. Décret du ministère de la Santé no 31639 du 11 avril 2008
13. Dans ce décret, la référence aux finalités « d’observation » mentionnées dans le décret du ministère de la Santé no 15165 du 21 juillet 2004 a été éliminée.
14. En outre, la partie de ce décret concernant la certification de l’infertilité ou de la stérilité prévoit que, aux fins de l’accès aux techniques de la P.M.A., celle-ci doit être effectuée :
« [...] en tenant compte aussi de conditions particulières en présence desquelles –lorsque l’homme est porteur de maladies virales sexuellement transmissibles par infection de H.I.V., de l’hépatite B et C – le risque élevé d’infection pour la mère ou pour le fœtus constitue de fait, en termes objectifs, un obstacle à la procréation, imposant de précautions qui se traduisent nécessairement en une condition d’infécondité assimilable à des cas d’infertilité masculine sévère dérivant d’une cause vérifiée et certifiée par un acte médical, telle que celle établie par l’article 4 alinéa 1 de la loi no 40 de 2004 ».
4. Le jugement du tribunal administratif régional du Latium no 398 du 21 janvier 2008
15. Par ce jugement, le tribunal annula pour excès de pouvoir la partie du décret du ministère de la Santé no 15165 du 21 juillet 2004 limitant tout examen de l’état de santé des embryons créés in vitro aux seuls fins d’observation. Le tribunal considéra notamment que la compétence d’établir le champ d’application des examens en question ne pouvait qu’appartenir au législateur, et non pas au ministère, disposant, ce dernier, de simples pouvoirs d’exécution.
5. L’ordonnance du tribunal de Salerne no 12474/09, déposée le 13 janvier 2010
16. Par cette ordonnance, issue d’une procédure en référé, le juge délégué du tribunal de Salerne autorisa pour la première fois un couple de parents, non stériles et non infertiles, porteurs sains de l’atrophie musculaire, d’accéder au D.P.I.
17. Le juge rappela notamment les nouveautés introduites par le décret du ministère de la Santé no 31639 du 11 avril 2008, à savoir le fait que les examens sur l’état de santé des embryons créés in vitro n’étaient plus limités aux seuls fins d’observation et que l’accès à la procréation assistée était autorisé pour les couples dont l’homme était porteur de maladies virales sexuellement transmissibles.
18. Il estima ainsi que le D.P.I. ne pouvait qu’être considéré comme étant une des techniques de monitorage prénatal visant à connaître l’état de santé de l’embryon. L’interdiction d’accès à une telle pratique entraînait donc, dans le cas des demandeurs, la responsabilité médicale du directeur sanitaire du Centre de la Médicine de la Reproduction, partie demanderesse dans la procédure, pour non-exécution d’une prestation sanitaire.
19. Le juge considéra aussi qu’il aurait été déraisonnable de ne pas garantir à la mère le droit de connaître l’état de santé de l’embryon à travers le D.P.I. alors qu’on lui reconnaissait le droit d’avorter un fœtus malade.
20. Le juge ordonna donc au directeur sanitaire d’exécuter un D.P.I. sur l’embryon in vitro des demandeurs afin de vérifier si ce dernier était affecté par l’atrophie musculaire.
III. LE DROIT EUROPÉEN PERTINENT
1. La Convention du Conseil de l’Europe sur les Droits de l’Homme et la biomédecine (« Convention d’Oviedo ») du 4 avril 1997
21. Cette Convention est ainsi libellée dans ses parties pertinentes :
Article 12 – Tests génétiques prédictifs
« Il ne pourra être procédé à des tests prédictifs de maladies génétiques ou permettant soit d’identifier le sujet comme porteur d’un gène responsable d’une maladie soit de détecter une prédisposition ou une susceptibilité génétique à une maladie qu’à des fins médicales ou de recherche médicale, et sous réserve d’un conseil génétique approprié. »
22. Le § 83 du Rapport explicatif à la Convention d’Oviedo dispose ainsi :
L’article 12, en lui-même, n’entraîne aucune limitation au droit de procéder à des tests diagnostiques sur un embryon afin de déterminer si celui-ci est porteur de caractères héréditaires qui entraîneront une grave maladie chez l’enfant à naître.
23. La Convention d’Oviedo, signée le 4 avril 1997, n’a pas été ratifiée par le gouvernement italien.
2. La directive 2004/23CE du Parlement européen et du Conseil de l’Union Européenne du 31 mars 2004
24. Cette directive a établi un standard minimum de qualité et de sécurité pour le don, l’obtention, le contrôle, la transformation, le stockage et la distribution des tissus et cellules humains, ainsi prévoyant l’harmonisation des réglementations nationales en la matière. Elle vise également les embryons faisant l’objet de transferts dans le cadre du D.P.I.
3. Le document de base sur le diagnostic préimplantatoire et prénatal publié par le Comité directeur pour la bioéthique (CDBI) du Conseil de l’Europe le 22 novembre 2010 (CDBI/INF (2010) 6)
25. Le CDBI a élaboré ce rapport dans le but de fournir des informations sur le diagnostic préimplantatoire et prénatal et sur les questions juridiques et éthiques que l’utilisation de ces diagnostics soulève dans différents pays européens. Les extraits pertinents de ce document sont ainsi libellés :
[a) Contexte]
« La fécondation in vitro est pratiquée depuis la fin des années 70 afin d’aider les couples confrontés à des problèmes de stérilité. Les progrès de la médicine de la reproduction offrent aujourd’hui de nouveaux moyens d’éviter les maladies génétiques, grâce au transfert sélectif des embryons. Au début des années 90, le diagnostic génétique préimplantatoire (D.P.I.) a été introduit en tant que procédure expérimentale comme alternative possible au diagnostic génétique prénatal (D.P.N.) pour les couples risquant de transmettre une anomalie génétique particulièrement grave, et à leur épargner ainsi un choix difficile concernant une interruption de grossesse. »
[b) Le cycle de D.P.I.]
« Un « cycle de D.P.I. » comprend les étapes suivantes : la stimulation ovarienne, le prélèvement d’ovocytes, la fécondation in vitro de plusieurs ovocytes matures [...], le prélèvement d’1 ou 2 cellules embryonnaires, l’analyse génétique des matériels nucléaires des cellules prélevées et, enfin, la sélection et le transfert d’embryons non porteurs de l’anomalie génétique en question. »
[c) Utilisation du D.P.I.]
« Le recours au D.P.I. pour des indications médicales a été demandé par des couples qui présentaient un risque élevé de transmission d’une maladie génétique spécifique d’une particulière gravité [...] et incurable au moment du diagnostic. Ce risque avait souvent été identifié sur la base d’antécédents familiaux ou de la naissance d’un enfant atteint de la maladie. De nombreuses indications monogéniques répondent actuellement à ces critères justifiant une prise en charge par D.P.I. comme: la mucoviscidose, la dystrophie musculaire de Duchenne, la myotonie de Steinert, la maladie de Huntington, l’amyotrophie spinale infantile et l’hémophilie. »
« Dans les pays où le D.P.I. est pratiqué, il est devenu une méthode clinique bien établie pour analyser les caractéristiques génétiques d’embryons issus de fécondation in vitro et pour obtenir des informations permettant de sélectionner les embryons à transférer. Le D.P.I. est principalement demandé par les couples, porteurs de caractères génétiques susceptibles d’entraîner chez leurs descendants des maladies graves ou des décès prématurés, qui souhaitent éviter le déclenchement d’une grossesse qui pourrait ne pas parvenir à terme ou les placer devant le choix difficile d’une éventuelle interruption en cas de détection d’un problème génétique particulièrement grave. »
4. Le rapport « Preimplantation Genetic Diagnosis in Europe » rédigé par le JRC (Joint Research Centre) de la Commission Européenne, publié en décembre 2007 (EUR 22764 EN)
26. Il ressort de ce rapport que les demandeurs de D.P.I. ressortissant de pays où cette pratique est interdite se rendent à l’étranger afin d’effectuer le diagnostic en question. Les demandeurs italiens se dirigent pour la plus part vers l’Espagne, la Belgique, la République Tchèque et la Slovaquie.
27. Cette étude souligne aussi l’incohérence des systèmes interdisant l’accès au D.P.I. et autorisant l’accès au diagnostic prénatal et à l’avortement thérapeutique pour éviter des pathologies génétiques graves chez l’enfant.
5. Rapport consultatif concernant les maladies rares et l’urgence d’une action concertée (Parlement européen 23 avril 2009)
28. Le communiqué de presse de ce rapport se lit comme suit dans ses parties pertinentes :
« Une action concertée dans le domaine des maladies rares au niveau de l’UE et au niveau national est une nécessité absolue, estiment les députés. Ils soulignent que le cadre législatif actuel de l’UE est peu adapté à ces maladies et en outre mal défini. Bien que les maladies rares contribuent fortement à la morbidité et à la mortalité, elles sont pratiquement absentes des systèmes d’information de soins de santé, faute de systèmes appropriés d’identification et de classification. [...] Le Parlement souhaite notamment encourager les efforts consentis pour prévenir les maladies rares qui sont héréditaires par des conseils génétiques aux parents porteurs de la maladie; et, lorsque cela s’impose, "sans préjudice de la législation nationale existante et toujours sur une base volontaire, une sélection d’embryons sains avant l’implantation". »
6. Eléments de droit comparé
29. Les documents dont la Cour dispose (à savoir, les rapports du Conseil de l’Europe et de la Commission Européenne en la matière, paragraphes 25 à 27 ci-dessus) montrent que le D.P.I. est interdit, tout au moins, afin de prévenir la transmission de maladies génétiques, dans les pays suivants : Autriche, Italie et Suisse.
30. Quant à ce dernier pays, la Cour note que le 26 mai 2010, le Conseil fédéral a soumis à consultation un projet visant à remplacer l’interdiction du D.P.I., telle qu’actuellement prévue par la loi sur la P.M.A., par une admission réglementée. Une modification de l’article 119 de la Constitution fédérale sera nécessaire afin de réaliser ce changement.
31. Il ressort en outre que le D.P.I. est autorisé dans les pays suivants : Allemagne, Belgique, Danemark, Espagne, Finlande, France, Géorgie, Grèce, Norvège, Pays-Bas, Portugal, République tchèque, Royaume-Uni, Fédération de Russie, Serbie, Slovénie et Suède.
32. Cette matière ne fait pas l’objet d’une règlementation spécifique dans les pays suivants : Bulgarie, Chypre, Malte, Estonie, Irlande, Lettonie, Luxembourg, Pologne, Roumanie, Slovaquie, Turquie et Ukraine. La Cour note que trois de ces pays (Chypre, Turquie et Slovaquie) autorisent l’accès au D.P.I. dans les faits.
33. En outre, la Cour relève que, dans l’affaire Roche c. Roche et autres ([2009] IESC 82 (2009)), la Cour Suprême irlandaise a établi que la notion d’enfant à naître (« unborn child ») ne s’applique pas à des embryons obtenus dans le cadre d’une fécondation in vitro, ces derniers ne bénéficiant donc pas de la protection prévue par l’article 40.3.3. de la Constitution irlandaise qui reconnaît le droit à la vie de l’enfant à naître. Dans cette affaire, la requérante, ayant déjà eu un enfant à la suite d’une fécondation in vitro, avait saisi la Cour Suprême en vue d’obtenir l’implantation de trois autres embryons obtenus dans le cadre de la même fécondation, malgré l’absence de consensus de son ancien compagnon, duquel elle s’était séparée entre-temps.
7. Données pertinentes résultant de la « Proposition de loi modifiant la loi du 6 juillet 2007 relative à la procréation médicalement assistée [...] » - Sénat de Belgique session 2010-2011
34. Cette proposition de loi vise à élargir l’utilisation du D.P.I. afin d’éviter le risque de faire naître un enfant porteur sain d’une maladie génétique sévère (l’accès à cette technique afin d’éviter la naissance d’enfants affectés par des maladies génétiques étant déjà prévu par la loi belge). Les passages pertinents de ce texte sont ici reportés :
« La demande de diagnostic préimplantatoire a augmenté au fil du temps et il est désormais une option pour les couples qui présentent un haut risque de donner naissance à un enfant atteint d’une affection héréditaire grave pour laquelle on peut détecter la mutation. [...]
Les auteurs de projet parental privilégient généralement le diagnostic préimplantatoire (DPI) au diagnostic prénatal (DPN). En effet [...], « lorsque le fœtus est atteint, cela implique une interruption de grossesse à partir de trois mois, ce qui est généralement une source de souffrance psychique pour les parents qui ont vraisemblablement déjà réalisé un investissement affectif dans ce fœtus comme allant devenir leur futur enfant [...] Il est par ailleurs possible que plusieurs grossesses successives doivent être interrompues avant d’obtenir un fœtus non atteint [Source : Comité consultatif de bioéthique, avis no 49 relatif à l’utilisation du D.P.I.] »
Ainsi, le principal avantage du diagnostic préimplantatoire est qu’il permet d’éviter une interruption de grossesse. Il a été relevé que ceci constitue d’ailleurs la principale motivation de la majorité des couples qui y font appel, ces couples ayant souvent déjà vécu l’expérience malheureuse d’une interruption de grossesse pour raisons médicales. »
EN DROIT
I. SUR LES EXCEPTIONS SOULEVÉES PAR LE GOUVERNEMENT
35. Le Gouvernement excipe le défaut de qualité de victime des requérants. Il fait valoir qu’à la différence des demandeurs dans l’affaire tranchée par le tribunal de Salerne (no 12474/09 déposé le 13 janvier 2010), les requérants n’ont pas saisi les autorités internes afin de pouvoir effectuer un D.P.I. et qu’ils ne se sont donc pas heurtés à un refus de leur part. Cette requête constituerait donc une actio popularis et les requérants n’auraient en tout cas pas épuisé les voies de recours internes.
36. Les requérants font valoir que l’ordonnance en cause constitue une décision isolée, prise par un juge unique sur la base d’une procédure en référé et que, de toute manière, la loi interdit de manière absolue l’accès au D.P.I.
37. La Cour rappelle qu’en l’absence d’un remède interne spécifique, il appartient au Gouvernement de démontrer, à l’appui d’une jurisprudence interne, le développement, la disponibilité, la portée et l’application de la voie de recours qu’il invoque (voir, mutatis mutandis, Melnītis c. Lettonie, no 30779/05, § 50, 28 février 2012 et McFarlane c. Irlande [GC], no 31333/06, §§ 115-127, 10 septembre 2010). En outre, l’existence d’un recours interne ne saurait être invoquée par le Gouvernement en l’absence d’une jurisprudence interne qui démontre son effectivité en pratique et en droit, d’autant moins lorsque cette jurisprudence émane d’une juridiction de première instance (Lutz c. France (no 1) (no 48215/99, § 20, 26 mars 2002).
38. Dans le cas d’espèce, la Cour relève que l’ordonnance du tribunal de Salerne a été prononcée par une instance de premier degré, n’a pas été confirmée par une jurisprudence ultérieure et ne constitue qu’une décision isolée. En tout état de cause, on ne saurait reprocher valablement aux requérants de ne pas avoir introduit une demande visant l’obtention d’une mesure qui, le Gouvernement le reconnaît explicitement (voir paragraphe 73 ci-dessous), est interdite de manière absolue par la loi.
39. Enfin, il ne fait aucun doute que les requérants sont directement touchés par la mesure d’interdiction litigieuse, ceux-ci ayant un enfant affecté par la pathologie dont ils sont porteurs et ayant procédé une fois à une I.M.G. en raison de ce que le fœtus était atteint par la mucoviscidose.
40. Dans ces conditions, les exceptions du gouvernement défendeur ne sauraient être retenues.
II. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 8 DE LA CONVENTION
41. Invoquant l’article 8 de la Convention, les requérants se plaignent de la violation de leur droit au respect de la vie privée et familiale en ce que la seule voie qui leur est ouverte pour générer des enfants qui ne soient pas affectés par la maladie dont ils sont porteurs sains est celle d’entamer une grossesse par les voies naturelles et de procéder à une I.M.G. à chaque fois qu’un diagnostic prénatal devait montrer que le fœtus est atteint.
42. L’article 8 de la Convention dispose ainsi dans ses parties pertinentes :
« 1. Toute personne a droit au respect de sa vie privée et familiale (...).
2. Il ne peut y avoir ingérence d’une autorité publique dans l’exercice de ce droit que pour autant que cette ingérence est prévue par la loi et qu’elle constitue une mesure qui, dans une société démocratique, est nécessaire [...] à la protection de la santé ou de la morale, ou à la protection des droits et libertés d’autrui. »
A. Sur la recevabilité
43. La Cour constate que ce grief n’est pas manifestement mal fondé au sens de l’article 35 § 3 (a) de la Convention. La Cour relève par ailleurs qu’il ne se heurte à aucun autre motif d’irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.
B. Sur le fond
1. Les arguments des parties
a) Le Gouvernement
44. Le Gouvernement observe que les requérants invoquent en substance un « droit d’avoir un enfant sain », qui n’est pas protégé en tant que tel par la Convention. Ainsi, le grief des requérants serait irrecevable ratione materiae.
45. Si la Cour devait estimer tout de même que l’article 8 trouve à s’appliquer en l’espèce, le droit des requérants au respect de leur vie privée et familiale n’aurait, en tout cas, pas été atteint, l’interdiction d’accéder au D.P.I. constituant une mesure prévue par la loi, qui poursuit un but légitime, à savoir la protection des droits d’autrui et de la morale, et nécessaire dans une société démocratique.
46. En effet, en règlementant cette matière, l’Etat a pris en compte la santé de l’enfant ainsi que celle de la femme, cette dernière risquant des dépressions dues à la stimulation et la ponction ovariennes. En outre, la mesure en cause viserait à protéger la dignité et la liberté de conscience des professions médicales et éviterait le risque de dérives eugéniques.
47. Enfin, en l’absence d’un consensus européen en la matière, les Etats membres jouiraient d’une ample marge d’appréciation, la présente requête touchant des questions morales, éthiques et sociales.
b) Les requérants
48. Les requérants observent que « le droit au respect des décisions de devenir ou de ne pas devenir parent », notamment au sens génétique du terme, rentre dans la notion de droit au respect de la vie privée et familiale (Evans c. Royaume-Uni [GC], no 6339/05, § 71, CEDH 2007‑I).
49. Dans ce contexte, l’Etat devrait s’abstenir de toute interférence dans le choix de l’individu de devenir ou pas le géniteur d’un enfant ; il incombe aussi à l’Etat de mettre en place les mesures pour que le choix en question puisse être fait en toute liberté.
c) Les tiers intervenants
50. Le premier tiers intervenant réitère les observations du gouvernement défendeur. En outre, il observe que, tout comme l’interdiction d’accéder au D.P.I., la possibilité de procéder légalement à une I.M.G. viserait à protéger la vie de l’enfant à naître car le système prévoit des alternatives à l’avortement par la mise en place, par exemple, de mesures sociales. De plus, le D.P.I. impliquerait la suppression de plusieurs êtres humains, tandis que l’avortement n’en viserait qu’un seul.
51. Le deuxième tiers intervenant fait valoir que l’accès à l’insémination artificielle et ensuite au D.P.I. permettrait aux requérants de procréer un enfant qui ne soit pas atteint par la pathologie dont ils sont porteurs, sans recourir à des avortements thérapeutiques. Ainsi, la santé de la requérante serait aussi préservée.
2. L’appréciation de la Cour
a) La portée du grief invoqué par les requérants et sa compatibilité ratione materiae avec les droits garantis par l’article 8 de la Convention
52. La Cour relève tout d’abord que, en vue d’établir la compatibilité ratione materiae du grief invoqué par les requérants avec l’article 8 de la Convention, il est essentiel de définir la portée de ce grief.
53. Elle observe que le Gouvernement et le premier tiers intervenant allèguent que les requérants se plaignent de la violation d’un « droit à avoir un enfant sain ». Or, la Cour constate que le droit invoqué par ceux-ci se limite à la possibilité d’accéder aux techniques de la procréation assistée et ensuite au D.P.I. en vue de procréer un enfant qui ne soit pas affecté par la mucoviscidose, maladie génétique dont ils sont porteurs sains.
54. En effet, dans le cas d’espèce, le D.P.I. n’est pas de nature à exclure d’autres facteurs pouvant compromettre la santé de l’enfant à naitre, tels que, par exemple, l’existence d’autres pathologies génétiques ou de complications dérivant de la grossesse ou de l’accouchement, le test en cause visant le diagnostic d’une « maladie génétique spécifique d’une particulière gravité [...] et incurable au moment du diagnostic » (voir le rapport du CDBI du Conseil de l’Europe, partie b. « Le Cycle de D.P.I. », paragraphe 25 ci-dessus).
55. La Cour rappelle ensuite que la notion de « vie privée » au sens de l’article 8 est une notion large qui englobe, entre autres, le droit pour l’individu de nouer et développer des relations avec ses semblables (Niemietz c. Allemagne, 16 décembre 1992, § 29, série A no 251-B), le droit au « développement personnel » (Bensaïd c. Royaume-Uni, no 44599/98, § 47, CEDH 2001-I), ou encore le droit à l’autodétermination (Pretty c. Royaume-Uni, no 2346/02, § 61, CEDH 2002-III). Des facteurs tels que l’identification, l’orientation et la vie sexuelles relèvent également de la sphère personnelle protégée par l’article 8 (voir, par exemple, Dudgeon c. Royaume-Uni, 22 octobre 1981, § 41, série A no 45 et Laskey, Jaggard et Brown c. Royaume-Uni, 19 février 1997, § 36, Recueil 1997-I), de même que le droit au respect des décisions de devenir ou de ne pas devenir parent (Evans c. Royaume-Uni, précité, § 71, A, B et C c. Irlande [GC], no 25579/05, § 212, CEDH 2010 et R.R. c. Pologne, no 27617/04, § 181, CEDH 2011 (extraits)).
56. Sous l’angle de l’article 8 de la Convention, la Cour a également reconnu le droit des requérants de voir respecter leur décision de devenir parents génétiques (Dickson c. Royaume-Uni [GC], no 44362/04, § 66, CEDH 2007-V, avec les références qui s’y trouvent citées) et a conclu à l’application de l’article en question en matière d’accès aux techniques hétérologues de procréation artificielle à des fins de fécondation in vitro (S.H. et autres c. Autriche [GC], no 57813/00, § 82, CEDH 2011).
57. En l’espèce, la Cour considère que le désir des requérants de procréer un enfant qui ne soit pas atteint par la maladie génétique dont ils sont porteurs sains et de recourir pour ce faire à la procréation médicalement assistée et au D.P.I. relève de la protection de l’article 8, pareil choix constituant une forme d’expression de leur vie privée et familiale. En conséquence, cette disposition trouve à s’appliquer en l’espèce.
b) L’observation de l’article 8 de la Convention
i. Ingérence « prévue par la loi » et but légitime
58. La Cour constate qu’en droit italien, la possibilité d’accéder à la procréation médicalement assistée est ouverte uniquement aux couples stériles ou infertiles ainsi qu’aux couples dont l’homme est porteur de maladies virales sexuellement transmissibles (H.I.V., hépatite B et C) (voir l’article 4, alinéa 1, de la loi no 40/2004 et le décret du ministère de la Santé no 31639 du 11 avril 2008). Les requérants ne faisant pas partie de ces catégories de personnes, ils ne peuvent pas accéder à la procréation médicalement assistée. Quant à l’accès au D.P.I., le Gouvernement reconnaît explicitement que l’accès à ce diagnostic est interdit en droit interne à toute catégorie de personnes (voir paragraphe 73 ci-dessous). L’interdiction en cause constitue donc une ingérence dans le droit des requérants au respect de leur vie privée et familiale.
59. De l’avis de la Cour, cette ingérence est certainement « prévue par la loi » et peut passer pour poursuivre les buts légitimes de protection de la morale et des droits et libertés d’autrui, ce qui n’est pas contesté par les parties.
ii. Nécessité dans une société démocratique
60. La Cour relève d’emblée que le grief des requérants ne porte pas sur la question de savoir si, prise isolément, l’interdiction qui leur est faite d’accéder au D.P.I. est compatible avec l’article 8 de la Convention. Les requérants dénoncent en fait le manque de proportionnalité d’une telle mesure à la lumière de ce que le système législatif italien les autorise de procéder à une I.M.G. lorsque le fœtus devait être atteint par la pathologie dont ils sont porteurs.
61. Pour justifier cette ingérence, le Gouvernement invoque le souci de protéger la santé de « l’enfant » et de la femme, la dignité et la liberté de conscience des professions médicales et l’intérêt d’éviter le risque de dérives eugéniques.
62. La Cour n’est pas convaincue par ces arguments. Tout en soulignant que la notion d’« enfant » ne saurait être assimilée à celle d’« embryon », elle ne voit pas comment la protection des intérêts évoqués par le Gouvernement se concilie avec la possibilité ouverte aux requérants de procéder à un avortement thérapeutique lorsqu’il s’avère que le fœtus est malade, compte tenu notamment des conséquences que cela comporte tant pour le fœtus, dont le développement est évidemment bien plus avancé que celui d’un embryon, que pour le couple de parents, notamment pour la femme (voir le rapport du CDBI du Conseil de l’Europe et les données résultant de la proposition de loi belge, paragraphes 25 et 34 ci-dessus).
63. De plus, le Gouvernement omet d’expliquer dans quelle mesure le risque de dérives eugéniques et de toucher à la dignité et à la liberté de conscience des professions médicales serait écarté dans le cas d’exécution légale d’une I.M.G.
64. Force est de constater que le système législatif italien en la matière manque de cohérence. D’une part, il interdit l’implantation limitée aux seuls embryons non affectés par la maladie dont les requérants sont porteurs sains ; d’autre part, il autorise ceux-ci d’avorter un fœtus affecté par cette même pathologie (voir aussi le rapport de la Commission Européenne, paragraphe 27 ci-dessus).
65. Les conséquences d’un tel système sur le droit au respect de la vie privée et familiale des requérants sont évidentes. Afin de protéger leur droit de mettre au monde un enfant qui ne soit pas affecté par la maladie dont ils sont porteurs sains, la seule possibilité dont ils bénéficient est celle d’entamer une grossesse par les voies naturelles et de procéder à des I.M.G. lorsqu’un examen prénatal devait montrer que le fœtus est malade. En l’occurrence, les requérants ont déjà procédé pour cette raison à une I.M.G. une fois, au courant du mois de février 2010.
66. Dans ce contexte, la Cour ne saurait négliger, d’une part, l’état d’angoisse de la requérante qui, dans l’impossibilité de procéder à un D.P.I., aurait comme seule perspective de maternité celle liée à la possibilité que l’enfant soit affecté par la maladie litigieuse et, d’autre part, la souffrance dérivant du choix douloureux de procéder, le cas échéant, à un avortement thérapeutique.
67. La Cour relève ensuite que dans l’arrêt S.H. (précité, § 96), la Grande Chambre a établi que, en matière de fécondation hétérologue, compte tenu de l’évolution de la branche en examen, la marge d’appréciation de l’Etat ne pouvait pas être restreinte de manière décisive.
68. Tout en reconnaissant que la question de l’accès au D.P.I. suscite de délicates interrogations d’ordre moral et éthique, la Cour relève que le choix opéré par le législateur en la matière n’échappe pas au contrôle de la Cour (voir, mutatis mutandis, S.H., précité, § 97).
69. En l’espèce, la Cour rappelle que, à la différence de l’affaire S.H. (précité), où la Cour a été amenée à évaluer la compatibilité de la législation autrichienne interdisant la fécondation hétérologue avec l’article 8 de la Convention, dans le cas présent, qui concerne une fécondation homologue, elle a pour tâche de vérifier la proportionnalité de la mesure litigieuse à la lumière du fait que la voie de l’avortement thérapeutique est ouverte aux requérants (voir paragraphe 60 ci-dessus).
70. Il s’agit donc d’une situation spécifique laquelle, d’après les éléments de droit comparé dont la Cour dispose, outre l’Italie, ne concerne que deux des trente-deux Etats ayant fait l’objet d’examen, à savoir l’Autriche et la Suisse. De plus, quant à ce dernier Etat, la Cour note qu’un projet de modification de la loi en vue de remplacer l’interdiction du D.P.I., telle qu’actuellement prévue, par une admission réglementée est actuellement en cours (paragraphe 30 ci-dessus).
3. Conclusion
71. Compte tenu de l’incohérence du système législatif italien en matière de D.P.I. dans le sens décrit ci-dessus, la Cour estime que l’ingérence dans le droit des requérants au respect de leur vie privée et familiale a été disproportionnée. Ainsi, l’article 8 de la Convention a été enfreint en l’espèce.
III. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 14 DE LA CONVENTION
72. Invoquant l’article 14 de la Convention, les requérants se plaignent de subir une discrimination par rapport aux couples stériles ou infertiles ou dont l’homme est affecté par des maladies virales transmissibles sexuellement (telles que le virus de l’HIV et de l’hépatite B et C), pouvant recourir, d’après eux, au D.P.I. Cet article est ainsi libellé :
« La jouissance des droits et libertés reconnus dans la (...) Convention doit être assurée, sans distinction aucune, fondée notamment sur le sexe, la race, la couleur, la langue, la religion, les opinions politiques ou toutes autres opinions, l’origine nationale ou sociale, l’appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance ou toute autre situation. »
73. Le Gouvernement fait valoir que le droit italien interdit l’accès au D.P.I. à toute catégorie de personnes, le décret ministériel du 11 avril 2008 s’étant limité à permettre aux couples dont l’homme est affecté par des maladies virales transmissibles sexuellement d’accéder à la fécondation artificielle dans le but d’éviter le risque de transmission de pathologies sexuellement transmissibles à la mère et à l’enfant dérivant de la procréation par les voies naturelles. Les techniques de la procréation assistée ne seraient utilisées dans ce contexte qu’afin d’épurer le sperme de sa composante infectieuse. A la différence du D.P.I., il s’agit donc d’un stade précédant celui de la fécondation de l’embryon.
74. Les requérants n’opposent pas d’arguments spécifiques à cette analyse.
75. La Cour rappelle que, au sens de l’article 14 de la Convention, la discrimination découle du fait de traiter de manière différente, sauf justification objective et raisonnable, des personnes placées en une matière donnée dans des situations comparables (Willis c. Royaume-Uni, no 36042/97, § 48, CEDH 2002-IV, et Zarb Adami c. Malte, no 17209/02, § 71, CEDH 2006-VIII).
76. Dans le cas d’espèce, la Cour constate qu’en matière d’accès au D.P.I., les couples dont l’homme est affecté par des maladies virales transmissibles sexuellement ne sont pas traités de manière différente par rapport aux requérants, l’interdiction d’accéder au diagnostic en question touchant toute catégorie de personnes. Cette partie de la requête est donc manifestement mal fondée et doit être rejetée au sens de l’article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.
IV. SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 41 DE LA CONVENTION
77. Aux termes de l’article 41 de la Convention,
« Si la Cour déclare qu’il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d’effacer qu’imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s’il y a lieu, une satisfaction équitable. »
A. Dommage
78. Les requérants réclament 50 000 euros (EUR) au titre du préjudice moral qu’ils auraient subi.
79. Le Gouvernement s’oppose à cette demande.
80. La Cour considère qu’il y a lieu d’octroyer aux requérants conjointement 15 000 EUR à titre de préjudice moral.
B. Frais et dépens
81. Les requérants demandent également 14 767,50 EUR pour les frais et dépens engagés devant la Cour.
82. Le Gouvernement s’oppose à ces prétentions.
83. Selon la jurisprudence de la Cour, un requérant ne peut obtenir le remboursement de ses frais et dépens que dans la mesure où se trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le caractère raisonnable de leur taux. En l’espèce et compte tenu des documents en sa possession et de sa jurisprudence, la Cour estime raisonnable la somme de 2 500 EUR pour la procédure devant la Cour et l’accorde aux requérants.
C. Intérêts moratoires
84. La Cour juge approprié de calquer le taux des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne majoré de trois points de pourcentage.
PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L’UNANIMITÉ,
1. Déclare la requête recevable quant au grief tiré de l’article 8 de la Convention et irrecevable pour le surplus ;

2. Dit qu’il y a eu violation de l’article 8 de la Convention ;

3. Dit
a) que l’Etat défendeur doit verser aux requérants conjointement, dans les trois mois à compter du jour où l’arrêt sera devenu définitif conformément à l’article 44 § 2 de la Convention, les sommes suivantes :
i) 15 000 EUR (quinze mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt, pour dommage moral ;
ii) 2 500 EUR (deux mille cinq cents euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt par les requérants, pour frais et dépens ;
b) qu’à compter de l’expiration dudit délai et jusqu’au versement, ces montants seront à majorer d’un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage ;

4. Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus.
Fait en français, puis communiqué par écrit le 28 août 2012, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.
Françoise Elens-Passos Françoise Tulkens
Greffière adjointe Présidente
______________


[1] Mucoviscidose, ou fibrose kystique: Maladie héréditaire caractérisée par une viscosité anormale du mucus que sécrètent les glandes pancréatiques et bronchiques. Cette pathologie, se manifestant le plus souvent par des atteintes respiratoires, évolue plus ou moins rapidement vers l'insuffisance respiratoire sévère, souvent mortelle en l'absence de greffe pulmonaire. Source : Dictionnaire Larousse médical.
[2] Diagnostic génétique préimplantatoire : Identification d'une anomalie génétique chez l'embryon grâce aux techniques de biologie moléculaire au cours d'une fécondation in vitro. Source : Dictionnaire Larousse médical

Debito pubblico pro-capite

Contatore del debito pubblico italiano

Amore e Psiche

Amore e Psiche

Maddalena - Canova

Maddalena - Canova

Perseo e Medusa - Canova

Perseo e Medusa - Canova

Paolina Borghese Bonaparte - Canova

Paolina Borghese Bonaparte - Canova

LIBERIAMO LE DONNE DALLA SCHIAVITU', OVUNQUE NEL MONDO!

LIBERIAMO LE DONNE DALLA SCHIAVITU', OVUNQUE NEL MONDO!