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ALTALEX NEWS


lunedì 31 agosto 2009

Regolarizzazione colf e badanti, il software da scaricare

Regolarizzazione colf e badanti, il software da scaricare

Sul sito del Ministero dell'Interno è presente tutto l'occorrente per inoltro telematico delle domande per colf e badanti: il software da scaricare, il manuale per l'utente, tutte le istruzioni per il Modello EM, la dichiarazione di emersione di lavoro irregolare di extracomunitari. Ecco tutti i link utili:
- Il software da scaricare: clicca qui
- Il manuale utente: clicca qui
- Le istruzioni per il Modello EM: clicca qui
- Il Modello F24 e istruzioni per il versamento del contributo: clicca qui
- FAQ: le risposte alle domande più frequenti: clicca qui


http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/canalecittadino/grubrica.asp?ID_blog=268&ID_articolo=32&ID_sezione=&sezione=

mercoledì 26 agosto 2009

Immigrazione e asilo sent-cass-580-2006 CASO BARBAROS

Immigrazione e asilo sentenza Cassazione Penale sez. I n. 580/2006 CASO BARBAROS

http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2006/febbraio/sent-cass-580-2006.pdf



A seguito delle innovazioni apportate dal c.d. "pacchetto sicurezza 2009" torna in auge la sentenza Barbaros, il caso che ha consentito alla Corte di Cassazione di qualificare quale reato istantaneo ad effetti permanenti il reato di cui all'art. 14 co. 5 ter.

Perciò, sarà necessario rispolverare i concetti specificati con la sentenza n. 580/2006.

Il problema del tentativo nella rapina impropria: brevi note su una questione irrisolta

Il problema del tentativo nella rapina impropria: brevi note su una questione irrisolta
http://www.altalex.com/index.php?idstr=49&idnot=46954


di Federico Martella
Fra le dispute interpretative maggiormente discusse in tema di rapina, rientra quella - di antica tradizione - concernente l’ammissibilità o meno del tentativo nella fattispecie c.d. impropria.
Quest’ultima, come noto, è contemplata dal comma 2 dell’art. 628 c.p. secondo cui “alla stessa pena [prevista dal comma 1] soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità”. Il precetto sancito dal primo comma, si riferisce, invece, secondo la tradizionale classificazione, alla rapina propria che, viceversa, ricorre quando mediante violenza o minaccia ci si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, per procurarsi profitto [1].
Va subito precisato che non si tratta qui di verificare la possibilità di ammettere tout court il tentativo di rapina impropria. La questione è un’altra, e verte sulla configurabilità o meno dell’ipotesi tentata del reato in esame nei casi di violenza o minaccia poste in essere dopo una sottrazione soltanto tentata.
A dire il vero, qualche opinione iniziale tendeva a negare - in assoluto - il tentativo di rapina impropria, disconoscendo il delinearsi di tale figura anche in situazioni di avvenuta sottrazione della cosa: l’assunto si giustificava in base alla ritenuta impossibilità di apprezzare giuridicamente il tentativo di minaccia o violenza [2]. Il punto, tuttavia, è stato da tempo chiarito: oggi, infatti, pur nella difficoltà di immaginare un tentativo di minaccia, si tende concordemente a riconoscere la fattispecie tentata di rapina impropria per lo meno nei casi di atti idonei ed univoci a compiere violenza immediatamente dopo la sottrazione (es. il ladro che dopo aver sottratto la cosa tenta di percuotere il soggetto offeso, ma non riesce perché fermato dall’opera di terzi).
Tutt’altro che sopito invece è il dibattito sul tentativo quando violenza o minaccia, anche tentate, siano poste in essere dopo un tentativo di sottrazione. La discussione vede, tuttora, dottrina e giurisprudenza assestate su opposte posizioni: la prima tende a negarlo, ravvisando, in simili ipotesi, un concorso di reati fra furto (tentato) e il reato contro la persona (minacce, percosse); fra i giudici, viceversa, salvo qualche recente pronuncia, non si esita ad ammettere il tentativo di rapina impropria anche in ipotesi di sottrazione non consumata.
Una prima obiezione, a quanto pare insuperabile, che fra gli autori si muove contro l’orientamento giurisprudenziale, trova il suo fondamento nel dato positivo. L’art. 628 comma 2 c.p., si dice, è al riguardo molto chiaro: riferendosi la norma a violenze o minacce commesse “immediatamente dopo la sottrazione”, non può ipotizzarsi il reato, neanche in forma tentata, se non nella fase indicata dalla norma, relativa cioè al momento successivo alla avvenuta sottrazione. Dal combinato disposto dell’art. 56 comma 1 e 628 comma 2 c.p., il precetto in esame va quindi letto nei seguenti termini: “alla stessa pena del comma 1 soggiace chi tenta di adoperare violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione..” [3].
Per aggirare l’ostacolo, in giurisprudenza si fa leva sullo stesso dettato ordinario, che prevede, accanto al fine di assicurarsi il possesso della cosa sottratta (fine che qui non interessa trattandosi di mancata sottrazione) quello di procurarsi l’impunità: tale ultimo obiettivo, oggetto di dolo specifico dell’agente, può invero essere perseguito, si sostiene, tramite violenza o minacce, anche a seguito della mancata sottrazione: ciò dovrebbe giustificare dunque il tentativo di rapina impropria anche in simili circostanze [4].
Tale scelta interpretativa, si è rilevato in dottrina, pare in realtà poco convincente: è ben vero, infatti, si argomenta, che un soggetto può ricorrere - in astratto - a violenza o minacce per assicurarsi l’impunità a causa di una sottrazione solo mancata; l’ipotesi non rientra però nella previsione dell’art. 628 comma 2, là dove il legislatore si esprime nettamente in termini di sottrazione già realizzatasi. Riconoscere, dunque, la rapina impropria anche in tali situazioni significa forzare la lettera della legge, creando un vulnus al suo interno, attraverso una tecnica di creazione giuridica destinata a risolversi in un’applicazione analogica in malam partem.
A sostegno del costante indirizzo giurisprudenziale, volto a riconoscere il tentativo di rapina impropria anche in presenza di una sottrazione non consumata, s’invoca, peraltro, anche l’argomento relativo alla considerazione della natura del reato in questione, che (come noto) rappresenta una fattispecie complessa ai sensi dell’art. 84 c.p.. La rapina è infatti figura delittuosa, come comunemente si afferma, composta dal furto e dalla violenza privata, e più in particolare, per la fattispecie che qui interessa, dalla sottrazione e dal reato contro la persona (minaccia, percosse, etc.) che di volta in volta segue la prima. Potendo - si dice fra i giudici - le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, occorre continuare a considerare l’unitarietà della rapina anche quando - realizzatesi entrambe - esse si arrestino, per l’appunto, ad ipotesi tentate, sia che si tratti della sottrazione che della condotta successiva a quest’ultima. Non sarebbe dunque consentito procedere, proprio per l’unità reale della fattispecie, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona.
Tale conclusione, tuttavia, sembra, ad avviso degli autori, porsi in contrasto proprio con la corretta ed indiscutibile premessa, da cui la stessa giurisprudenza muove, circa la natura complessa del reato considerato: ipotizzare la sussistenza della rapina impropria in caso di tentata sottrazione, sempre seguita dal fatto contro la persona, non è permesso, si dice, proprio per via di specifiche ragioni attinenti al carattere composto della figura in esame. Più precisamente, si afferma, il reato complesso costituisce una fattispecie autonoma rispetto agli elementi costitutivi che in essa si compenetrano; questi ultimi, perdendo il rilievo giuridico assunto nella figura originaria, danno vita ad un fatto tipico nuovo suscettibile di autonoma considerazione. Ora, la sottrazione, da un lato, e il fatto di violenza o minaccia, dall’altro, in tema di rapina impropria, si fondono, per così dire, in una fattispecie strutturalmente indipendente da quella del furto e della violenza privata in maniera tale da conferire alla stessa un diverso significato giuridico. Sicché, si rileva, il comportamento tipico, che segna l’ubi consistam del nuovo reato, si sostanzia nell’impiego di violenza o minacce in un momento immediatamente successivo alla sottrazione. Il concetto è stato espresso in dottrina con significativa espressione: si è parlato di fattispecie a tempo “circoscritto” o “vincolato” [5]: la figura delittuosa, cioè, in tanto esiste - come titolo autonomo di reato - in quanto sia riscontrabile, all’interno del preciso ambito temporale segnato dall’“immediatamente dopo la sottrazione”, una relazione tra il reato contro la persona e la sottrazione stessa che, a sua volta, finisce per divenire nella fattispecie composita un presupposto di realizzazione dell’azione tipica [6].
Appare pertanto ovvio che anche il tentativo non potrà che essere apprezzato in relazione al nuovo fatto tipico così come sopra descritto, in rapporto cioè al nuovo oggetto del divieto penale: la forma tentata, in sostanza, risuonerà, come del resto può desumersi dalla norma, in questi termini: “non tentare di adoperare violenza o minaccia, per assicurarti il possesso o l’impunità, immediatamente dopo la sottrazione”.
La necessità di valutare il tentativo di rapina impropria nei termini suddetti discende d’altra parte dall’impossibilità di inferirne la sussistenza dalla mera sottrazione tentata o anche consumata. Costituendo, queste ultime, elementi del tutto svincolati dal resto della fattispecie, vale a dire dalle ipotesi di minaccia o violenza, atti di relativo compimento non potrebbero mai rivelarsi autonomamente idonei ed univoci rispetto alla commissione dell’intera figura delittuosa. Si giustifica quindi la considerazione della sottrazione come presupposto del reato in questione, non invece come parte dell’azione tipica stante - in caso contrario - la necessità di rinvenire, indebitamente, nel relativo inizio di esecuzione un tentativo di rapina impropria [7].
Ma anche laddove si obietti che la tentata sottrazione può dar luogo a tentativo di rapina impropria solo se seguita, nell’arco temporale imposto dalla norma, da fatti di violenza o minaccia, concludere per la sussistenza della rapina impropria tentata, anche in simili ipotesi, appare comunque operazione del tutto arbitraria. L’assunto risulterebbe infatti inaccettabile proprio alla luce della natura del reato in esame: la mancata verificazione della sottrazione, elemento rispetto al cui insorgere il legislatore ha evidentemente costruito la condotta tipica punibile, segna il venir meno della possibilità dell’instaurarsi del legame - richiesto dalla norma - fra le diverse offese, che costituisce l’unica ragione di sussistenza della figura complessa, anche in forma tentata.
Ad una simile affermazione si perviene, invero, ove si ragioni proprio in termini di offesa. Il fatto offensivo tipico della rapina impropria è infatti espresso dal legame tra la lesione alla persona susseguente al pregiudizio arrecato al patrimonio: questo è il disvalore sotteso alla norma. E in termini di tentativo, la condotta - si capisce - rileva ove risulti idonea ed univoca ad esprimere tale legame offensivo, cioè a dire la lesione personale dopo quella patrimoniale.
Tra l’altro, proprio per il carico lesivo insito nella condotta descritta dall’art. 628 comma 2 c.p., il legislatore ha previsto il trattamento sanzionatorio della reclusione da tre a dieci anni. Sarebbe evidentemente un’operazione contra legem applicare la medesima risposta punitiva all’ipotesi di mancata sottrazione, seguita da reati contro la persona, proprio per la minore offensività di quest’ultima ipotesi. Allo stesso modo intollerabile, sempre per la disparità di offesa, risulta la parificazione sanzionatoria fra l’unica ammissibile ipotesi di rapina impropria tentata, postulante l’avvenuta sottrazione, e quella ipotizzata come tale, in cui la sottrazione non sia avvenuta [8].
La diversità obiettiva fra l’ipotesi di rapina impropria tentata con avvenuta sottrazione e quella in cui tale sottrazione venga a mancare trova puntuale riscontro, si afferma in ultimo, sul piano soggettivo: altro infatti è l’atteggiamento psicologico mirante a perseguire l’impunità per una sottrazione soltanto mancata, risolventesi nella sola volontà di sottrarsi alle conseguenze di un furto non consumato, altro è quello tipico della rapina impropria, rivolto alla realizzazione di tale finalità a seguito di sottrazione avvenuta.
Per qualche pronuncia, l’invalidità dei rilievi dottrinali andrebbe desunta dall’eccessiva indulgenza che verrebbe accordata, per via della contestazione del solo concorso di reati (furto tentato e violenza), a colui il quale usi violenza alle persone per assicurarsi l’impunità, non riuscendo, egli, a consumare la sottrazione solo per cause estranee al suo volere. D’altronde, si afferma, se il legislatore ha previsto di punire in una certa misura il ladro che ricorre alla violenza o minaccia in vista dei fini indicati dalla norma, non può non aver serbato la stessa sorte a chi abbia tentato di rubare, poiché l’aggressione al patrimonio in ogni caso è già avvenuta e, se si è fermata al tentativo, ciò è accaduto sol perché è sopraggiunta una causa impeditiva, estranea alla volontà del reo.
Sia pure utili e del tutto validi alla stregua di un giudizio logico-morale nonché in una prospettiva de iure condendo, tali osservazioni - secondo l’indirizzo dottrinale - si pongono in contrasto, come visto, da un lato, con la lettera della legge, dall’altro con la ratio della stessa figura del reato complesso: fondare la convinzione circa l’esistenza della rapina impropria, nelle ipotesi in esame, con conseguente applicazione del relativo regime sanzionatorio, in base ad una presunzione di sussistenza del medesimo intento legislativo sotteso alla fattispecie in cui la sottrazione si sia consumata, significa porsi apertamente in contrasto col principio di legalità.
Nonostante per lo più si tenda in giurisprudenza a ravvisare nei casi di violenza successiva a tentata sottrazione, una fattispecie di rapina impropria anziché un concorso di reati fra tentativo di furto e violenza contro la persona, in qualche recente pronuncia sembrano invece aver trovato spazio gli argomenti, più convincenti, sostenuti dalla dottrina [9]. Il che darà presto luogo, con tutta probabilità, ad un contrasto su cui l’organo di legittimità sarà chiamato a pronunciarsi.
______________
[1] Per un’analisi completa della fattispecie v. F. Mantovani, Rapina, in Enc. giur. Treccani, 1991.
[2] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 5 ed. aggiornata, 1984.
[3] Padovani, Tentativo di sottrazione e tentativo di rapina impropria, in Giur. it, 1977, II, c. 229; Adami, La configurabilità del tentativo del delitto di rapina impropria, in Giust. pen., 1989, II, 599 ss.; Zagrebelsky V., voce Rapina, in Novissimo dig. it. 1968, p. 778.; Giannelli, Sul tentativo di rapina impropria, in Giur. merito, 1990, p. 1166 ss.; Brunelli, Rapina, in Dig. disc. pen., 1996; Pizzuti, Rapina, in Enc. dir., 1987; Tascone, Rapina propria, rapina impropria e tentativo di rapina impropria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 1615; Concas, Sottrazione, impossessamento e tentativo di rapina improria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1955, p. 616; Losana, Rapina impropria e tentativo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1963, p. 609; Palladino, Rapina impropria e tentativo: contrasti fra dottrina e giurisprudenza di legittimità, Giur. merito, 1997, 573.
[4] Cfr., fra le altre, esprimenti un indirizzo interpretativo unanime, Cass. sez. II, 9 febbraio 1979, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 1615; Cass. sez. II 10 luglio 2001, n. 28044, in Cass. pen. 2002, p. 3775. In linea con l’orientamento giurisprudenziale, v., in dottrina, Marra, Ancora riflessioni sul tentativo nella rapina impropria, in Cass. pen. 2002, p. 3777; Baldi, In tema di configurabilità del tentativo di rapina impropria, in Cass. pen. 2001, p. 1215.
[5] Concas, Sottrazione, impossessamento, cit.; Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.
[6] Questa è l’impostazione della dottrina dominante succitata. In questo senso anche quella manualistica. Cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale – parte speciale, dei delitti contro il patrimonio, 2002; Mantovani, Diritto penale, parte speciale, dei delitti contro il patrimonio, p. 93. Dai vari contributi dottrinali si può cogliere fra l’altro anche una divergenza interpretativa in ordine al concetto di “immediatamente dopo la sottrazione” che per la giurisprudenza costante, anche recente, è espresso dai concetti di “flagranza” o “quasi flagranza”, mentre per la dottrina, per spiegare la locuzione ci si dovrebbe riferire a quella situazione di transizione in cui si realizza l’estinzione del possesso del soggetto passivo, per via dell’uscita dalla relativa sfera di sorveglianza, a favore del conseguimento di quello dell’agente. Sul punto cfr. .F. Mantovani, Rapina, cit.; Zagrebelsky V., voce Rapina, cit.
[7] Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.
[8] Ancora Padovani, Tentativo di sottrazione, cit.; Adami, La configurabilità del tentativo, cit.
[9] Il riferimento è non solo a Cass. sez. V n. 3796 del 1999, in Cass. pen., 2001, p. 1214 ma anche ad una recente pronuncia in cui sembrano trovare accoglimento le tesi sostenute in dottrina di cui si riporta la massima: “In tema di rapina impropria, postulando l’art. 628 comma 2 c.p., che la violenza o minaccia siano adoperate “immediatamente dopo la sottrazione” ed al fine di conseguire, proprio mediante il loro impiego, il possesso, non ancora conseguito, della cosa sottratta ovvero della impunità, deve ritenersi che non sia configurabile il tentativo di rapina impropria, ma sussistano invece il reato di tentato furto e quello (minaccia, percosse, lesioni o altro)cui la condotta violenta o minacciosa abbia dato luogo, qualora tale condotta sia posta in essere senza che la sottrazione sia stata previamente realizzata”, così Cass. sez. V n. 32551 del 2007 in CED 236969.

Sul regime probatorio della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato

Sul regime probatorio della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato
Cassazione civile , SS.UU., sentenza 17.11.2008 n° 27310
http://www.altalex.com/index.php?idnot=44854
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 21 ottobre - 17 novembre 2008, n. 27310
(Presidente Carbone - Relatore Luccioli)
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Firenze depositato il 15 ottobre 2002 il cittadino iracheno A. M. H. impugnava la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato in data 13 giugno 2002 che aveva rigettato la sua istanza volta al riconoscimento di detto status, nonché il conseguente provvedimento del questore di Prato in data 2 luglio 2002 che aveva ritirato il suo permesso di soggiorno temporaneo per asilo e lo aveva invitato a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni, chiedendo in via principale che fosse accertata la sussistenza dei requisiti per l'attribuzione dello status di rifugiato e che in subordine gli fosse riconosciuto il diritto di asilo nel territorio dello Stato, ai sensi dell'art. 10, comma 3, Cost., o in ulteriore subordine fosse affermato il suo diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai sensi degli artt. 5, comma 6, e 19, comma 1, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché dell'art. 28 del d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394.
Deduceva il ricorrente che in ragione della sua appartenenza alla etnia curda e della sua fede nella religione musulmana sciita, nonché dell'essersi unito ad un gruppo di oppositori al regime di Saddam Hussain era stato oggetto da parte dei militari iracheni, unitamente ad altri membri della sua famiglia, di persecuzioni, che lo avevano costretto a fuggire clandestinamente dal suo Paese e dopo varie vicende a raggiungere nel giugno 2001 l'Italia, dove la sua richiesta di asilo era stata ricevuta come domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Peraltro la Commissione centrale aveva respinto detta istanza sul rilievo che egli aveva addotto non già una situazione di pericolo per la propria incolumità personale, ma una situazione oggettiva e generalizzata di pericolo determinata dai conflitti armati esistenti in alcune zone dell'Iraq, non rilevante ai fini della Convenzione di Ginevra, e non aveva neppure raccomandato il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Con sentenza del 5 - 10 marzo 2003 il Tribunale di Firenze, ritenuto il proprio difetto di giurisdizione in ordine alla domanda di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, in accoglimento della domanda proposta in via principale annullava la decisione della Commissione centrale ed attribuiva all'istante lo status di rifugiato, ritenendo assorbita la domanda subordinata diretta al riconoscimento del diritto di asilo.
Avverso tale sentenza proponeva appello, con atto di citazione notificato il 18 aprile 2003, il Ministero dell'Interno. Proponeva altresì appello in via incidentale A. M. H., chiedendo che subordinatamente all'accoglimento dell'appello principale si dichiarasse il suo diritto all'asilo politico o in ulteriore subordine si riconoscesse il suo diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Dopo aver disposto il mutamento del rito in quello camerale, con sentenza dell'11 febbraio 2005 la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento dell'appello principale ed in riforma dell'impugnata pronunzia rigettava sia la domanda principale che quelle subordinatamente proposte dal cittadino iracheno.
In motivazione la Corte territoriale, dichiarata l'inammissibilità delle istanze istruttorie proposte dall'appellato, per non essere state capitolate le circostanze oggetto della invocata prova testimoniale, rilevava in relazione al merito che, pur condiviso il principio che nella materia in oggetto l'onere probatorio si pone in misura attenuata, atteso il ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove, nella specie non era stata offerto dall'istante alcun effettivo elemento a dimostrazione della sua appartenenza alla minoranza curda, stante la non idoneità a tali fini della circostanza che il medesimo aveva comunicato con l'interprete in lingua curda, né d'altro canto valendo la sussistenza di una situazione tendenzialmente persecutoria nei confronti dei curdi e degli sciiti da parte delle autorità irachene specificamente a dimostrare che l'istante fosse stato sottoposto, o corresse il pericolo di essere sottoposto, a persecuzioni in dipendenza della sua appartenenza alla minoranza curda o della sua professione della fede religiosa sciita.
Andava conseguentemente disattesa la richiesta subordinata di riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno umanitario di cui agli artt. 19, comma primo, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 del relativo regolamento di cui al d.p.r. n. 394 del 1999, atteso che il richiamato art. 19, vietando il respingimento alla frontiera del soggetto nei confronti del quale è ipotizzabile la condizione di rifugiato politico, non richiede presupposti più ampi di quelli che presiedono al riconoscimento della condizione di perseguitato politico, e non può pertanto trovare applicazione ove tali presupposti non sussistano.
Altrettanto priva di fondamento era l'ulteriore richiesta di asilo politico in riferimento al disposto dell'art. 10, comma 3, Cost., non esistendo nell'ordinamento una legge di attuazione del principio costituzionale richiamato, al quale andava riconosciuta, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità, natura precettiva limitatamente al diritto dello straniero ad entrare in Italia per chiarire le proprie ragioni e natura meramente programmatica in relazione al diritto di restare una volta chiarita la sua provenienza da un regime meno libertario.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione A. M. H. deducendo sei motivi illustrati con memoria. Ha resistito con controricorso il Ministero dell'Interno, che ha contestualmente proposto ricorso incidentale condizionato fondato su due motivi.
Nell'imminenza della udienza odierna - fissata a seguito di rinvio dalla precedente udienza del 19 febbraio 2008, ordinato al fine di acquisire una relazione dell'Ufficio del Massimario sulle problematiche all'esame del Collegio - le parti hanno provveduto al deposito di ulteriori memorie.
Motivi della decisione
Deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.
Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando omissione ed insufficienza di motivazione, si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che l'istante non avesse fornito elementi di prova ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Si osserva al riguardo che la Corte territoriale ha travisato il senso della dichiarazione resa nel primo grado di giudizio dalla interprete di lingua curda, la quale aveva affermato che il linguaggio del ricorrente è curdo, avendo la stessa interprete inteso segnalare che il curdo era la lingua madre del ricorrente, non già che il medesimo parlava il curdo, ed ha quindi erroneamente negato a tale indicazione l'idoneità a dimostrare l'appartenenza del soggetto alla minoranza curda stanziata in Iraq, in quanto tale soggetta - come peraltro dimostrato dalla documentazione prodotta - a persecuzioni e violenza in detto Stato. Si deduce ancora difetto di motivazione in relazione al pericolo prospettato dall'istante di essere sottoposto a persecuzione personale a causa dell'attività politica antigovernativa svolta nel suo Paese ed in conseguenza dell'avvenuto espatrio senza autorizzazione e della successiva richiesta di asilo all'estero.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 738, comma 3, e ss., 345, comma 3, e ss., 359 e 184 c.p.c, si deduce l'errore della Corte di Appello per non aver ammesso la prova orale richiesta. Si osserva al riguardo che il Ministero dell'Interno aveva impugnato la sentenza di primo grado con citazione; che la Corte territoriale all'udienza del 27 aprile 2004 aveva disposto il mutamento del rito; che nel procedimento camerale i poteri istruttori del giudice non sono necessariamente legati all'iniziativa della parte, onde il giudice è svincolato dai normali limiti di ammissibilità delle prove e non è tenuto ad osservare per la loro acquisizione forme e modalità predeterminate, potendo assumere informazioni ai sensi del richiamato art. 738, terzo comma, c.p.c.
Si aggiunge che nella specie l'A. M. H. aveva richiesto nella comparsa di costituzione in appello di sentire dei testimoni della cui esistenza aveva avuto notizia soltanto dopo il giudizio di primo grado, riservandosi di formulare specifici capitoli di prova e di indicare eventualmente altri testi nel termine che aveva domandato gli fosse assegnato, e che pertanto la Corte territoriale avrebbe dovuto concedergli detto termine e solo successivamente decidere al riguardo, ovvero disporre direttamente l'ammissione dei testi. Si rileva ancora che, anche ritenendo nella specie applicabile l'art. 345, comma terzo, c.p.c., i mezzi di prova richiesti potevano entrare nel giudizio, ai sensi dell'art. 184 c.p.c., nel testo all'epoca vigente, applicabile anche in appello.
Con il terzo motivo, denunciando violazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, del Protocollo relativo allo statuto dei rifugiati adottato a New York il 31 gennaio 1967 e della direttiva n. 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente interpretato ed applicato la normativa in materia di status di rifugiato in ordine all'onere della prova gravante sul richiedente: in particolare non ha considerato che la Convenzione di Ginevra ed il Protocollo di New York esigono che in materia di accertamento dei fatti rilevanti per la determinazione di detto status si tenga conto dei principi e metodi indicati dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (A.C.N.U.R.) nei paragrafi 195-205 del Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, e segnatamente del principio di cui al paragrafo 196, il quale prevede che, pur spettando secondo un principio generale di diritto al richiedente la prova a sostegno delle sue dichiarazioni, l'accertamento e la valutazione di tutti i fatti rilevanti faranno carico congiuntamente al richiedente ed all'esaminatore, che in alcuni casi... sarà compito dell'esaminatore utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, infine che ove tale ricerca indipendente non sia coronata da successo, ovvero se talune dichiarazioni non siano suscettibili di prova, in tali casi, se il racconto del richiedente appare credibile, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio, a meno di valide ragioni in contrario.
Si richiamano altresì al riguardo le disposizioni contenute nel quinto paragrafo dell'art. 4 della direttiva comunitaria 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, la cui entrata in vigore il 20 ottobre 2004 comportava per il giudice un obbligo di conformarsi, pur non essendo alla data della pronuncia della sentenza ancora scaduto il termine per il recepimento: si osserva al riguardo che la Corte di Appello, in violazione dei suesposti principi, non ha tenuto conto che l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti facevano carico anche a se stessa, non ha utilizzato tutti i mezzi a disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, non ha concesso al richiedente il beneficio del dubbio, non ha infine enunciato valide ragioni dirette a contrastare quanto dal medesimo dichiarato.
Con il quarto motivo, denunciando violazione dell'art. 19, primo comma, del d. lgs. n. 286 del 1998 e dell'art. 28, lett. d), del d.p.r. n. 394 del 1999, nonché dell'art. 5, comma 6, del d. lgs. n. 286 del 1998, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui, rigettando la domanda subordinata di accertamento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in conseguenza del negato riconoscimento dello status di rifugiato, ha affermato che il richiamato art. 19, vietando il respingimento alla frontiera del soggetto nei confronti del quale è ipotizzabile la condizione di rifugiato politico, non pone un riferimento a presupposti più ampi di quelli che presiedono al riconoscimento di tale condizione e non può trovare pertanto applicazione quando tali presupposti siano da escludere. Si osserva in contrario che non è corretto sul piano ermeneutico comparare norme internazionali di origine pattizia con norme di diritto interno in relazione alle definizioni ed ai termini utilizzati nelle une e nelle altre fonti; che gli elementi giustificativi del divieto di espulsione o respingimento di cui all'art. 19 sono più ampi di quelli posti dalla normativa internazionale per il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo l'applicazione della richiamata disposizione estesa alle persecuzioni per motivi di sesso e di lingua ed avendo il termine cittadinanza ivi contenuto una portata più ampia del termine nazionalità utilizzato nella Convenzione di Ginevra.
Si aggiunge che, pur ove ritenuta corretta l'interpretazione dell' art. 19 fornita dalla Corte di merito, detta Corte ha errato nel non considerare che il ricorrente aveva chiesto di riconoscere il suo diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari anche ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e che sicuramente tale ultima previsione normativa non presuppone una fattispecie coincidente con quella postulata per il riconoscimento dello status di rifugiato. Si rileva a conforto di tale assunto che detta norma fa salva la ricorrenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, e quindi di quelli che derivano dall'applicazione dell'art. 3 della CEDU, che vieta l'allontanamento di uno straniero verso un paese nel quale rischi di essere sottoposto a torture o a trattamenti disumani o degradanti, nonché della citata direttiva 2004/83/CE, la quale distingue il rifugiato dalla persona che, pur non possedendo i requisiti per essere riconosciuta tale, tuttavia necessita di protezione internazionale, rischiando di subire gravi danni nel caso di ritorno in patria.
Si rileva infine che la correttezza di tale interpretazione è ancora confermata, sul piano del diritto interno, dall'art. 1 quater, quarto comma, del d.l. n. 416 del 1989, conv. nella l. n. 39 del 1990, introdotto dall'art. 32, lett. b) della l. n. 189 del 2002, e dall'art. 15, secondo comma, lett. c) del d.p.r. n. 303 del 2004, secondo i quali la Commissione territoriale, anche quando non abbia riconosciuto l'esistenza delle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, valutate le conseguenze di una espulsione alla luce degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali di cui l'Italia è firmataria, ed in particolare dell'art. 3 della CEDU, chiede al questore il rilascio di un permesso umanitario ai sensi dell'art. 5, sesto comma, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Con il quinto motivo, denunciando violazione dell'art. 10, comma terzo, della Costituzione, si deduce che la sentenza impugnata ha negato al ricorrente il diritto di asilo sulla base di una errata interpretazione ed applicazione della norma costituzionale, fondata, sull'assunto che la stessa abbia carattere precettivo solo per quanto riguarda il diritto dello straniero a entrare in Italia per chiarire le proprie ragioni, anziché esser respinto tout court alla frontiera, ma non per quanto riguarda l'aspetto più importante della norma stessa, e cioè il diritto a restare una volta chiarita la sua provenienza da un regime meno libertario del nostro: si sostiene che tale impostazione priva totalmente di efficacia precettiva il disposto costituzionale e si pone in netto contrasto con la nota pronuncia a S.U. n. 4674 del 1997, pur richiamata nella sentenza stessa, che ebbe a qualificare il diritto di asilo come un diritto soggettivo perfetto direttamente azionabile dinanzi al giudice, di contenuto diverso e più limitato rispetto al diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto avente ad oggetto esclusivamente la possibilità di essere ammesso e di soggiornare nel territorio italiano. Si contesta sul punto l'orientamento restrittivo espresso, in contrasto con la richiamata pronuncia a S.U., in recenti sentenze di questa Suprema Corte (in particolare quelle n. 25028 del 2005 e n. 8423 del 2004), secondo le quali il diritto di asilo tutelato dall'art. 10 Cost., in assenza di una legge organica attuativa del dettato costituzionale, trova esplicazione nella disciplina normativa relativa al rifugio, ha ad oggetto esclusivamente il diritto di entrare nel nostro territorio al solo fine di accedere al procedimento di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ha un contenuto non più ampio di un permesso di soggiorno temporaneo valido per la durata di detto procedimento e non può essere azionato direttamente davanti al giudice, perché strutturalmente finalizzato al riconoscimento di quello status.
Si aggiunge che dai lavori dell'Assemblea Costituente si desume chiaramente che il riconoscimento del diritto di asilo non postula requisiti ulteriori rispetto alla provenienza da un Paese ove è impedito nei fatti l'esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione e non può essere subordinato alla sussistenza di una persecuzione in patria.
Si solleva in subordine la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.l. n. 416 del 1989, conv. in l. n. 39 del 1990, dell'art. 1 della legge n. 523 del 1992, degli artt. 10, comma 4, e 19, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, degli artt. 31, e 32 della legge n. 189 del 2002, dell'art. 7 del d.lgs. n. 85 del 2003, dell'art. 2 del d.lgs. n. 140 del 2005, secondo l'interpretazione risultante dalla richiamata sentenza n. 25028 del 2005 di questa Corte, per contrasto con l'art. 10, comma terzo, Cost., in quanto dette norme, intese nel senso richiamato, utilizzerebbero la locuzione domanda di asilo in termini fungibili con la domanda relativa al riconoscimento dello status di rifugiato.
Con il sesto motivo, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la domanda subordinatamente proposta di accertamento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, pronunciando soltanto su quella relativa al permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 19, comma primo, del d.lgs. n. 286 del 1998, nonostante l'espressa impugnazione sul punto della sentenza di primo grado.
Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato il Ministero dell'Interno deduce che la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in relazione alla domanda diretta ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi degli artt. 5, comma 6, 19, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 del d.p.r. n. 394 del 1999: osserva al riguardo che in materia di permessi di soggiorno per motivi umanitari lo straniero è titolare di un mero interesse legittimo, presupponendo l'accoglimento della relativa domanda valutazioni discrezionali dell'Amministrazione. Con il secondo motivo di detto ricorso incidentale condizionato il Ministero, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 737-742 bis c.p.c. e 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, violazione e falsa applicazione dell'art. 14 disp. prel. c.c. in relazione all'art. 111, comma 7, Cost., censura la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile alla controversia in esame il rito camerale: rileva al riguardo che la disciplina dello status di rifugiato trova titolo in leggi diverse dal d.lgs. n. 286 del 1998, il quale peraltro, disciplinando modelli processuali ad hoc per i vari tipi di provvedimenti, non può essere assunto quale paradigma per ogni disciplina processuale relativa alla condizione giuridica dello straniero, ed osserva quindi che il giudizio in oggetto doveva seguire il rito ordinario, potendo nel nostro ordinamento la cognizione su diritti soggettivi essere affidata al rito camerale solo con una espressa previsione legislativa. Precisa sul punto che l'interesse a tale motivo di ricorso trova ragione nella avvenuta formulazione di istanze istruttorie da parte dell'appellato nel giudizio di secondo grado, non consentendo l'applicazione del rito ordinario di riaprire l'istruttoria in appello e non essendo il giudice investito di poteri istruttori officiosi.
Va preliminarmente disattesa l'eccezione del Ministero dell'Interno di inammissibilità del ricorso principale proposto nelle forme del ricorso ordinario per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., formulata nell'assunto che quello impugnato sia un provvedimento di volontaria giurisdizione, eventualmente impugnabile soltanto ai sensi dell'art. 111 Cost., con la conseguente ammissibilità - in tesi - dei soli motivi di ricorso diretti a prospettare violazioni di legge. Ed invero la forma e la natura della pronunzia in oggetto, costituita da una sentenza emessa in materia attinente allo status delle persone, non consente di dubitare della proponibilità del ricorso ordinario per cassazione, e quindi della deducibilità di tutti i vizi enunciati nell'art. 360, comma 1, c.p.c. Queste Sezioni Unite hanno avuto di recente occasione di riaffermare che l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata sulla base della qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all'azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza, restando irrilevante il tipo di procedimento seguito (S.U. 2008 n. 2434; v. altresì Cass. 2007 n. 9867).
Va altresì rilevato che la forma della sentenza, da adottare sia dal tribunale che dalla corte di appello, è stata espressamente indicata dall'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, di attuazione della direttiva 2005/85/CE (di recente modificato dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n.159).
I primi tre motivi del ricorso principale ed il secondo motivo di quello incidentale condizionato vanno trattati congiuntamente, in quanto investono, pur sotto differenti profili, le problematiche connesse al rito ed al regime probatorio applicabili nei giudizi per il riconoscimento dello status di rifugiato, che ha costituito oggetto della richiesta avanzata in via principale al Tribunale dall'A. M. H.. Va al riguardo precisato che la vicenda in esame resta regolata ratione temporis, relativamente alla disciplina procedimentale e processuale, dall'art. 1 del d.l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in l. 28 febbraio 1990, n. 39, che costituisce la prima fonte interna di diretta regolamentazione dello status di rifugiato, anche sotto il profilo procedimentale, dopo la legge di attuazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 luglio 1954, n. 722, ed il successivo Protocollo di New York del 31 gennaio 1967.
Ed invero detto art. 1 è rimasto in vigore anche dopo il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che all'art. 47, comma 2, lett. e) ha abrogato gli artt. 2 e ss. della normativa suindicata, ma non l'art. 1 afferente la materia oggetto di discussione. Né trova applicazione nella specie - trattandosi di provvedimento reso dalla Commissione centrale in data 13 giugno 2002 - la disciplina dettata dalla successiva legge 30 luglio 2002, n. 189, recante Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo, la quale nell'art. 32 ha fatto seguire al richiamato art. 1 del d.l. n. 416 del 1989, così come convertito, gli artt. da 1 bis a 1 septies, recanti significative innovazioni sul piano del procedimento e su quello sostanziale, atteso che ai sensi dell'art. 34, comma 3, di detta legge n. 189 del 2002 le disposizioni di cui agli artt. 31 e 32 si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo regolamento di cui al d.p.r. 16 settembre 2004, n. 303, avvenuta il 20 aprile 2005.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, va osservato che l'indicazione contenuta nel citato art. 1, comma 6, della legge n. 39 del 1990 del ricorso giurisdizionale avverso la decisione di respingimento del richiedente lo status di rifugiato consente di ravvisare, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, l'opzione del legislatore per il modello camerale (v. sul punto Cass. 2006 n. 18353).
La scelta della procedura della camera di consiglio è stata peraltro di recente ribadita nel richiamato art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, quale modello processuale più aderente alle esigenze di celerità e di semplicità che la materia relativa al riconoscimento dello status di rifugiato sollecita.
Va pertanto ritenuto che correttamente la Corte di Appello ebbe a disporre il mutamento del rito da quello ordinario a quello camerale, con conseguente rigetto del secondo motivo del ricorso incidentale condizionato del Ministero dell'Interno.
Per quanto più specificamente attiene alle problematiche connesse alla disciplina della prova in tema di riconoscimento dello status di rifugiato, sulle quali la difesa del ricorrente si è soffermata nei richiamati motivi, va innanzi tutto ricordato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale devono considerarsi norme processuali, in quanto tali soggette al principio del tempus regit actum, quelle che attengono ai modi ed ai termini di assunzione delle prove. Va ancora ricordato che l'art. 1, comma 5, della legge n. 39 del 1990, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata all'ufficio di polizia di frontiera, è stato generalmente interpretato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte in modo rigoroso, nel senso che la prova in discorso deve essere fornita dal soggetto istante, secondo i criteri generali di riparto posti dall'art. 2697 c.c., pur tenendo conto delle difficoltà determinate da un allontanamento sovente forzato e segreto, tali da rendere normalmente necessario il ricorso allo strumento presuntivo: si è al riguardo precisato che il pur limitato o attenuato onere probatorio, in ragione del ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove, riconosciuto dall'inciso in quanto possibile, non vale a configurare un diritto al beneficio del dubbio, né un obbligo dell'amministrazione di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall'istante, né può indurre a ritenere sufficienti le attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio o i richiami al notorio circa situazioni politico-economiche di dissesto del Paese di origine o circa persecuzioni nei confronti di non specificate etnie di appartenenza; ciò vale a dire che il richiedente deve provare, quanto meno in via presuntiva, il concreto pericolo cui andrebbe incontro con il rimpatrio, con preciso riferimento alla effettività ed alla attualità del rischio (v., tra le altre, Cass. 2007 n. 26822; 2006 n. 18353; 2005 n. 28775; 2005 n. 26278; 2005 n. 2091). Nei richiamati arresti si è altresì affermato che il richiedente deve dimostrare di essere credibile, assolvendo al relativo onere probatorio secondo le regole poste dal nostro ordinamento interno, mentre sono da considerare ininfluenti le indicazioni contenute nel Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato adottato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, volte a sollecitare l'esaminatore ad utilizzare i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, trattandosi di indicazioni prive di valore normativo.
Sul sistema probatorio in ordine ai requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato è intervenuta di recente la normativa comunitaria, dettando specifiche e dettagliate prescrizioni. Ed invero la direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull' attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, all'art. 4, comma 3, dispone che lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda di protezione internazionale e che l'esame della domanda stessa deve essere effettuato su base individuale, attraverso la valutazione: a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d'origine al momento dell'adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d'origine e relative modalità di applicazione; b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi; c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l'estrazione, il sesso e l'età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave; d) dell'eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d'origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese; d) dell'eventualità che ci si possa ragionevolmente attendere dal richiedente un ricorso alla protezione di un altro paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino.
La elencazione minuziosa degli elementi verso i quali la valutazione deve indirizzarsi è associata alla previsione, contenuta nel quinto comma dello stesso art. 4, che quando gli Stati membri applicano il principio in base al quale il richiedente è tenuto a motivare la sua , domanda di protezione internazionale e qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla; e) è accertato che il richiedente è in generale attendibile.
Ne risulta così delineata una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi prima della competente Commissione e poi del giudice, cui spetta il compito di cooperare nell'accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale, acquisendo anche di ufficio le informazioni necessarie a conoscere l'ordinamento giuridico e la situazione politica del paese di origine. In tale prospettiva la diligenza e la buona fede del richiedente si sostanziano in elementi di integrazione dell' insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull'onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia. Dette prescrizioni hanno trovato puntuale esplicazione nell'art. 3 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, di attuazione della direttiva, che dopo aver previsto la proposizione di un'unica domanda di protezione internazionale ad oggetto indistinto, rimettendo all'autorità dello Stato di individuare la tipologia della misura di protezione adottabile, e fatto carico al richiedente di presentare, unitamente alla domanda o comunque appena disponibili, tutti gli elementi ed i documenti necessari a sorreggerla, affida all'autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale.
In tale sistema normativo deve ragionevolmente escludersi, con riferimento alle prove testimoniali in ipotesi dedotte dal richiedente, che sia necessaria, per la loro ammissione, l'articolazione in capitoli separati e specifici o che la valutazione della loro ammissibilità e rilevanza si svolga secondo i criteri propri del codice di rito, dovendo per contro l'apprezzamento preventivo del giudice tendenzialmente orientarsi per l'ammissibilità del mezzo istruttorio invocato in ogni caso in cui senza il suo espletamento il materiale istruttorio acquisito si profili insufficiente.
L'ampiezza dei poteri officiosi del giudice appare peraltro ribadita nel successivo d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, di attuazione della direttiva 2005/85/CE - recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato - ( di recente modificato dal d.lgs. 3 ottobre 2008), il quale dispone al terzo comma dell'art. 8 che ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall'ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa, ponendo altresì a carico di detta Commissione il compito di assicurare che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative.
Si pone nella specie la questione della influenza dell'innovativo regime in tema di prova dettato dalla normativa comunitaria sulla interpretazione, riferibile al momento della decisione della Corte di merito, della normativa interna preesistente, tenuto conto che la direttiva 2004/83/CE è entrata in vigore nelle more del giudizio di appello e che il termine del 10 ottobre 2006 per il suo recepimento è intervenuto in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata.
Ritengono le Sezioni Unite che le disposizioni comunitarie dirette a regolare, nei termini innanzi richiamati, il regime della prova, in ragione del loro carattere incondizionato e della precisione del loro contenuto, imponessero una interpretazione delle norme interne conforme al testo della direttiva stessa.
Va qui ricordato che secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia l'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l'obbligo, loro imposto dall'art. 5 del Trattato (divenuto art. 10 CE), di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire tale adempimento valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice statale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e delle finalità della direttiva, onde garantire la piena effettività della direttiva stessa e conseguire il risultato perseguito da quest'ultima, così conformandosi all'art. 249, terzo comma, del Trattato (v., tra le altre, sent. 13 novembre 1990, C-106/89, Marleasing sa; sent. 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari; sent. 5 ottobre 2004, n. da C- 397/01 a C- 403/01, Pfeiffer; sent. 7 settembre 2006, n. da C-187/05 a C- 190/05, Areios Pagos).
Nella evoluzione della giurisprudenza comunitaria il principio della interpretazione conforme del diritto nazionale, pur riguardando essenzialmente le norme interne introdotte per recepire le direttive comunitarie in funzione di una tutela effettiva delle situazioni giuridiche di rilevanza comunitaria - quale strumento per pervenire anche nell'ambito dei rapporti interprivati alla applicazione immediata del diritto comunitario in caso di contrasto con il diritto interno, così superando i limiti del divieto di applicazione delle direttive comunitarie immediatamente vincolanti non trasposte nei rapporti orizzontali - non appare evocato soltanto in relazione all'esegesi di dette norme interne, ma sollecita il giudice nazionale a prendere in considerazione tutto il diritto interno ed a valutare, attraverso l'utilizzazione dei metodi interpretativi dallo stesso ordinamento riconosciuti, in quale misura esso possa essere applicato in modo da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva.
Appare pertanto evidente l'errore della sentenza impugnata, che a fronte di una disposizione interna che ancorava l'onere della prova al canone della mera possibilità, lasciando spazio ad opzioni ermeneutiche aderenti ai criteri dettati dalla normativa comunitaria non attuata per essere ancora pendente il termine per il suo recepimento, ha ritenuto applicabili i principi generali del nostro ordinamento sulla ripartizione dell'onere della prova, negando qualsiasi rilievo, ai fini della dimostrazione della appartenenza del richiedente alla minoranza curda, alla circostanza accertata che il medesimo parlava la lingua curda e alla sua asserzione di professare la religione sciita, non dandosi carico di valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese in ordine alle travagliate vicende vissute in Iraq ed alla sua militanza in un gruppo antigovernativo, non ammettendo le richieste istruttorie formulate perché non capitolate, senza peraltro considerare che il rito camerale correttamente adottato, regolato in via generale dagli artt. 737 e ss. c.p.c., nella parte non disciplinata espressamente resta rimesso nel suo svolgimento alle direttive concretamente dettate dal giudice, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.
Al contrario, una interpretazione della norma interna conforme ai criteri dettati dalla direttiva innanzi richiamata imponeva di ravvisare un dovere di cooperazione del giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, senza che il percorso ermeneutico da compiere nel rispetto di tali criteri potesse addurre a risultati incompatibili con quelli consentiti dal diritto interno.
L'accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale, al quale consegue la necessità del riesame, sulla base dei principi innanzi richiamati, della domanda avanzata in via principale dal ricorrente di riconoscimento dello status di rifugiato, comporta l'assorbimento degli altri motivi dello stesso ricorso, concernenti la domanda subordinatamente proposta dall'A. M. H. di declaratoria del suo diritto di asilo, nonché l'altra domanda ulteriormente subordinata di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'art. 5, comma 6, o dell'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, quale misura non strumentale, ma autonoma rispetto all'invocato riconoscimento dello status di rifugiato. Resta pertanto assorbita anche la questione di giurisdizione relativa a quest'ultima domanda, sollevata nel primo motivo del ricorso incidentale condizionato.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, riunisce i ricorsi, accoglie i primi tre motivi del ricorso principale, rigetta il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato, dichiara assorbiti tutti gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione.

Riflessi su tratta di persone, traffico di migranti e tutela dei diritti (L. 94/2009)

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Articolo di David Mancini 26.08.2009
http://www.altalex.com/index.php?idnot=47077

Danno morale e danno biologico: autonomia delle voci di danno anche dopo le S.U.

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Articolo di Domenico Chindemi 13.07.2009
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Disposizioni integrative in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro

Disposizioni integrative in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro
Decreto legislativo 03.08.2009 n° 106 , G.U. 05.08.2009
http://www.altalex.com/index.php?idnot=47065

giovedì 6 agosto 2009

Espulsione dello straniero

Espulsione dello straniero
Mappa agg. al 10.03.2009 dal sito web http://www.altalex.com/index.php?idnot=45234

ove è possibile trovare un'ampia rassegna sul tema

ESPULSIONE DELLO STRANIERO
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Altalex Quotidiano(http://www.altalex.com/)
Il matrimonio del clandestino e l’espulsione Articolo di Mario Pavone e Luciano Faraon 25.09.2008
La liberazione anticipata non é ostativa all'adozione dell'espulsione dello straniero Cassazione penale , sez. I, sentenza 24.04.2008 n° 17255 (Cesira Cruciani)
Espulsione di stranieri: sì all'impugnazione con ricorso collettivo e cumulativo Cassazione civile , sez. I, sentenza 29.02.2008 n° 5714 (Cesira Cruciani)
No all’espulsione di immigrati omosessuali se nei loro paesi sono perseguitati Cassazione penale , sez. I, sentenza 18.01.2008 n° 2907 (Cesira Cruciani)
Allontanamento ed espulsione dal territorio nazionale per terrorismo Decreto Legge 29.12.2007 n° 249
Espulsione della cittadina straniera per attività di meretricio Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 03.03.2007 n° 1024 (Gesuele Bellini)
Si all'espulsione in caso di mancato rinnovo del permesso di soggiorno scaduto Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 20.02.2007 n° 905 (Gesuele Bellini)
Assistenza durante il transito nei provvedimenti di espulsione Decreto legislativo 25.01.2007 n° 24
Immigrata in gravidanza: sospensione dell'espulsione non si estende al convivente Corte Costituzionale , ordinanza 22.12.2006 n° 444
Altalex Mese - Schede di Giurisprudenza(http://www.altalexmese.it/)
Mancato rinnovo del permesso di soggiorno ed espulsione dello straniero Cassazione civile , sez. I, sentenza 21.09.2006 n° 31426 (Simone Marani)
Altalex Massimario(http://www.massimario.it/)
Espulsione dello straniero, divieto, precisazioniTAR Veneto-Venezia, sez. III, sentenza 02.01.2009 n° 3
Stupefacenti, spaccio, ordine di espulsione dello straniero, patteggiamento allargato Cassazione penale , sez. IV, sentenza 17.11.2008 n° 42841
Misure alternative alla detenzione, espulsione dello straniero, presupposti Tribunale di sorveglianza di Torino, ordinanza 22.10.2008
Immigrazione, ordine di espulsione, domanda di asilo Cassazione penale , sez. I, sentenza 08.10.2008 n° 38313
Immigrazione, espulsione, rinnovo richiesta soggiorno, conseguenze Cassazione penale , sez. I, ordinanza 04.07.2008 n° 18518
Straniero, espulsione, arresto, legittimità Corte Costituzionale , sentenza 27.06.2008 n° 236
Immigrazione, espulsione, riabilitazione, precisione, necessità Cassazione penale , sez. I, sentenza 25.06.2008 n° 25743
Immigrazione irregolare, convivente more uxorio con italiano, espulsione, legittimità Cassazione penale , sez. I, sentenza 18.06.2008 n° 24710
Ingiusta detenzione, clandestino, espulsione illegittima, rifiuto, conseguenze Cassazione penale , sez. IV, sentenza 12.06.2008 n° 23911
Immigrazione clandestina, ordine di espulsione, motivazione Cassazione penale , sez. I sentenza 21.05.2008 n° 20305
Stranieri, provvedimento di espulsione, traduzione in lingua nota, necessità Cassazione civile , sez. I, sentenza 20.03.2008 n° 7564
Espulsione, sanzione, agente di polizia, prostituzione, legittimità Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 11.03.2008 n° 1022
Stranieri, espulsione, rientro in Italia, gravi motivi familiari Cassazione civile , sez. I, sentenza 19.02.2008 n° 4197
Immigrazione, decreto di espulsione, giustificato motivo, matrimonio, insussistenza Cassazione penale , sez. I, sentenza 12.02.2008 n° 6605
Immigrazione clandestina, ordine di espulsione del Questore Tribunale Nola, sez. penale, sentenza 06.02.2008
Immigrazione, ordine di espulsione, motivazione Tribunale Palermo, sez. IV penale, sentenza 29.01.2008 n° 329
Immigrazione, ordine di espulsione, violazione, esimente, omosessualità Cassazione penale , sez. I, sentenza 18.01.2008 n° 2907
Misure per il contrasto del terrorismo internazionale, espulsione dello straniero Corte Costituzionale , sentenza 14.12.2007 n° 432
Stranieri, espulsione, legittimità dell’ordine, carenza di posti, legittimità Cassazione penale , sez. I, sentenza 28.08.2007 n° 33486
Espulsione dello straniero, omosessualità, fatto persecutorio, iscrizione ad un club Cassazione civile , sez. I, sentenza 25.07.2007 n° 16417
Ordine di espulsione immigrato, giudice penale, potere di disapplicazione Tribunale Livorno, sez. penale, sentenza 25.06.2007 n° 567
Straniero, condanna, espulsione, cittadino comunitario, legittimitàCassazione penale , sez. IV, sentenza 08.06.2007 n° 22511

Immigrazione irregolare e convivenza more uxorio

Immigrazione irregolare e convivenza more uxorio
Cassazione penale , sez. I, sentenza 18.06.2008 n° 24710 (Simone Marani)
dal sito web http://www.altalex.com/index.php?idnot=42759
Può essere disposta l’espulsione dello straniero convivente more uxorio con un cittadino italiano?
Simone Marani immigrazione irregolare convivenza more uxorio
Immigrazione irregolare e convivenza more uxorio
(Cass. pen., sez. I, sentenza 18 giugno 2008, n. 24710)
di Simone Marani
(Fonte: Altalex Mese 9/2008)
Il quesito:
Può essere disposta l’espulsione dello straniero convivente more uxorio con un cittadino italiano?
Il caso
Tizio, cittadino extracomunitario, convivente more uxorio con Caia, cittadina italiana, veniva raggiunto da provvedimento di espulsione, in quanto immigrato irregolare, emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Lecce, in data 2 maggio 2007.
Il provvedimento veniva confermato anche dal Tribunale di Sorveglianza della medesima città, con ordinanza in data 24 luglio 2007.
Avverso la pronuncia ricorre per Cassazione Tizio affermando come la convivenza, sebbene more uxorio, con una cittadina italiana, nonché la presenza, nel territorio del nostro Paese, di congiunti dell’imputato, debbano essere considerati come ostativi all’espulsione.
La normativa
D.lgs. 286/1998
Articolo 19 (Divieti di espulsione e di respingimento)
“In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.
Non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’articolo 13, comma 1, nei confronti:
a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi;
b) degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto dell’articolo 9;
c) degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana;
d) delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
Inquadramento della problematica
Con la sentenza che qui si commenta i giudici della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione si occupano della problematica del giustificato motivo ostativo all’espulsione di un cittadino extracomunitario dal nostro Paese.
L’art. 19, D.lgs. 286/1998, secondo comma, lett. c), dispone che non è consentita l’espulsione degli stranieri che convivano con parenti entro il quarto grado o con il coniuge avente nazionalità italiana.
La norma, a ben vedere, nulla dispone, espressamente, in materia di semplice convivenza more uxorio. Da un lato, l’utilizzo della locuzione “conviventi” potrebbe avvalorare un’interpretazione estensiva della disposizione in esame, anche alle ipotesi nelle quali lo straniero abbia instaurato un rapporto di semplice convivenza con il cittadino italiano.
Al tempo stesso, però, l’espresso riferimento al “coniuge” e solo a questo, indurrebbe di ritenere esclusi dall’ambito di applicazione dell’esimente i rapporti fondati su una semplice convivenza more uxorio, richiedendo, in via restrittiva, che lo straniero abbia effettivamente contratto matrimonio con il cittadino italiano.
Ciò premesso ci dobbiamo domandare se, in materia di immigrazione clandestina sia possibile quell’equiparazione tra famiglia legittima e famiglia di fatto, oramai presente in altre branche dell’ordinamento.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte
- Secondo il giudice nomofilattico, la mera convivenza more uxorio con una cittadina italiana non può essere considerata come ostativa all’espulsione, se si considera che, come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza, il divieto di espulsione di cittadino extracomunitario, coniugato con cittadino italiano o convivente con parenti entro il quarto grado di cittadinanza italiana, risponde all’esigenza di tutelare, da un lato, l’unità della famiglia e, dall’altro, il vincolo parentale che riguarda persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici.
- “Tale situazione sarebbe assente nell’ipotesi di convivenza more uxorio, non essendo possibile alcuna equiparazione tra famiglia legittima e famiglia di fatto, in materia di immigrazione clandestina, la quale risulta essere disciplinata da norme di diritto pubblico e nella quale l’obbligo di espulsione trova solo le limitazioni previste esclusivamente dalla legge, al fine di evitare facili elusioni della normativa posta in essere per il controllo dell’immigrazione”.
- Tale assunto, per altro dichiarato costituzionalmente legittimo da una recente pronuncia del giudice delle leggi (Corte Cost. 20 luglio 2000, n. 313), non può essere intaccato nemmeno dalla eventuale presenza, all’interno del nostro Paese, di congiunti dell’imputato, trattandosi di soggetti tutti privi della cittadinanza italiana.
- Per tali motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso

Il nuovo reato di clandestinità e l’obbligo al rapporto

Il nuovo reato di clandestinità e l’obbligo al rapporto
Articolo di Renato Amoroso 14.05.2009 dal sito web http://www.altalex.com/index.php?idnot=46042
L’ordinamento penale conosce già i reati di omesso rapporto (art. 361 c.p.) e di omesso referto (art. 365 c.p.) (1)
In entrambi i casi viene punita la omissione della denuncia di fatti che costituiscano reati perseguibili d’ufficio. La nuova figura di reato, di cui si prefigura l’introduzione dopo l’approvazione del disegno di legge in data 5 febbraio 2009 da parte del Senato, è da collocare sicuramente fra i reati perseguibili d’ufficio (2).
La competenza a giudicare è attribuita al Giudice di Pace e il rito con il quale saranno celebrati i relativi processi è assai analogo al rito direttissimo, che prevede la presentazione direttamente dinanzi al Giudice dell’imputato e di tutti gli atti istruttori necessari (3).
In tempi assai recenti si è lungamente discusso della legittimità dell’obbligo imposto ai sanitari, prima, ed agli insegnanti, poi, di denunciare le persone prive di permesso di soggiorno, cioè di clandestini a tutti gli effetti, secondo la nuova norma che si vorrebbe introdurre.
Il legislatore sembra essersi premurato di evitare norme di dubbia costituzionalità ma restano valide alcune riflessioni, non trascurabili.
Se per gli esercenti la professione sanitaria il capoverso dell’art. 365 c.p. prevede l’esimente esplicita, in quanto l'obbligo del referto viene meno quando la sua presentazione esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (4), non altrettanto può affermarsi per le altre persone in vario modo investite di funzioni a contenuto pubblico.
Ricordiamo, infatti, che sono pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio tutte le persone che in concreto partecipano in modo attivo ad una funzione a contenuto legislativo, giudiziario o amministrativo nell’ambito della pubblica amministrazione. E' pubblico ufficiale, ad esempio, il medico che partecipa alla formazione della volontà della Pubblica Amministrazione o alle dichiarazioni di volontà, scienza o verità della stessa (per esempio, il medico incaricato del controllo della sussistenza di una malattia; il medico convenzionato che svolge l'attività di accertamento a carico dell'assistito in vista di una dichiarazione certificativa).
L'elemento soggettivo del reato di omissione di rapporto é costituito dalla specifica volontà di omettere il rapporto o referto, accompagnata dalla consapevolezza che si tratti di un reato perseguibile d'ufficio.
Perché si ricada nell'ipotesi disciplinata dagli artt. 361 e 365 c.p. non basta una diceria qualsiasi e non é sufficiente trattarsi di mera intenzione: occorre la notizia certa di un reato consumato.
Il soggetto non ha uno specifico obbligo di condurre accertamenti in linea di fatto, né ha il potere di interrogare testimoni o eseguire altri accertamenti, ma dovrà pur valutare la attendibilità delle notizie a lui riferite.(5)
Peraltro, nel caso del nuovo reato, c’è ben poco da indagare ed appare assai difficile restare nell’incertezza del compimento dei fatti; infatti o la presenza dello straniero è stata preceduta da un provvedimento autorizzativo, e in tal caso la presenza è lecita, o tale atto manca e il reato è certamente stato consumato.
Si potrà obiettare che l’operatore non ha l’obbligo di chiedere l’esibizione del permesso di soggiorno ma la circostanza di fatto della sua assenza potrà emergere ugualmente nell’ambito della comunicazione; per l’obbligo di rapporto è sufficiente la conoscenza del fatto, sul quale, come detto, non occorrono indagini nè può insorgere incertezza alcuna.
Se non interverrà un chiarimento legislativo di fondo(6), ogni pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio(7) potrebbe incorrere nel reato di omissione di rapporto ogni volta che venga a conoscenza (con qualsiasi mezzo) della mancanza del permesso di soggiorno in capo a qualsiasi soggetto noto.
Un’ultima notazione si impone per la sua oggettività. Il nuovo reato prevede una ammenda cospicua, nel minimo edittale di euro 5.000; è facilmente prevedibile che i soggetti che commetteranno tale reato siano persone prive di mezzi economici e destinati ad una rapida espulsione.
L’ammenda oggetto di condanna non sarà quindi mai riscossa ma lo Stato dovrà comunque garantire la celebrazione dei processi, con l’obbligatoria assistenza di un difensore d’ufficio e l’intervento di un interprete (art. 143 c.p.p.).
Tali figure professionali dovranno essere pagate dallo Stato, con un onere che presubilmente (ed al minimo di tariffa) non potrà essere inferiore a euro 500,00 per ogni processo. Se a ciò aggiungiamo l’impegno delle strutture processuali (già al collasso) dobbiamo necessariamente concludere che il nuovo reato comporterà un notevolissimo aggravio di costi a carico del bilancio dello Stato, con esiti imponderabili sulla dissuasione all’immigrazione clandestina.
La previsione di una condotta quale reato dovrebbe, in astratto, costituire un deterrente, in forza del quale quella condotta dovrebbe trovare una drastica riduzione quantitativa. Resta da domandarsi attraverso quali strumenti di comunicazioni (abituali, aggiornati e competenti) lo straniero dovrebbe venire a conoscenza in modo comprensibile che, giungendo sul territorio italiano senza permesso, commetterebbe reato.
Il rapporto
E' la denuncia da parte di persone che rivestono la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, quando abbiano avuto notizia di un reato perseguibile d'ufficio nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del servizio (art. 361 e 362 c.p.).
Soggetti obbligati
Persone che rivestono la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, cioè che in concreto partecipano in modo attivo ad una funzione a contenuto legislativo, giudiziario o amministrativo nell’ambito della pubblica amministrazione.
Tempo dell’adempimento dell’obbligo
Quando abbiano avuto notizia di un reato perseguibile d'ufficio nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del servizio.
Ragione dell’obbligo
La notizia di un reato perseguibile d’ufficio soddisfa l’interesse pubblico a perseguire i responsabili di condotte illecite.
Modo dell’adempimento dell’obbligo
La denuncia deve essere presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 331 c.p.p.).
Il contenuto
Il suo contenuto espone gli elementi essenziali del fatto ed indica il giorno dell'acquisizione della notizia nonchè le fonti di prova già note. Contiene, inoltre, quando è possibile, le generalità il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e dei testimoni (art. 332 c.p.p.).
Nessuna è prevista alcuna esimente in generale ma la disposizione di cui all’art. 362 CP non si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l'esecuzione del programma definito da un servizio pubblico.
Il referto
E’ l'atto col quale l'esercente una professione sanitaria riferisce all'autorità giudiziaria di avere prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio (art. 365 c.p.).
Soggetti obbligati
Specificamente il medico libero professionista
E' tenuto al referto ogni esercente una professione sanitaria principale o ausiliaria (medico, odontoiatra, farmacista, veterinario, ostetrica, infermiere, ecc.) solo quando abbia effettuato una prestazione personale nei confronti di terzi, quale l'assistenza, attività diagnostico-terapeutica, attività di tipo certificatorio.
Tempo dell’adempimento dell’obbligo
Il referto deve essere presentato entro 48 ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente (art. 334 c.p.p.).
Ragione dell’obbligo
La notizia di un reato perseguibile d’ufficio soddisfa l’interesse pubblico a perseguire i responsabili di condotte illecite.
Spetta al sanitario accertare se il caso che ha richiesto l'intervento professionale rivesta i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio.
Modo dell’adempimento dell’obbligo
Il referto va presentato al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo dove è avvenuta la prestazione del sanitario (art. 334 del c.p.p.)
Il contenuto
Il referto deve contenere il nome della persona alla quale è stata prestata assistenza, il luogo dove si trova attualmente, il luogo, il tempo e le altre circostanze dell'intervento, e ogni altra notizia atta a stabilire le circostanze, le cause del delitto, i mezzi con i quali fu commesso e gli effetti che ha causato o può causare; qualora più sanitari abbiano prestato la loro opera o assistenza nella medesima occasione, sono tutti obbligati a presentare il referto, che può redigersi in atti separati o in uno solo sottoscritto da tutti (art. 334 n. 2 del c.p.p.).
Esenzione dall'obbligo del referto
L'obbligo del referto viene meno quando la sua presentazione esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (art. 365, cpv c.p.), tale esonero sussiste solo nei confronti della persona assistita ed il sanitario che non si avvale di questa disposizione, cagionando un danno ingiusto al proprio assistito, può essere responsabile di violazione di segreto professionale (art. 622 c.p.). Sussiste una ulteriore esimente se il medico ha omesso il referto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore (art. 384 c.p.).
I reati di omessa denuncia, rapporto o referto
Tipo di illecito: omissione (violazione dell’obbligo di legge di compiere un atto)
Elemento soggettivo: il dolo, la specifica volontà di omettere
Elemento oggettivo: notizia certa di un reato consumato perseguibile d’ufficio
* * *
Si tratta di un reato di pericolo e non di danno
l'interesse pubblico tutelato dalla norma è l'interesse che l'Autorità giudiziaria sia rapidamente informata dei fatti che "possono presentare i caratteri di un delitto" perseguibile d'ufficio, tale interesse pubblico rimane offeso per il solo fatto omissivo, a prescindere dagli effetti che concretamente possono essere prodotti dalla omissione.
Perché si possa procedere contro il presunto responsabile occorrono:
la conoscenza di elementi di fatto che integrano un reato consumato
la forte attendibilità di quanto conosciuto
la consapevolezza che si tratti di un reato perseguibile d’ufficio
la certezza che non si tratti di un fatto accidentale
la specifica volontà di omettere il rapporto o referto
* * *
Dati del comportamento legittimo:
esclusi poteri di indagine o altri accertamenti (diversi da quelli comuni sanitari)
escluso il potere di interrogare le persone o acquisire documenti
esclusione di ogni diceria o riferimento generico
valutazione dell’attendibilità della notizia
astensione da qualunque atto di inquinamento delle possibili fonti di prova
esame delle caratteristiche del fatto portato a sua conoscenza
_________________
1 Vedi note dettagliate alle pagine 3 e 4.
2 la nuova norma introduce nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 l’art. 10 bis che al n. 1) recita: “ Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle norme del presente testo unico, nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro.” – seguono altri commi.
3 Lo stesso disegno di legge, infatti, introduce nel rito del processo penale dinanzi al Giudice di Pace (D.Lgs. 274/2000) la procedura di presentazione immediata a giudizio dell’imputato per i reati procedibili d’ufficio.
4 Sussiste una ulteriore esimente se il medico ha omesso il referto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore (art. 384 c.p.).
5 "Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico del delitto di omissione di referto (art. 365 c.p.), che è reato di pericolo e non di danno, occorre, oltre alla coscienza e volontà di omettere o ritardare il referto da parte dell'esercente la professione sanitaria, che questi si trovi in presenza di fatti i quali presentino i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio; per verificare la configurabilità di tale reato, e della responsabilità anche civile che ne discende a carico del sanitario, occorre che il giudice accerti (come affermato dalle sezioni penali di questa Corte, tra le altre, con sentenze n. 3447 e 9721 del 1998), con valutazione "ex ante" e tenendo conto delle peculiarità del caso concreto, se il sanitario abbia avuto conoscenza di elementi di fatto dai quali desumere, in termini di astratta possibilità, la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio, ed abbia avuto la coscienza e la volontà di omettere o ritardare il referto, rimanendo esclusa la configurabilità del dolo qualora dalle circostanze del caso concreto cui egli si trovi di fronte emerga la ragionevole probabilità che l'accadimento si sia verificato per cause naturali o accidentali" (Cassazione civile, sez. III, 26 marzo 2004, n. 6051).
6 Per esempio, riservando soltanto alle Forze dell’ordine o alla magistratura inquirente l’acquisizione della notitia criminis.
7 e quindi anche il medico ospedaliero nell’ambito dello svolgimento delle funzioni proprie della Pubblica amministrazione.

Cittadinanza europea: sopravvenuta acquisizione e punibilità di condotte pregresse

Cittadinanza europea: sopravvenuta acquisizione e punibilità di condotte pregresse

Articolo di Gwendoline Guccione 17.07.2009 dal sito web http://www.altalex.com/index.php?idnot=46853
La sopravvenuta acquisizione della cittadinanza europea e l’attuale punibilità delle condotte pregresse integranti i reati d’immigrazione ex D. Lgs., 25 luglio 1998, n. 286: le Sezioni unite escludono l’abolitio criminis parziale in caso di successione c.d. mediata di norme penali
di Gwendoline Guccione
Sommario: 1. La questione interpretativa: considerazioni introduttive; 2. Quadro normativo in materia di immigrazione: cronologia; 3. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: la fattispecie base; 3.1 Segue: le ipotesi aggravate ex art.12, commi 3, 3-bis e 3-ter, T.U. Imm.; 3.2 Segue: il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale; 4. Delitto di indebito trattenimento dello straniero espulso, 5. Criteri interpretativi per distinguere l’ipotesi di abolitio criminis e abrogatio sine abolitione in caso di modifica immediata di fattispecie penale; 5.1 Segue: le posizioni dottrinali e giurisprudenziali; 6. La successione mediata di norme penali; 6.1 Segue: gli indirizzi dottrinali; 6.2 Segue: il panorama giurisprudenziale; 7. La qualità di straniero: “mero” presupposto od elemento integrativo dei reati in materia di immigrazione?; 7.1 Segue: l’impostazione “estensiva” della giurisprudenza di merito; 7.2 Segue: l’orientamento “restrittivo” della giurisprudenza di legittimità: la sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione 27 settembre 2007 – 16 gennaio 2008, n. 2451; 8. Spunti critici per la corretta ricostruzione della vicenda successoria in esame; 8.1 Segue: conclusioni.
1. La questione interpretativa: considerazioni introduttive
Originariamente costituita dai sei Stati fondatori, l’Unione europea è giunta ad includere, con l’ingresso di Romania e Bulgaria1 a decorrere dal primo gennaio 2007, ventisette Stati membri. Trattasi di un processo di allargamento ben lungi dall’essersi esaurito, avendo altri Paesi europei presentato domanda di adesione all’Unione.
Tra gli effetti derivanti da tale ampliamento è da annoverare l’acquisizione della cittadinanza europea e dei diritti che ad essa afferiscono da parte dei cittadini dei nuovi Stati membri, nei cui confronti, pertanto, non trovano più applicazione le disposizioni del D.Lgs., 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico sull'immigrazione)2, bensì le norme europee sulle libertà di circolazione3 e stabilimento delle persone4, da intendersi la prima come il diritto di ogni cittadino comunitario di ricercare o di svolgere un'attività, retribuita o meno, in uno Stato membro dell'Unione diverso da quello di cui è cittadino, e la seconda come il diritto di fissare la propria residenza in uno dei Paesi aderenti5.
In seguito a tale progressiva estensione, in giurisprudenza si è posto il problema dell’attuale punibilità del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina anteriormente commesso in danno di stranieri, a cui è ora riconosciuto lo status di cittadino comunitario6. Più in generale la questione della sopravvenuta irrilevanza delle condotte tenute in epoca anteriore alla ratifica del Trattato di adesione, abbraccia tutte le norme incriminatrici previste dal T.U. sull’immigrazione, il cui ambito applicativo è espressamente circoscritto dall’art.1, comma 1, “ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri”. Tale interrogativo, che si inserisce nella più ampia tematica della successione mediata della fattispecie penale, ha, di recente, assunto un grande rilievo nel dibattito penalistico: si discute, in particolare, se la modifica della norma extrapenale, che definisce la nozione di straniero, determini esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto, con decorrenza dalla emanazione della successiva ratifica, rimanendo immutato il disvalore penale del fatto anteriormente commesso, ovvero se essa, concorrendo a delineare il precetto penale, generi un’ipotesi di abolitio criminis parziale sottoposta al regime dell’art.2, comma 2, c.p., con conseguente e necessaria revoca delle sentenze di condanna già passate in giudicato (art. 673 c.p.p.).
Per un’esatta soluzione delle varie problematiche implicate appare utile ripercorrere le tappe più significative della legislazione in tema di immigrazione, a cui seguirà un essenziale commento delle principali fattispecie incriminatrici rispetto alle quali emerge il problema di diritto intertemporale enunciato, nello specifico le ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di illegale permanenza sul territorio dello Stato, rispettivamente disciplinate agli artt. 12 e 14 commi 5-ter e 5-quater, T.U. Imm.7. Si ritiene, altresì, opportuno soffermarsi brevemente sul variegato panorama interpretativo formatosi in tema di successione di leggi penali nel tempo, la cui analisi permette di cogliere tutti gli aspetti giuridici sottesi alla questione in esame.
Tale disamina, giova sottolinearlo, non ha pretese di esaustività e mira essenzialmente a soddisfare esigenze di chiarezza espositiva, fornendo all’interprete un quadro ricostruttivo degli istituti rilevanti per una corretta collocazione sistematica dell’oggetto specifico del presente lavoro.
2. Quadro normativo in materia di immigrazione: cronologia
Negli ultimi anni l’Italia si è trasformata da Paese tradizionalmente di emigrazione a Paese di forte immigrazione, soprattutto a causa della sua posizione geografica, che la rende terra di transito obbligato per raggiungere altri Stati europei od extraeuropei8.
L’art. 10 Cost. dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali9. Nel nostro ordinamento la nozione di straniero viene, pertanto, desunta da diverse discipline normative che consentono di distinguerne vari tipi: il cittadino comunitario, il cittadino extracomunitario, gli apolidi e i rifugiati politici.
La posizione giuridica dello straniero era precedentemente regolata dal R. D., 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza), che, stante la relativa esiguità della pressione migratoria nella realtà italiana dell’epoca, inquadrava il problema dell’immigrazione soltanto in termini di sicurezza e tutela dell’ordine pubblico nazionale.
La prima legge che ha inteso regolamentare la condizione dello straniero in Italia è la L. n. 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), tesa principalmente a stabilire la parificazione sul piano lavorativo dello straniero al cittadino italiano.
Successivamente viene adottata la L., 21 febbraio 1990, n. 39 (c.d. Legge Martelli), che rimane per lungo tempo il testo di riferimento in tema di immigrazione. Tale disciplina, pur rimanendo caratterizzata da interventi finalizzati a gestire l’immigrazione come un fenomeno di emergenza e di ordine pubblico, introduce per la prima volta la programmazione dei flussi migratori, nonché le norme relative a ingresso, soggiorno, espulsione ed asilo politico10.
La materia de qua viene di seguito ridisciplinata dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che riunisce e coordina le norme contenute nella L. 6 marzo 1998, n. 40 (c.d. Legge Turco-Napolitano), fissando gli obiettivi della politica italiana in materia di immigrazione: regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dei cittadini stranieri, integrazione sociale dei soggetti regolarmente presenti nel territorio e contrasto all'attività criminale diretta a favorire l'immigrazione clandestina. Con riguardo a quest’ultimo punto, al pari di altri Paesi di destinazione, anche l’Italia cerca di fronteggiare il problema del sempre più massiccio ingresso abusivo di migranti attraverso l’adozione di politiche di contenimento, partendo dal presupposto che gli stranieri siano una minaccia alla sicurezza interna e non una risorsa sul piano sia economico che culturale11.
A distanza di pochi anni dalla sua approvazione, il presente testo unico viene in parte modificato dalla L. 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. Legge Bossi-Fini) e successive modifiche (L. 12 novembre 2004, n. 271, di conversione del D. L. 14 settembre, 2004, n. 241), avente come unica finalità la lotta all’immigrazione illegale perseguita attraverso l’inasprimento del regime delle espulsioni12 e la previsione di un rapporto più cogente tra lavoro e diritti degli immigrati, giustificando l’ingresso e la permanenza dello straniero per soggiorni duraturi solo a fronte dell’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa legale.
Più nello specifico, al fine di garantire la collettività contro l’ingresso illegale, le ipotesi di reato già previste vengono delineate in maniera più dettagliata ed afflittiva: “le modificazioni apportate con la legge 189/02 hanno accentuato il carattere di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica … in parte capovolgendo la visione solidaristica in una esclusivamente repressiva”13.
La legislazione in materia di immigrazione presenta, in sostanza, i caratteri tipici di un diritto penale del nemico14, quali, ad esempio, una sensibile anticipazione della soglia di criminalizzazione mediante fattispecie a pericolo astratto15, in cui il tentativo viene punito come delitto consumato; una netta sproporzione fra trattamento sanzionatorio e gravità ed idoneità lesiva del fatto; una progressiva soggettivizzazione e differenziazione dello statuto penale per tipi di autore; una strutturale indeterminatezza della norma, nonché una connotazione poliziesca dell’intera funzione giudiziaria ed un’accentuazione del contenuto segregativo ed affittivo, non già risocializzante, della pena16.
Peraltro, sul piano dell’accertamento processuale, l’introduzione di fattispecie incriminatrici in assenza di un loro coordinamento organico e sistematico conduce ad una sovrapposizione di norme penali in relazione al medesimo oggetto, foriera di applicazioni giurisprudenziali difformi, che inevitabilmente incidono sulla qualità ed efficacia della risposta giudiziaria17.
Le tensioni che segnano il fenomeno dell’immigrazione e la connessa stratificazione degli interventi legislativi sul tema, comportano la continua insorgenza di contrasti interpretativi, nonché di dubbi concernenti la legittimità costituzionale della disciplina. Si è rilevato che la normativa in questione si innesta in un meccanismo di involuzione del diritto penale, che passa da strumento di tutela di beni a strumento di tutela di funzioni18, con “l’asservimento del diritto e della procedura penale – dei loro principi e dei loro scopi - all’attività amministrativa funzionale all’allontanamento dello straniero irregolare”19.
Ciò posto, si procederà ora all’esame delle fattispecie incriminatrici indicate in premessa, alla luce della travagliata elaborazione dottrinale e pretoria, che, nello sforzo, pregevole, di ricondurre ad unità le molte problematiche di ordine costituzionale emerse, ha cercato, comunque, di offrire un quadro sistematicamente coerente e completo della materia.
3. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: la fattispecie base
Tra le disposizioni dettate al fine di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, va annoverato l’art. 12, D.Lgs. n. 286 del 1998 (come sostituito dall'art. 11, comma 1, L. 189 del 2002 e modificato dalla L. n. 271 del 2004, di conversione del D. L. n. 241 del 2004, nonchè, da ultimo dalla L. n. 125 del 2008, di conversione del D.L. n. 92 del 2008), che criminalizza ogni attività di assistenza ai flussi irregolari20 in entrata, distinguendo fra una fattispecie base contemplata al comma 1 ed ipotesi aggravate previste nei commi successivi21.
Tale articolo punisce il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (c.d. smuggling of migrants, letteralmente contrabbando di clandestini22), che deve essere tenuto distinto dalla tratta di esseri umani (c.d. trafficking of human beings23) finalizzato al successivo sfruttamento delle persone, che ne sono oggetto24.
Il filo che separa lo smuggling dal trafficking è molto sottile, essendo assai frequenti i casi in cui il traffico di migranti si trasforma in vera e propria tratta25. Ciononostante, si è voluto tenere distinti le due ipotesi sia per ragioni di carattere investigativo che politico.
Stante il rapporto di specialità fra le medesime intercorrente, il lavoro di ricostruzione degli elementi che compongono le diverse fattispecie ad esse riconducibili si presenta alquanto arduo. In estrema sintesi un primo elemento di differenziazione concettuale è dato dalla diversa dimensione temporale, che nel caso dello smuggling tendenzialmente coincide con la durata del viaggio, ove, nel trafficking, invece, il rapporto di sfruttamento, oltre a costituirne la finalità, si protrae anche nel Paese di destinazione. In tale ultimo caso, poi, non deve necessariamente trattarsi di trasferimento di una persona da uno Stato all’altro, potendosi verificare casi di c.d. tratta interna, nè, parimenti, di ingresso illegale, qualora il trafficato venga spostato da uno Paese all’altro; circa, poi, i metodi usati dai trafficanti, nel caso del trafficking essi sono spesso violenti, minacciosi, fraudolenti o abusivi di una situazione di vulnerabilità, intesa come qualsiasi situazione, in cui la persona non abbia una reale e accettabile alternativa che non sottomettersi all’abuso. Un ulteriore discrimine poggia, infine, sul diverso ruolo svolto dal migrante nei confronti dei trafficanti: nel caso di favoreggiamento all’immigrazione, è generalmente la persona trafficata a richiedere il servizio di ingresso migratorio illegale, investendo un capitale proprio, sicché viene a mancare il profilo di offesa alla libertà di autodeterminazione della vittima riscontrabile, invece, nella tratta.
Tornando ora all’esame dell’art. 12 T.U. Immigrazione, il comma 1, dopo aver contemplato la clausola di salvezza, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, punisce “chiunque in violazione delle disposizioni del presente testo unico compie atti diretti a procurare l'ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”.
A differenza della precedente previsione che, peraltro, puniva “le attività dirette a favorire” l’ingresso illegale in Italia, vengono ora sanzionate anche le condotte consistenti nel procurare l’immigrazione clandestina in un diverso Stato attraverso il transito su territorio italiano26.
Il reato di favoreggiamento può essere compiuto da chiunque27, ma ha come specifico presupposto la condizione di straniero del soggetto passivo28. Il bene giuridico tutelato può essere individuato nella necessità di reprimere i flussi immigratori di stranieri privi dei prescritti requisiti di legge.
Nell’oggetto della condotta sanzionata non rientra il comportamento tenuto dal migrante. Il semplice ingresso in forma clandestina o irregolare29 non è punito di per sé come reato dal nostro ordinamento avendo valenza di mero illecito amministrativo sanzionato con il respingimento e l’espulsione.
La prima critica concerne proprio il fatto che venga criminalizzata un’attività di per sé penalmente irrilevante, ossia l’abusivo ingresso dello straniero30, riservando la sanzione penale solo all’ipotesi dello straniero già espulso e colpito da divieto di rientro, salva la speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno di cui all’art.13, D. Lgs n. 286 del 1998. Appare, pertanto, evidente un’anomalia rispetto alle altre ipotesi di favoreggiamento previste dal codice penale agli artt. 378 e 379, in cui si presuppone che l’attività penalmente favorita sia a sua volta illecita31.
Non è, inoltre, prevista la presenza di un’organizzazione quale presupposto materiale dell’illecito: la natura associativa è, infatti, contemplata come ipotesi aggravata, ampliandosi così enormemente le possibilità di concreta configurazione del delitto. Trattandosi di reato di mera condotta, esso si consuma con il compimento dell’attività che procura l’immigrazione clandestina, indipendentemente dall’effettivo ingresso dello straniero, purché la condotta realizzata, oltre che diretta a tale scopo32, sia anche idonea a realizzarlo. Occorre, poi, che la condotta sia avvenuta almeno in parte nel territorio italiano, non essendo punibili i comportamenti realizzati interamente all'estero. In ordine all’elemento soggettivo, il reato si perfeziona con il dolo, inteso quale coscienza e volontà di commettere atti di agevolazione dell’ingresso.
Si tratta, poi, di un reato di pericolo, in quanto per la punibilità del fatto non è necessario che si verifichi in concreto alcun danno33. E’, dunque, evidente la sussumibilità della fattispecie di favoreggiamento dell’ingresso illegale, nella categoria dei delitti di attentato e nel più ampio genus dei reati a consumazione anticipata, con l’arretramento della soglia di punibilità al compimento di un fatto diretto alla realizzazione del risultato indicato, senza che occorra l’effettiva realizzazione.
Stante l’assimilazione sul piano strutturale di attentato e tentativo, va da sé che il giudizio di idoneità della condotta al raggiungimento del risultato descritto deve essere eseguito in maniera alquanto rigorosa34, al fine di circoscrivere la criminalizzazione di una condotta agevolatrice di un’attività di per sé penalmente irrilevante, qual è l’ingresso illegale dello straniero. Ne deriva che l’illegalità dell’ingresso rilevante ai fini dell’applicazione della norma de qua deve essere stabilita sulla base delle disposizioni di cui al T.U. Immigrazione. Ciò significa che la fattispecie del favoreggiamento potrà dirsi perfezionata, solo quando l’ingresso dello straniero sia avvenuto in elusione delle prescrizioni ivi previste35.
Anche l’identificazione dell’elemento di illiceità speciale costituito dalla illegalità dell’ingresso non è scevra da difficoltà ermeneutiche. Va, infatti, ricordato come parte della dottrina36 abbia, anche di recente, denunciato la preoccupante indeterminatezza e vaghezza della formula letterale contenuta nella prima parte delle fattispecie in parola, laddove si dà rilievo penale ad ogni tipo di violazione delle disposizioni del testo unico37. Tali critiche non hanno, però, trovato accoglimento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione38, la quale proprio nel rigettare l’eccezione di legittimità costituzionale della fattispecie di cui all’art. 12, comma 1, per violazione del principio di tassatività e determinatezza, ha ritenuto la relativa questione manifestamente infondata in considerazione del fatto che tale norma, pur se omnicomprensiva, non sacrifica tali caratteri, potendo da essa derivare “solo una maggiore difficoltà di individuazione della fattispecie concreta, ma non anche della tipicità della fattispecie astratta, in sé compiutamente definita e comprendente ogni possibile combinazione della prevista attività diretta a favorire l'ingresso di stranieri in Italia con la violazione di ciascuna delle specifiche disposizioni del D.Lgs. in esame”39.
Circa la questione se la fattispecie integri un reato di pericolo astratto o concreto, è da segnalare che la giurisprudenza40 non ha tenuto in debita considerazione il mutamento testuale della norma, in seguito al quale non dovrebbero assumere rilevanza penale quelle condotte, anche prodromiche e successive all’ingresso nel territorio nazionale, che non siano indirizzate a realizzare in via principale il valico illegale delle frontiere41, con la conseguenza che, ove emerga dagli atti uno scopo diverso, la punibilità ex art. 12, comma 1, dovrebbe escludersi.
In particolare, il giudice di legittimità 42 ha precisato che al fine di stabilire la riconducibilità al reato di cui all’art.12, comma 1, anche della condotta agevolatrice successiva all’ingresso dello straniero, occorre verificare la sussistenza di un duplice presupposto: la rilevanza causale rispetto a tale ingresso, ossia il legale eziologico tra la condotta successiva ed il risultato individuato dalla norma incriminatrice, e la cointeressenza dell’attività di chi ha operato in Italia dopo l’ingresso irregolare e chi ha operato all’estero prima di tale ingresso.
In realtà si è dell’avviso che un’analisi più articolata e soddisfacente degli elementi costitutivi della fattispecie in esame presupponga una lettura della norma de qua in combinato disposto con il successivo comma 5, che prevede il reato di agevolazione della permanenza illegale. Ciò significa che al fine di evitare una illegittima sovrapposizione di norme, al duplice criterio sopra richiamato sarebbe opportuno aggiungerne un terzo teso a valorizzare anche lo spazio temporale, in cui la condotta agevolatrice successiva all’ingresso dello straniero viene tenuta, potendosi ancora rientrare nell’ambito di applicazione del comma 1, solo ove il suddetto contributo si realizzi immediatamente dopo l’ingresso nel territorio dello Stato e nelle immediate adiacenze del luogo di ingresso43. Successivamente a tale momento, atti o comportamenti posteriori si porrebbero, per contro, al di fuori dell’attività di favoreggiamento strettamente intesa.
3.1 Segue: le ipotesi aggravate ex art.12, commi 3, 3-bis e 3-ter, T.U. Imm
L’art. 12, comma 3, punisce “chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l'ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”. Anche la fattispecie de qua rimane un’ipotesi residuale, per l’apposizione della clausola di salvezza “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”44.
A seguito delle modificazioni apportate dalla novella del 2004, la suddetta disposizione prevede esclusivamente una fattispecie incriminatrice in rapporto di specialità con il delitto di favoreggiamento dell’ingresso45. L’elemento specializzate rispetto alla figura base è rappresentato dal dolo specifico di trarre profitto anche indiretto dalla condotta46. La norma non prevede che il profitto debba essere ingiusto e che debba derivare dalla condizione di illegalità dello straniero, in ciò ulteriormente differenziandosi rispetto alla configurazione del dolo specifico offerto dal successivo comma 5 con riferimento al delitto di favoreggiamento della permanenza illegale47.
Tale previsione è connotata dalle medesime ambiguità dell’illecito di procurare l’ingresso, per l’incidenza della condotta criminosa su di un fatto penalmente non rilevante, la cui strutturale indeterminatezza non risulta, del resto, compensata dal dolo specifico a cui non è attribuibile alcuna funzione selettiva.
Si è, in altri termini, in presenza di un’ipotesi reato a dolo specifico differenziale, con funzione cioè differenziatrice della punibilità rispetto al fatto di favoreggiamento “semplice”, di pari offensività oggettiva. È insegnamento di autorevole manualistica, infatti, che un consimile impianto soggettivistico collida con il principio di offensività48, facendosi dipendere la diversità della sanzione da una mera intenzione offensiva, e ciò è tanto più grave ove un simile modello acceda ad uno schema di reato di attentato. L'unico correttivo per evitare “straripamenti” soggettivistici sembrerebbe consistere nell'apprezzamento dell'obiettiva idoneità della condotta a realizzare l'intenzione profittatrice, ovvero la “riconversione” ermeneutica del modello del dolo specifico differenziale in reato di pericolo concreto con dolo di danno.
Anteriormente all’odierna novella, l’ipotesi criminosa in esame risultava integrata anche quando il favoreggiamento fosse realizzato da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti (art. 12, comma 3, secondo periodo, precedente formulazione). Oggi, per contro, a seguito della legge n. 271 del 2004, siffatte ipotesi comportamentali vengono espunte ed inserite nel corpo del comma 3-bis attraverso la previsione di una nuova lettera, la “c bis” e con ciò trasformate in elementi integratori di circostanze ad efficacia comune. Viene, inoltre, riformulato l’esordio del comma 3-bis al fine di estendere le circostanze ivi previste anche al delitto di favoreggiamento all’ingresso illegale di cui al comma 1.
Tra le ipotesi aggravate del delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino, accanto a quella contemplata dall’art. 12, comma 3, vanno annoverate quelle disciplinate, rispettivamente ai commi 3-bis e 3-ter, espressamente qualificate dalla giurisprudenza della Cassazione come circostanze aggravanti ad effetto speciale49, che in linea con il rigore repressivo che caratterizza l’intera normativa, vengono sottratte al giudizio di bilanciamento.
Inoltre, al fine di rafforzare l’effetto deterrente delle norme in esame, l’art.12, comma 4, prevede, nei casi di cui ai commi 1 e 3, da un lato, l’obbligatorietà dell'arresto in flagranza50 e la confisca obbligatoria51 del mezzo utilizzato per il trasporto dei clandestini anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti contrariamente a quanto previsto dall’art. 444 c.p.p. in tema di sanzioni accessorie; dall’altro, quanto al rito, che si proceda “comunque con giudizio direttissimo”52, con l’eccezione dell’ipotesi in cui occorra svolgere speciali indagini.
3.2 Segue: il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale
La disposizione di cui all’art. 12, comma 5, integrato da ultimo dalla L. n. 125 del 2008, di conversione del D. L. n. 92 del 200853, ha anch’essa natura residuale per espressa previsione legislativa, ricorrendo fuori dei casi di favoreggiamento dell’ingresso illegale e salvo che il fatto non costituisca più grave reato.
Essa prevede un’ipotesi di reato aggravata, che presenta elementi di connessione fra lo smuggling e il trafficking54, che rendono estremamente problematica la fissazione di confini chiari fra le diverse attività55.
Più nello specifico tale norma punisce “chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell'ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico”.
Sul piano descrittivo esistono tre importanti differenze fra la fattispecie de qua e l’ipotesi semplice di favoreggiamento. Innanzitutto la diversa formula usata “favorisce la permanenza” sancirebbe per il delitto in esame l’abbandono della tecnica della consumazione anticipata, rendendo qualificabile tale figura come reato di evento56. Ma l’indirizzo giurisprudenziale prevalente è nel senso di ritenere anche il delitto di agevolazione della permanenza illegale un reato di mera condotta, nonostante la diversità lessicale che lo connota rispetto al reato di favoreggiamento dell’ingresso clandestino. La permanenza dello straniero protrattasi per un certo periodo di tempo non assurge, infatti, ad elemento costitutivo della fattispecie, bastando il compimento di attività dirette a favorirla al fine di trarne ingiusto profitto57.
In secondo luogo, un altro elemento di differenziazione riguarda l’atteggiamento soggettivo che deve qualificare le condotte interdette. Mentre, infatti, il delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino è costruito come fattispecie a dolo generico, il reato di favoreggiamento della permanenza prevede la particolare configurazione del dolo specifico di profitto, che deve essere ingiusto e derivare dalla condizione di illegalità dello straniero: è richiesta una precisa correlazione tra la condizione di illegalità ed il profitto che da esso deriva, che si sviluppa non già solo sul piano oggettivo, ma su quello delle finalità assunte dall’agente.
Il favorire la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato è punita, inoltre, quando l’agente abbia operato “nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo”.
Difficile appare, invero, l’esegesi di questa disposizione. Si ritiene che quest’ultima precisazione induca il passaggio della fattispecie delittuosa dall’ambito del traffico di migranti a quello di tratta di persone a scopo di sfruttamento.
La giurisprudenza ha ritenuto che la norma, per quanto ambigua e mal formulata, si riferisca alle condotte di agevolazione del soggiorno in Italia caratterizzate dall’intento di reclutare persone da destinare alla prostituzione o minori da sfruttare in attività illecite58.
Tale esegesi è condivisibile e tiene in debita considerazione la natura residuale della norma. In altri termini, una corretta interpretazione della locuzione “nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo” comporta la rilevanza delle sole circostanze aggravanti del fine di prostituzione e di sfruttamento di minori, non anche di altre condotte, che concreterebbero più propriamente modalità di esecuzione del solo favoreggiamento dell’ingresso clandestino, sia esso a dolo generico o a dolo specifico59.
4. Delitto di indebito trattenimento dello straniero espulso
Tra i reati previsti in collegamento all’espulsione60, l’ipotesi più frequente nelle aule di giustizia è quella contemplata all’art.14, comma 5-ter, T.U. Immigrazione, attraverso cui si è inteso incriminare il comportamento dello straniero che, senza un giustificato motivo61, ometta di lasciare il territorio italiano nel termine di legge. L’illecito, a seconda delle ragioni sottese all’espulsione, presenta natura di delitto (primo periodo della disposizione) o di contravvenzione (secondo periodo). Una volta accertato che l’interessato si è trattenuto indebitamente nel territorio dello Stato, l’amministrazione deve procedere “in ogni caso” all’adozione “di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica” (terzo periodo)62. Il successivo comma 5-quater stabilisce che debba rispondere di uno specifico reato, punito più o meno gravemente, lo straniero che venga trovato nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico dopo essere già stato espulso ai sensi del comma 5-ter “primo periodo” (reclusione fino a cinque anni) e del comma 5-ter “secondo periodo” (reclusione per un massimo di quattro anni”)63.
Sul piano strutturale la fattispecie in esame rileva affinità con le figure di reato incentrate sull’osservanza di un provvedimento amministrativo64.
L’ordine di allontanamento del questore ex art. 14, comma 5-bis65, la cui violazione integra l’ipotesi di indebito trattenimento di cui al primo periodo della norma in commento, costituisce una modalità di esecuzione dell’espulsione66, che presuppone l’impossibilità di trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea o di accompagnarlo alla frontiera, con ciò riversandosi discutibilmente sullo straniero l’onere di eseguire l’espulsione, laddove lo Stato non riesca a farvi fronte con mezzi propri67.
La legittimità dell’ordine del questore dipende, inoltre, dalla legittimità del provvedimento con cui, a monte, è stata disposta l’espulsione dello straniero alla cui esecuzione mira il provvedimento di allontanamento disatteso e che costituisce un “antecedente logico”68 del reato in esame; ciò assume ancor più rilevanza a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 271 del 2004, in base alle quali le pene edittali si differenziano a seconda del provvedimento espulsivo comminato in origine, che, dunque, diventa un “discrimen tra fattispecie delittuose e fattispecie contravvenzionale”69.
Nella previsione originaria la fattispecie penale in esame era prevista come illecito contravvenzionale passibile di arresto obbligatorio. La Corte costituzionale con sentenza 15 luglio 2004, n. 223 dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies per violazione degli artt. 3 e 13 Cost. “nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del medesimo articolo 14 è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto”, risultando priva di senso l’adozione di un provvedimento precautelare, laddove non possa essere validamente disposta, in sede di convalida, la misura cautelare in carcere né alcun altra misura coercitiva di tipo cautelare stante il disposto dell’art.380 c.p.p70.
L’arresto, pertanto, non essendo finalizzato alla successiva adozione di un provvedimento cautelare, “si risolve in una limitazione “provvisoria” della libertà personale priva di qualsiasi funzione processuale ed è quindi, sotto questo aspetto, manifestamente irragionevole”.
La novella del 2004 interviene a colmare il vuoto legislativo creato dalla declaratoria di incostituzionalità, attraverso una riformulazione della norma censurata, che disattende il contenuto garantistica dell’intervento della Consulta: il primo periodo dell’art.14, comma 5-ter prevede ora la violazione dell’ordine di allontanamento come delitto punibile con la reclusione da uno a quattro anni (ad eccezione del caso di espulsione motivato dall’essere scaduto il permesso di soggiorno, per cui viene ancora mantenuta la pena dell’arresto da sei mesi a un anno). L’inasprimento della pena è, infatti, precondizione per l’obbligatorietà dell’arresto prevista al successivo comma 5-quinquies71.
Il testo novellato, come era prevedibile, viene nuovamente sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale. Un primo profilo di costituzionalità sorge in merito alla manifesta ed irragionevole sproporzione della pena prevista per l’inosservanza dell’ordine del questore rispetto non soltanto alla pena precedentemente comminata, non trovando tale inasprimento sanzionatorio giustificazione in significativi mutamenti del contesto sociale di riferimento, ma anche con riguardo alle pene previste per le ipotesi analoghe di cui agli artt. 650 c.p. e 2, L. 27 dicembre 1956, n. 142372. In particolare, si obietta che la condizione di straniero irregolare non può di per sé rappresentare un situazione di pericolosità sociale tale da giustificare una siffatta disparità di trattamento, soprattutto quando si pensi che del reato possono essere chiamati a rispondere soggetti non pericolosi, né mai processati o condannati per altri comportamenti criminosi73. Si ritiene, inoltre, che la pena prevista dall’art. 14 ,comma 5-ter non sembra avere alcun fine rieducativo, ma sia volta alla soddisfazione di mere esigenza processuali (quali quella di consentire l’immediato arresto obbligatorio in flagranza, il rito direttissimo immediato o nei 15 giorni74, e l’espulsione immediata), con ciò ripristinando in forma aggravata ciò che la Consulta aveva censurato con la sentenza n. 223 del 2004 richiamata75.
La Corte costituzionale con sentenza 2 febbraio 2007, n. 22 dichiara questa volta inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14 commi 5-ter e 5-quinquies del D.Lgs. n. 286 del 1998, in riferimento agli artt. 2, 3 e 27 Cost., nella parte in cui la norma prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio italiano in violazione dell’ordine di espulsione del Questore, nonché l’arresto obbligatorio, sollevate dai Tribunali di Genova, Bologna, Ancona, Gorizia, Trieste, Milano, Trani76 e Verona, ma invita il legislatore a eliminare al più presto gli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie che caratterizzano il quadro normativo in materia di immigrazione77.
A parere della Consulta il controllo dei flussi migratori rappresenta un grave problema sociale, umanitario ed economico, che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione. Il sindacato di costituzionalità può investire le pene scelte dal legislatore solo se sia evidente la violazione del principio di ragionevolezza, ossia solo nel caso in cui esistono fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio.
La Corte ritiene, in altri termini, che il caso di specie non integri una di quelle ipotesi in cui la stessa può legittimamente verificare l’uso della discrezionalità legislativa nella determinazione della qualità e quantità della sanzione penale, in quanto non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione.
In realtà, tale lettura non convince, ritenendosi che le norme richiamate siano legate da un rapporto di affinità, che vede l’ipotesi di cui all’art. 14, comma 5-ter, in buona sostanza, nient’altro che una specificazione dell’art. 650 c.p..
Peraltro, nelle ordinanze di rimessione de quibus l’art.3 Cost. si asserisce violato non solo in comparazione con altre norme penali che prevedono fattispecie simili, ma anche per intrinseca irragionevolezza, avuto riguardo al rapporto di proporzionalità necessaria tra gravità del disvalore sociale del fatto ed entità delle sanzioni. Va a tal proposito menzionata quell’evoluzione giurisprudenziale secondo cui il rispetto di tale principio nel diritto penale “equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni”78. In sintesi il suddetto orientamento ha portato il giudice delle leggi ad affermare che la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, come precedentemente affermato79, ma costituisca “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”80, implicando, quindi, un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra81.
Pertanto, ancorando il giudizio di ragionevolezza e proporzionalità ai suddetti parametri costituzionali così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale più lungimirante82, la Consulta avrebbe dovuto pronunciare la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione in esame, nella convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata. Non vi è, infatti, dubbio che la norma, fortemente punitiva sotto il profilo sia sostanziale che processuale, introduca una forma di diritto speciale penale per l’immigrato clandestino, concepita nel segno della differenziazione tra cittadini e, appunto, non cittadini. Viene, infatti, conferita rilevanza alla mera condizione soggettiva di straniero irregolare inottemperante, a cui si ricollegano conseguenze giuridiche diverse, segnatamente assai più severe, senza che a tale qualifica sia possibile imputare una reale pericolosità sociale, tenuto, altresì, conto di altri casi di arresto obbligatorio, ove si rinvengono situazioni concrete di danno ad interessi protetti di rango costituzionale83.
5. Criteri interpretativi per distinguere l’ipotesi di abolitio criminis e abrogatio sine abolitione in caso di modifica immediata di fattispecie penale
Nell’ambito della più ampia materia della successione di leggi penali nel tempo, si inserisce il fenomeno della c.d. abolitio criminis, che può verificarsi in due modi, o mediante abolizione84 di una fattispecie incriminatrice o sua sostituzione85.
Sono, infatti, frequenti i casi di modifiche legislative articolate nell'abrogazione espressa di una precedente fattispecie e nella contestuale previsione, nell'ambito della stessa materia, di nuove incriminazioni, che rispetto alle previgenti possono risultare strutturalmente eterogenee, oppure presentare un’omogeneità logico-strutturale, al cui accertamento segue l’analisi del tipo di specialità (rapporto di genere a specie o viceversa) esistente fra le norme succedutesi nel tempo. In genere, la riformulazione del bene giuridico protetto o delle modalità di offesa determina una restrizione dell’ambito applicativo dell'incriminazione, così specializzando la tutela penale86. Ovviamente anche la degradazione di un reato ad illecito amministrativo (c.d. depenalizzazione) dà luogo ad abrogazione87.
Con l’abrogazione di una norma viene meno il precedente giudizio di disvalore astratto, eliminandosi la qualificazione di illiceità penale di un determinato comportamento. Invero, tale fenomeno non si produce automaticamente, ossia in tutti i casi in cui si verifica l’espressa abrogazione di una disposizione88. L'interprete è, infatti, tenuto a verificare se tale abolizione89 o la modifica di un enunciato legislativo abbia effettivamente prodotto una abolitio criminis vera e propria oppure una c.d. abrogatio sine abolitione: nonostante l'espressa abrogazione da parte del legislatore di una disposizione incriminatrice, la fattispecie legalmente contemplata come reato (ovvero una o più delle sottofattispecie legali) continua ad essere penalmente rilevante90.
In altri termini si è in presenza di un fenomeno di abolitio criminis parziale91, quando vi è stata successione soltanto modificativa fra le norme incriminatrici: la norma successiva toglie vigore a quelle condotte legali ricomprese nella norma previgente non più richiamate. Pertanto, la norma di riferimento sarà per la porzione di incriminazione eliminata l’art. 2, comma 2, c.p., per la parte, invece, che continua ad essere vigente, il successivo comma 4 della suddetta disposizione, alla cui stregua troverà applicazione la lex mitior, salvo il caso in cui sia già stata pronunciata una sentenza irrevocabile92.
Più precisamente, l'ipotesi di abolizione parziale di una incriminazione ricorre in presenza di due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo, e che si pongono in rapporto di specialità tra loro. Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità93, per stabilire se tra due norme sussista o meno continuità normativa, occorre innanzitutto valutare se vi è omogeneità strutturale tra fattispecie astratte, in caso di esito positivo, occorre, inoltre, individuare la relazione di specialità tra le stesse intercorrente. Tale rapporto di specialità può essere per specificazione o per aggiunta: ricorre la prima ipotesi quando venga a realizzarsi un rapporto di genere a specie fra uno o più elementi delle due fattispecie, nel secondo caso, invece, la norma speciale presenta alcuni elementi specializzanti, che si aggiungono a quelli costitutivi della norma generale, determinando un restringimento della sua sfera di applicazione.
Di talché, mentre nella specialità per specificazione la fattispecie generale include sempre tutti gli elementi descrittivi della fattispecie speciale, nella specialità per aggiunta è, piuttosto, la fattispecie speciale a includere tutti gli elementi descrittivi di quella generale, oltre all'elemento aggiuntivo che la caratterizza94 .
Tanto nel primo quanto nel secondo caso, quindi, “sarebbe riscontrabile una situazione di doppia punibilità in astratto, cui si ricollega una relazione di continuità” 95 normativa. Più nello specifico, nell’ipotesi di specialità per specificazione, il legislatore prevede con la nuova disciplina lo stesso reato, ma conferma la punibilità di solo una parte dei fatti prima sanzionati; ne segue che per quei fatti per cui permane l’illiceità, non c’è abolitio criminis, ma una vicenda modificativa di disciplina; per quelli per cui, all’opposto, l’illiceità penale non è confermata, non si può che sostenere la sussistenza del fenomeno abrogativo parziale.
Nella seconda ipotesi di specialità, invece, la valutazione di continuità o meno non può prescindere dall’esame dell’elemento speciale introdotto: in tali casi, infatti, non si ha mai un fenomeno abrogativo parziale per le condotte di cui non è ribadita la penale rilevanza, in quanto se l’elemento specializzante ha una portata tale da esprimere la volontà del legislatore di punire un diverso disvalore, e quindi, di mutare la propria scelta punitiva, si verifica un’abolitio criminis totale; nel caso contrario, in cui non è ravvisabile tale mutamento, dato che la norma non riduce l’ambito di penale rilevanza dei fatti già puniti, ma, anzi, introduce un ulteriore elemento aggiuntivo, non si ha alcuna abolitio criminis, ma modificazione di disciplina ex art.2, comma 4, c.p.96.
Il tema in esame è oggetto di un vasto dibattito sia giurisprudenziale che dottrinale, alimentato dalle numerose vicende legislative, che hanno recentemente apportato modifiche a vari settori dell’ordinamento e nel cui ambito non è sempre risultato agevole distinguere le ipotesi di abrogazione da quelle di successione di leggi penali meramente modificative.
Ciò detto, per una corretta impostazione del problema si ritiene opportuno passare ora in rassegna, anche se non in modo compiuto, le varie impostazioni teoriche avanzate da dottrina e giurisprudenza, al fine di stabilire quando vi sia o meno continuità normativa fra due fattispecie penali97.
5.1 Segue: le posizioni dottrinali e giurisprudenziali
Nonostante gli sforzi compiuti, la dottrina e la giurisprudenza non sono ancora giunte ad una posizione unitaria circa l’individuazione dei criteri e requisiti, alla stregua dei quali una legge o disposizione possa definirsi speciale rispetto ad un’altra; il problema centrale verte sull’estensione del principio di specialità non solo alle ipotesi di integrale sovrapposizione delle fattispecie astratte concorrenti, ma anche al caso in cui la sovrapposizione risulti solo parziale98.
Diverse le teorie elaborate e variamente applicate, di cui darà ora breve lettura.
Una prima impostazione, risalente nel tempo, ritiene che per verificare se si è in presenza di un rapporto di continuità normativa occorre accertare, se il fatto storico concreto rientri nell’ambito di applicazione tanto della norma precedente, quanto di quella riformulata (c.d. “teoria del fatto concreto”)99; in tale ipotesi, infatti, il giudizio di disvalore permarrà, essendosi verificata una mera successione nel tempo di norme modificatrici e non una vera e propria abrogazione. Nonostante la sua estrema facilità applicativa, il limite più evidente di tale teoria è che, focalizzando l’attenzione sulle condotte concrete, non permette di tracciare a priori i confini precisi fra lecito ed illecito, il che comporta il rischio di applicazioni retroattive della nuova incriminazione.
Un secondo indirizzo elabora un criterio di natura sostanzialistico-valoriale, volto a delineare la continuità d’incriminazione, laddove alle norme poste in successione sia comune un nucleo di disvalore, determinato dal bene giuridico tutelato e dalle modalità dell’offesa, tipizzate dalle fattispecie poste a confronto100. Secondo la teoria della continuità del tipo di illecito, pertanto, si verifica un fenomeno successorio, allorquando, nonostante la novazione legislativa, nel passaggio dalla previgente alla nuova norma, tali parametri di valutazione permangono sostanzialmente invariati101. A tale impostazione si muovono, tuttavia, due critiche fondamentali: si è in primo luogo obiettato che a fronte di una verifica rigorosa circa l'identità del bene offeso e delle modalità aggressive, il criterio avrebbe un ambito di applicazione assai ristretto; se, invece, al contrario tale indagine si avvalesse di criteri di natura eminentemente valutativa, il principio interpretativo sarebbe suscettibile di apprezzamenti di valore labili ed incerti, alla stregua dei quali si finirebbe per conferire rilevanza a profili del fatto che non dovrebbero averne, col conseguente rischio di violazione del principio di irretroattività102.
A tale teoria si contrappone, quindi, un terzo criterio, di natura formale, definito della piena continenza103, poi integrato e sostituto dalla teoria dei rapporti strutturali fra due fattispecie incriminatrici succedutesi nel tempo, che fonda il giudizio di continuità normativa sulla sostanziale omogeneità degli elementi costitutivi caratterizzanti la norma precedente e quella sopravvenuta. In base a quest'ultima impostazione, il fenomeno successorio è, quindi, riscontrabile, ogniqualvolta il legislatore, nel riformulare la fattispecie, abbia previsto una condotta caratterizzata da elementi pienamente sovrapponibili a quelli contemplati nella versione precedente, tale per cui possa tra le stesse instaurarsi una relazione di genere a specie. Naturalmente può rinvenirsi un rapporto di specialità reciproca, nel senso che sussisterebbe continuità di incriminazione tanto nel caso in cui la nuova norma sia speciale rispetto alla precedente (limitatamente all’area di illecito delineata dalla nuova norma), quanto nel caso inverso, in cui la precedente norma sia speciale rispetto alla nuova (limitatamente all’area di illecito delineata dalla vecchia norma)104.
Fra le pronunce in cui si assiste ad un allontanamento dal criterio della continuità del tipo di illecito a favore di quello incentrato sul raffronto formale tra le fattispecie vale la pena annoverare, a titolo esemplificativo, una recente sentenza105 delle Sezioni Unite in materia di false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta impropria. Il Supremo Collegio, prendendo le mosse dalle vicende legislative rispettivamente concernenti gli artt. 2621 c.c. e 223, comma 2, L. Fall. (R. D., 16 marzo 1942, n. 267), ha precisato che, ai fini della distinzione tra abolitio criminis e successione di leggi penali nel tempo, il criterio da seguire è costituito dalla comparazione strutturale tra le fattispecie astratte, ulteriormente specificando che lo stesso si basa sulla ricerca di un’area di coincidenza tra gli elementi oggettivi e soggettivi, individuati dalle leggi succedutesi nel tempo, a prescindere dalle valutazioni concernenti i beni oggetto della tutela penalistica e le modalità dell’offesa, parametri che si sarebbero dimostrati, alla prova dei fatti, inidonei a “condurre ad approdi interpretativi sicuri”. La Corte stabilisce, inoltre, che il ricorso ad un controllo bifasico, che faccia seguire ad un verifica strutturale una verifica valutativa, “non sia di regola necessario e debba avvenire solo se vi sono elementi univocamente indicativi di una volontà legislativa totalmente abolitrice”, che, peraltro, nel caso di specie è già desumibile dall'esame logico-strutturale delle norme in successione.
6. La successione mediata di norme penali
Come noto, il criterio di formulazione della norma penale consiste nella descrizione materiale di un determinato comportamento. Talora la legge, nell’indicazione degli elementi di una fattispecie incriminatrice, può fare ricorso anche ad elementi normativi106. Trattasi di dati rilevanti per l'ordinamento giuridico richiamati dalla norma incriminatrice e caratterizzati da un parametro valutativo variabile al mutare dei tempi e dei luoghi. Essi, per un corretto inquadramento, possono necessitare di eterointegrazione giuridica o extragiuridica107, che ne precisi la portata.
L’interrogativo che si pone in questa sede è se la modifica di una norma giuridica richiamata da un elemento normativo108 dia luogo ad una vicenda successoria riconducibile nell’alveo di applicazione dell’art. 2 c.p..
Numerose sono le ipotesi prospettabili: da quella classica dell’abrogazione del reato rispetto al quale è stata presentata una denuncia di calunnia, ai casi in cui venga meno, a seguito di un provvedimento legislativo o amministrativo, la qualità di pubblico ufficiale. Trattatasi di un problema alquanto dibattuto e ricorrente, soprattutto a causa della necessità di adeguare le fattispecie di reato ad una realtà fattuale in continuo cambiamento, che comporta una crescente interdipendenza degli ordinamenti giuridici, nonché dei vari rami di cui gli stessi, singolarmente considerati, si compongono.
6.1 Segue: gli indirizzi dottrinali
Anche nella materia de qua è, pertanto, ravvisabile una varietà di opinioni dottrinali109 più articolata rispetto alle draconiane decisioni della giurisprudenza, indirizzate bruscamente o verso l’assoluta irrilevanza o, viceversa, verso la piena rilevanza delle modifiche mediate della fattispecie penale.
In via di estrema sintesi, l’orientamento tradizionale ritiene che l’art. 2 c.p. non trovi applicazione nell’ipotesi di successione di mere norme integratrici della legge penale, in quanto esse influirebbero sulla previsione incriminatrice senza, però, farne parte110.
Si obietta, però, in chiave critica, che una siffatta interpretazione finirebbe per dare rilievo a fatti che in seguito alla sopravvenuta modifica hanno perso di rilevanza. L’interpretazione estensiva sarebbe, peraltro, suffragata dal dato testuale dell’art. 2 c.p., che, pur se intitolato “successione di leggi penali”, descrive, poi, il suddetto fenomeno in modo asettico, parlando genericamente di “legge”.
Occorre, invero, stabilire, se in seguito all’abrogazione della norma integratrice della fattispecie penale111, sia venuto meno il disvalore penale del fatto criminoso anteriormente commesso e di conseguenza la ratio puniendi ad esso sottesa. Nell’ambito di tale ultima impostazione dottrinale sono enucleabili diversi indirizzi interpretativi112, che non permettono di pervenire ad una soluzione univoca. Basti dire che secondo alcuni interpreti, i parametri alla cui stregua deve essere compiuta l’indagine ermeneutica circa la coincidenza dell’area di illiceità, andrebbero individuati nella modalità di aggressione e nel bene giuridico tutelato, la persistenza dei quali, pur nella riscrittura della norma, escluderebbe il fenomeno abolitivo113. Altra parte della dottrina114, invece, utilizza un criterio rigorosamente normativo.
Forti contrasti si registrano, ad esempio, in riferimento applicabilità dell’art. 2, comma 2, c.p. nel caso di abrogazione del reato presupposto nel delitto di calunnia. Ad avviso di alcuni, la calunnia, avendo natura di reato di pericolo, si consuma con l’insorgere della semplice possibilità che si instauri un processo penale e che, quindi, venga condannato un innocente115, senza che possa incidere sul disvalore del fatto la successiva depenalizzazione del delitto oggetto di falsa incolpazione. A parere d’altri, al contrario, la depenalizzazione del reato presupposto inciderebbe in modo decisivo sul disvalore penale del fatto commesso, con conseguente operatività della disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p.116
Contrapposizioni si verificano, altresì, in relazione al mutamento che abbia ad oggetto norme integratrici extragiuridiche che rinviano, com’è noto, a criteri di tipo socio-culturale: si pensi, ad esempio, al caso in cui cambi il parametro sociale alla stregua del quale si valuta l’oscenità di una determinata condotta. A fronte di un orientamento dottrinale favorevole all’applicabilità anche a tali casi della disciplina di cui all’art.2 c.p.117, vi è un altro indirizzo che, invece, la nega recisamente118. Invero, in rapporto ai concetti normativi etico-sociali, non si potrebbe parlare propriamente di modifiche mediate della fattispecie, posto che il mutamento di una norma di costume non integrerebbe, a rigore, un fenomeno di successione di leggi nel tempo. In questo caso, si pone semmai, con ogni probabilità, un distinto, ma non per questo meno importante, problema di interpretazione evolutiva della fattispecie incriminatrice.
In ordine, poi, alle c.d. norme penali in bianco, la posizione prevalente119 è quella secondo cui l’abrogazione della disposizione realmente integratrice, agendo in via non indiretta, ma diretta sulla norma, importa quella liceità del comportamento alla stregua del giudizio di valore astratto che è essenziale nell’art. 2, comma 2, c.p.120.
6.2 Segue: il panorama giurisprudenziale
Negli ultimi anni la tematica della successione di elementi normativi della fattispecie è stata spesso oggetto di indagine giurisprudenziale; si pensi, a titolo esemplificativo, ai casi concernenti la depenalizzazione del reato presupposto nella calunnia e nell’omessa denuncia, l’abolitio criminis del reato-scopo nei delitti associativi, la perdita della qualifica soggettiva ad opera di legge extrapenale nei c.d. reati propri, la punibilità del rifiuto di prestare il servizio militare in seguito all’abrogazione del servizio di leva obbligatorio e, più di recente, la nozione di imprenditore fallibile alla luce del nuovo assetto normativo ex D. Lgs., 9 gennaio 2006, n. 5, che ridisegna i criteri soggettivi rilevanti ai fini dell’assoggettabilità alla procedura fallimentare ed ai relativi illeciti penali.
La questione ha trovato divergenti soluzioni e, nonostante la maturità e diffusione di alcune tesi, non è possibile risalire a criteri diagnostici sufficientemente stabili, mediante i quali sia consentito ai giudici di applicare nel caso concreto un istituto piuttosto che un altro. In questa sede, non potendosi procedere ad un’elencazione esaustiva della relativa casistica, attese le peculiarità che connotano ogni singola vicenda giudiziaria, maggior rilievo verrà dato soprattutto a quelle pronunce, in cui l’interprete ha optato per l’operatività dell’istituto successorio a norma dell’art. 2, comma 2, c.p. nell’ipotesi di modifica di norma extrapenale.
Emblematico delle suddette difficoltà ermeneutiche può considerarsi il caso relativo alla trasformazione dell’ENEL in società per azioni ad opera della L. 8 agosto 1992, n. 359, in seguito a cui è sorto il problema se il novum legislativo avesse inciso sulla struttura della fattispecie sanzionata dall’art. 468 c.p., commessa anteriormente all’entrata in vigore della succitata legge di privatizzazione. Al riguardo si sono sostanzialmente registrati due diversi indirizzi interpretativi: secondo un primo orientamento l’intervenuto mutamento del regime giuridico dell’ENEL non “ha affatto modificato il contenuto delle norme incriminatrici e perciò rimane immutata la punibilità della contraffazione dei sigilli, strumentale alla sottrazione di energia elettrica commessa”121 in data anteriore, in base alla considerazione che la modifica mediata di una fattispecie incriminatrice, attraverso la modificazione o l’abrogazione di norme extrapenali che implicitamente ne determinano l’ambito applicativo, non è automaticamente ascrivibile al fenomeno della successione di leggi nel tempo.
A conclusioni diverse giungono, invece, altre pronunce in cui si afferma che tale trasformazione “non rende più configurabile la fattispecie di contraffazione del sigillo di un ente pubblico, prevista dall’art. 468 c.p.”122. Tale norma, infatti, al fine di individuare un elemento essenziale del precetto penale (l’ente pubblico), fa rinvio alla norma (extrapenale) che specifica la natura dell’ente, la quale, pertanto, non può che qualificarsi come norma penale integrativa; né vale osservare che la legge n. 359 del 1982, essendo una tipica legge-provvedimento e, quindi, un atto sostanzialmente amministrativo, non è tale da modificare la norma incriminatrice, dato che anche la norma amministrativa può integrare o costituire il precetto penale123.
Secondo tale, preferibile, impostazione, in altri termini, la ratio della diretta applicazione dell’art.2, comma 2, c.p., anche alle norme (extrapenali) integratrici della fattispecie penale, va individuata nel venir meno, con la modifica della disciplina, del disvalore sociale del fatto124, ossia il presupposto logico, ragionevole ed imprescindibile della sanzione penale.
Analogamente, in applicazione dei criteri suddetti, la Corte di Cassazione, ha ritenuto non configurabili i reati di peculato e malversazione in capo ad operatori bancari, per fatti precedentemente compiuti, asserendo che la perdita della qualifica pubblicistica seguita al cambiamento della natura giuridica dell’ente di appartenenza125 possa considerarsi come una successione mediata abolitrice della norma penale.
Alle stesse conclusioni la giurisprudenza è, altresì, pervenuta, nell’ipotesi della maggiore età, passata da 21 anni a 18 a partire dall’entrata in vigore della legge 8 marzo 1975, n. 39 126.
Del medesimo avviso, inoltre, le pronunce, ove si afferma il venir meno del reato di violazione di domicilio, quando per legge extrapenale viene modificato il concetto di domicilio127, nonché del delitto di contrabbando, quando la normativa fiscale abolisce l’imposizione dei diritti di confine128.
Lo stesso esito viene, parimenti, raggiunto con riguardo al delitto di esercizio abusivo della professione previsto dall’art. 348 c.p.: come noto tale previsione integra una norma penale in bianco, che, come già accennato, postula per la sua stessa natura l'esistenza di altre fonti normative destinate a stabilire le condizioni oggettive e soggettive integranti il contenuto precettivo della fattispecie incriminatrice129. Ergo, per accertare se un’attività sia stata esercitata in mancanza del titolo richiesto, ossia abusivamente, occorre avere preliminarmente chiari i limiti ed i contenuti delle varie normative di settore, a cui si deve fare di volta in volta rinvio.
Circa, poi, la rilevanza di modifiche concernenti atti giuridici non normativi, come, ad esempio, il provvedimento di natura amministrativa richiamato dal reato di cui all’art. 650 c.p., parte della giurisprudenza130 ritiene l’emanazione di nuovi atti o il mutamento del loro contenuto irrilevante, poiché gli stessi sono da considerarsi elementi del fatto, o elementi occasionali, che devono sussistere solo al momento della commissione del reato. A parere di altro orientamento131, invece, la soluzione non può ritenersi automatica, dovendosi sempre effettuare una valutazione concreta del permanere del disvalore penale del fatto ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p., anche con riguardo alle integrazioni non normative.
Relativamente agli effetti dello jus superveniens sulla punibilità del delitto di calunnia, il giudice di legittimità mostra, invece, di prediligere un orientamento rigoristico, nel senso di escludere tout court l’applicazione dell’art. 2 c.p., nel caso in cui il fatto oggetto di falsa incolpazione non costituisca più reato (o diventi procedibile a querela e questa non sia stata proposta)132.
Va, altresì, segnalato il dibattito giurisprudenziale, che si è sviluppato con riguardo alla punibilità della condotta di rifiuto a prestare il servizio militare posta in essere prima dell’entrata in vigore della L., 14 novembre 2000, n. 331, che ha istituito il servizio militare professionale ed ha previsto la sostituzione dei militari in servizio obbligatorio di leva con volontari di truppa e con personale civile del Ministero della Difesa133.
L’introduzione della suddetta normativa ha dato luogo ad un acceso contrasto interpretativo, anche a causa di un dettato legislativo caratterizzato da un certo pressappochismo linguistico: l’interrogativo è se tale riforma abbia o meno comportato l’abolizione del reato di cui all’art.151 c.p.m.p. (così come ogni altra norma incriminatrice di condotte di rifiuto del servizio militare), che punisce il mancato rispetto della chiamata c.d. obbligatoria alle armi, ovvero abbia dato luogo ad un mero fenomeno di successione di norme.
A fronte di un indirizzo interpretativo favorevole alla tesi dell’intervenuta abolitio criminis del reato in esame in conseguenza della totale e generalizzata eliminazione del servizio militare obbligatorio134, si registrano sentenze di senso contrario135, che inquadrano il rapporto fra nuova e previgente disciplina in tema di servizio militare obbligatorio nell'ambito dell’art. 2, comma 4, anziché dell’art. 2, comma 2, c.p.
Trattasi di un indirizzo prevalente, secondo cui, più nello specifico, la nuova disciplina avrebbe semplicemente fatto venir meno una norma integratrice del precetto penale, che riguarda esclusivamente i giovani nati prima del 1985, assoggettati all'obbligo di leva sino al 31 ottobre 2005 (data di cessazione dal servizio dell'ultimo contingente chiamato alle armi il 31 dicembre 2004 ex art. 1, L. 23 agosto 2004 n. 226), poiché fino a tale data permane la fattispecie incriminatrice. Successivamente al 31 ottobre 2005, l’abolizione del servizio di leva obbligatorio determina un’abolitio criminis e, quindi, la non punibilità del reo in applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p..
Di poco successivo alla sentenza in commento è, poi, un altro importante arresto giurisprudenziale, anch’esso emesso a Sezioni unite, secondo cui la modifica della definizione legale di “piccolo imprenditore” prevista dall’art. 1, L. Fall., ad opera dell’art. 1, D.Lgs., 9 gennaio 2006, n. 5 e ss. modifiche, non ha dato luogo, in relazione al reato di bancarotta fraudolenta (art. 216 L. Fall.), ad una successione di norme integratrici del precetto penale, rilevante a norma dell’art.2, comma 2, c.p., in quanto non incidente su un elemento strutturale della fattispecie penale. Ne consegue che permane la punibilità dell’imprenditore, dichiarato fallito sulla base della pregressa normativa, anche se in un momento successivo alla commissione del fatto non possa essergli più attribuita, in forza della nuova norma definitoria, la qualifica di “piccolo imprenditore”, come tale non soggetto alla disciplina del fallimento. La Corte, aderendo al più risalente indirizzo interpretativo, conclude, quindi, nel senso della vincolatività in sede penale dell’accertamento dello status di imprenditore contenuto nella declaratoria di fallimento pronunciata dal giudice civile136.
Dalle sentenze passate in rassegna, si evince chiaramente che l’orientamento della prassi applicativa in subiecta materia non è affatto omogeneo e compatto. Ad aggravare la situazione, contribuisce, altresì, la circostanza che, in diverse pronunce, i passaggi argomentativi a supporto o meno della natura integrativa della fonte che subisce la modifica, sono alquanto scarni e apodittici, in quanto non enunciano in termini chiari e convincenti il criterio generale ed univoco in grado di determinare non soltanto l’incidenza della norma extrapenale sulla portata del precetto, ma anche l’ambito di estensione del meccanismo di successione di leggi penali nel tempo in tutte le sue configurazioni.
7. La qualità di straniero: “mero” presupposto od elemento integrativo dei reati in materia di immigrazione?
Come si è si enunciato in premessa, un’ulteriore questione di diritto intertemporale, che ha, di recente, assunto grande rilievo nel dibattito penalistico, concerne le fattispecie criminose previste nel T.U. sull’immigrazione. L’interrogativo che si pone è se la ratifica dei trattati di adesione alla U.E., intervenendo su norme integratrici del precetto penale, incida o meno sull’antigiuridicità delle condotte commesse in epoca anteriore, dando luogo ad un fenomeno successorio riconducibile all’ambito di applicazione dell’art.2, comma 2, c.p..
Sull’argomento si registrano sostanzialmente due indirizzi interpretativi. Invero, è possibile rilevare sul punto una netta contrapposizione fra i giudici di legittimità e quelli di merito, la quale dà la misura di quanto la giurisprudenza si divarichi sul tema della successione mediata di leggi penali, ora affermando l’estraneità fra norma penale e fonte esterna di riferimento (sia essa legislativa, regolamentare od amministrativa), ora, per contro, riconoscendo a quest’ultima natura di norma integratrice.
7.1 Segue: l’impostazione “estensiva” della giurisprudenza di merito
Secondo un primo orientamento, nell’individuare i limiti all'applicabilità della disciplina dell'art. 2 c.p. alle modifiche legislative “indirette o mediate”, non può prescindersi dall'ossequio ai principi costituzionali di uguaglianza e di garanzia che governano la materia della successione delle leggi nel tempo, laddove con essa si tenta di dirimere quelle sperequate differenziazioni nel trattamento punitivo penale, che si potrebbero creare tutte le volte in cui non si tenga conto dell'esistenza di situazioni omogenee, non più percepite e normativamente considerate quali reato, che per una mera questione temporale o di tempi della giustizia dovessero essere disciplinate da normative differenti, con conseguenti differenti trattamenti e ingiuste diversificazioni nella risposta sanzionatoria di natura repressiva penale incidente sui massimi valori della persona, quale la libertà personale.
In quest'ottica si reputa più corretta e condivisibile l'adesione alla tesi favorevole137 a ricondurre anche tale modifica “mediata” della legge penale nel regime regolato dall'art. 2 c.p., sul presupposto che sul campo di applicazione della norma incriminatrice esplicano diretta incidenza tutte quelle fonti normative, che contribuiscono a concretare il contenuto del precetto penale, con la conseguenza che una modificazione di quelle fonti si riflette sulla ampiezza della fattispecie e sul disvalore del fatto138.
Più nello specifico, secondo tale indirizzo l'art. 2 c.p. si applica anche nell'ipotesi in cui venga modificata una norma “definitoria”, ossia “una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale”139, categoria in cui rientra la legge che individua i diversi Stati appartenenti all'Unione europea, che assume rilievo nell’individuazione dell’ambito di applicazione della disciplina sull’immigrazione, stante il rinvio alla nozione di cittadino extracomunitario operato dallo stesso art.1 del presente testo unico140.
L’abrogazione o restrizione del significato di una norma extrapenale richiamata da un elemento normativo della fattispecie criminosa, concorre a configurare l’illecito penale, eliminando, con ciò, il disvalore sociale della condotta incriminata141. Ne segue che, verificandosi un mutamento dei precetto penale in relazione al variato ambito applicativo della norma, è consequenziale il riconoscimento dell'operatività della disciplina dell'art. 2, comma 2, c.p., tanto più che l'applicabilità di quest'ultima disposizione appare indubbia quando si consideri che l'entrata nell'Unione europea, comportando l'esercizio del diritto di libera circolazione sancito dal Trattato istitutivo della Comunità Europea, di riflesso integra una causa di giustificazione, che elimina l'antigiuridicità delle condotte criminose.
Si può, pertanto, dire che le fattispecie incriminatrici in esame, richiamando la nozione di cittadino straniero al fine della loro configurabilità, sono qualificabili come norme penali in bianco142, ossia norme con sanzione determinata, ma con precetto di carattere generico che deve essere specificato da altri atti normativi anche di grado inferiore. Infatti, il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai soli casi di modificazione diretta della norma penale. Di conseguenza, tale modifica incidendo direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, incide, altresì, sugli illeciti penali applicabili. Il venir meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato143.
Questioni di ragionevolezza suggeriscono che la verifica della sussistenza della condizione di straniero rilevabile ai fini dell’applicazione della disciplina dell’immigrazione, debba essere compiuta dal giudice con riferimento alla legge del momento, e non alle precedenti, giacché le norme extrapenali si integrano in maniera indissolubile con le fattispecie criminose144, potendosene, anzi dovendosene, pertanto, ammettere l’assoggettabilità alla disciplina di cui all’art. 2 c.p..
Soccorre la predetta tesi non solo il dato formale della portata innovativa ed integratrice della ratifica sul senso ed il significato da attribuirsi, alla luce di tale modifica, all'art. 1, T.U. Immigrazione, bensì anche quello sostanziale del valore giuridico tutelato non più recepito o percepibile come tale a seguito dell'innovazione ordinamentale voluta dal legislatore.
Per valutare con coerenza il grado ed i limiti di influenza della norma extrapenale su quella penale, l’interprete è tenuto a ricostruire i singoli tipi in conformità ai principi costituzionali, al fine di evitare, in primo luogo, qualsiasi disparità di trattamento che si possa tradurre in una violazione del principio di uguaglianza sancito all’art.3 Cost. ed in particolare del principio di necessaria offensività, sicché dovranno considerarsi non conformi alla lettera della legge i comportamenti non più offensivi del bene protetto. Il riferimento all’interesse tutelato dalle singole fattispecie incriminatrici è, quindi, indispensabile per affermare, o viceversa escludere, la rilevanza di un fenomeno di successione mediata di leggi penali. Secondo tale orientamento sarebbe allora necessario verificare, volta per volta, se la variazione legislativa che interessa la norma extrapenale richiamata influisca o meno sulla situazione che l’ordinamento intende proteggere, atteso, appunto, che la significatività di un elemento di fattispecie deve esser valutata in relazione all’offesa, quale nucleo centrale del reato.
Lo imporrebbe, a prescindere da qualunque altra considerazione sulla “rilevanza normativa” della intervenuta modifica, la ratio di eguaglianza che ispira la norma dell’art. 2, comma 2, c.p., nonché lo stesso principio rieducativo che la riempie di contenuto. Tale confronto fra la rilevanza penale dello stesso fatto commesso prima e dopo la modifica, consente, infatti, di ipotizzare una violazione del suddetto principio nella persistente punibilità di condotte concrete pregresse, qualora le stesse non siano più idonee a ledere il bene giuridico protetto dalla norma penale di riferimento. Si tratta di una criterio opinabile, posto che a volte è difficile stabilire quale sia la situazione che il legislatore ha inteso tutelare, ma che nel caso di specie si crede possa fornire un utile parametro orientativo, stante la chiarezza della ratio puniendi della normativa in materia di immigrazione. Come già osservato, l’oggettività giuridica sottesa alla suddetta disciplina può essere senz’altro ricercata e fissata nella “difesa delle frontiere nazionali”, la cui tutela viene garantita sanzionando penalmente il compimento di tutti quegli atti, che realizzano l’ingresso e la permanenza di stranieri in violazione delle norme del presente testo unico (artt.4 e 10), in particolare mediante sottrazione ai controlli di frontiera. Conseguentemente, con l’allargamento dell’Unione europea tramite la ratifica dei trattati di adesione, il legislatore esprime la volontà statuale di non avvertire più tale necessità di difesa nei confronti dei cittadini dei nuovi Paesi aderenti145.
7.2 Segue: l’orientamento “restrittivo” della giurisprudenza di legittimità: la sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione 27 settembre 2007 – 16 gennaio 2008, n. 2451
L’orientamento prevalente della Corte di Cassazione146 mostra di prediligere un approccio rigoristico, che, affermando l’autonomia del diritto penale rispetto alle definizioni di altre branche del diritto, stabilisce tout court l’irrilevanza delle modifiche mediate della fattispecie, sulla base di un richiamo tralatizio al disvalore penale del fatto, non suscettibile di venire intaccato in seguito alla successione di norme extrapenali. Tale linea interpretativa riprende e sviluppa quell’indirizzo di legittimità, secondo il quale nell’ambito di operatività dell’istituto successorio non rientrano “le vicende successorie di norme extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e, quindi, in vigore. Ne consegue che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso”147.
Stante il controverso indirizzo della giurisprudenza di merito, la Prima Sezione Penale, con ordinanza 16 aprile 2007, n. 17578, rimette alle Sezioni Unite la quaestio iuris “se la sopravvenuta circostanza che dal 1° gennaio 2007 la Romania è entrata a far parte dell'Unione Europea giustifichi l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 2 c.p. e debba, quindi, fare pronunciare l'assoluzione con la formula "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato", nel processo a carico di un cittadino rumeno imputato del reato previsto dall'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286 del 1998 per l'inosservanza dell'ordine di lasciare il territorio italiano anteriormente emesso dal questore a seguito del decreto prefettizio di espulsione”.
La decisione 27 settembre 2007, n. 2451 delle Sezioni unite148 si inserisce nel solco interpretativo già tracciato, espressione, a detta della stessa Corte, di “una linea di fondo prevalente nella giurisprudenza di legittimità”, ove si ribadisce l’orientamento secondo cui l’entrata della Romania nel novero dei Paesi comunitari non ha determinato la depenalizzazione del reato di illegittima permanenza nel territorio dello Stato149 e, quindi, una situazione riconducibile alla figura dell'abolitio criminis, fosse pure parziale, come tale rilevante ai sensi dell'art. 2, comma 2, c.p..
Lo ius superveniens, in altri termini, pur agendo su elementi che certamente contribuiscono alla descrizione della fattispecie tipica, risulta su un piano strutturale del tutto inidoneo a fondare un giudizio di discontinuità normativa, dando esclusivamente luogo ad una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento di adesione da parte del nuovo Paese alla U.E.
In definitiva il Supremo Collegio, sulla base di una ricognizione degli orientamenti in materia di successione di leggi del tempo150, afferma che le modifiche normative sopravvenute non incidono sul contenuto di disvalore del fatto costituente il fondamento della sua incriminazione, che, anzi, resta immutato dal punto di vista sostanziale151. “Perciò non può ritenersi che i cittadini rumeni, ai fini penali, vadano trattati come se fossero sempre stati cittadini dell'Unione e che i reati commessi quando essi erano stranieri siano divenuti non punibili in forza dell’art. 2, comma 2, c.p.. La situazione di fatto e di diritto antecedente all’adesione e quella successiva sono diverse e richiedono quindi logicamente trattamenti anche penali, diversi”.
La Corte di Cassazione ha sottolineato che un'interpretazione diversa dei disposti normativi potrebbe indurre lo straniero, il cui paese di origine è prossimo all'ingresso nell'Unione Europea, a commettere senza alcun timore uno dei reati di cui al T.U., “confidando poi nella successiva abolitio criminis”152.
Il percorso motivazionale seguito dalla Corte non appare convincente; vediamolo più nel dettaglio.
La Corte precisa opportunamente che nel caso di specie viene in rilievo l’applicazione del solo art. 2, comma 2, c.p. e non anche del successivo comma 4, dovendosi stabilire se la modifica della qualità di straniero abbia determinato un’abrogazione parziale della fattispecie astratta, oppure abbia comportato una nuova e diversa situazione di fatto.
Si enuncia, poi, che l’indagine sugli effetti penali della successione mediata va condotta con riguardo alla fattispecie in astratto e non in concreto, nel senso che occorre accertare se la fattispecie risultante dal collegamento fra la disposizione incriminatrice, rimasta letteralmente invariata, e la norma extrapenale modificata sia cambiata o meno.
Sulla base di tali premesse il Supremo Collegio afferma che l’ingresso di uno Stato nell’Unione costituisce un “mero dato di fatto”, che ha lasciato sostanzialmente invariata l’ipotesi criminosa in argomento. Più precisamente la ratifica del Trattato di adesione non può considerarsi norma integratrice del precetto penale sottoposta al regime di cui all’art. 2, comma 2, c.p., né, tantomeno, elemento esterno che ridisegna la fattispecie penale, che tale resta in relazione a tutti i soggetti, a cui sia attribuibile la qualifica di cittadini di stati non appartenenti alla Unione europea ai sensi dell’art. 1, T.U. Immigrazione.
Alle medesime conclusioni si giunge anche adottando quella diversa impostazione dottrinale, secondo cui il concetto di “fatto costituente reato” preso in considerazione dall’art. 2 c.p. debba assumere il medesimo significato tanto nel primo, quanto nel secondo comma, e vada inteso come fatto “storicamente determinato in tutti i suoi aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione della disposizione incriminatrice, ivi compresi quelli disciplinati dalle norme extrapenali”. Tale corrispondenza è, invero, riscontrabile solo se ed in quanto la legge extrapenale integri il divieto penale153.
La modifica di una norma extrapenale, che non concorre in modo essenziale alla formazione della fattispecie incriminatrice, non può, infatti, avere effetto retroattivo, così come non può far venire meno la punibilità di fatti precedentemente commessi. A titolo esemplificativo, la Corte instaura un parallelismo tra il caso di specie e la modifica, che abbia ad oggetto un provvedimento adottato dal pubblico dipendente od incaricato di pubblico servizio in violazione di legge ex art. 323 c.p.: al fine della configurazione dell’abuso d’ufficio la conformità dell’atto alla legge deve sussistere al momento della commissione del fatto, a nulla rilevando le modifiche legislative successivamente intervenute, in seguito alle quali tale conformità venga meno. Parimenti, la vicenda successoria de qua, non avendo ad oggetto norme extrapenali integratrici della fattispecie penale, non incide sulla lesività del fatto, ma costituisce un mero dato di fatto, anche se frutto di attività normativa. A sostegno di tale approdo ermeneutico la Corte richiama brevemente l’art. 47, comma 3, c.p., stabilendo che la previsione di una disciplina diversa dell’errore su “legge diversa da quella penale”, giustifichi un trattamento differenziato delle norme extrapenali anche agli effetti dell’art. 2 c.p..
Ad opposta conclusione sarebbe corretto pervenire se a cambiare fosse la definizione di straniero contenuta all’art. 1 del presente testo unico, così da escludere dalla sua sfera di applicazione il cittadino di uno Stato in attesa di adesione. In tal caso “sarebbe la stessa fattispecie penale a risultare diversa” e la modifica darebbe luogo ad un fenomeno successorio di abolitio criminis parziale, riconducibile all’art. 2, comma 2, c.p..
A conclusione del suo iter argomentativo la Corte afferma che nessun argomento decisivo per sostenere la rilevanza delle modifiche mediate può desumersi dal precedente in senso diverso delle stesse Sezioni unite (sentenza 23 maggio 1987, Tuzet, cit.), in cui si afferma che per legge incriminatrice deve intendersi “il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto: tra questi elementi, nei reati propri, è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo” 154.
La Corte, nel tentativo di screditare il valore ermeneutico di suddetta pronuncia, sottolinea come alle Sezioni unite di allora non fosse stata sottoposta specificamente la questione relativa alla rilevanza delle modifiche mediate della norma penale e come la soluzione adottata non fosse rimasta, comunque, immune da critiche, non avendo di fatto impedito alla giurisprudenza successiva di riaffermare il più rigoroso orientamento precedente. In altri termini, nella sentenza Tuzet, la “diversa qualificazione data ai dipendenti bancari, più che una modificazione normativa, era stata il frutto di una diversa interpretazione”, a cui le Sezioni unite hanno voluto riconoscere effetto retroattivo.
8. Spunti critici per la corretta ricostruzione della vicenda successoria in esame
Si è visto che la Suprema Corte sancisce in modo perentorio l’irrilevanza delle c.d. “modifiche mediate” della fattispecie incriminatrice con riguardo ai reati esaminati, in quanto il novum legislativo, non intaccando la configurazione tipica della norma incriminatrice, non fa venir meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. Il punto di partenza, assolutamente condivisibile, del ragionamento della Corte è rappresentato dalla pacifica constatazione che non è intervenuta alcuna legge, che abbia modificato direttamente le fattispecie criminose de quibus, scriminando o depenalizzando le disposizioni sanzionatorie ivi previste.
A ben vedere, la modifica delle legge extrapenale ha modificato il contenuto del precetto sanzionato penalmente, non già cambiando la configurazione astratta della norma incriminatrice, ma il suo effettivo ambito di operatività.
Dato, questo, che non induce affatto, in sé e per sé, ad escludere a priori una rilevanza “mediata” delle norme extrapenali nella materia della successione di leggi.
In realtà, per capire se siffatto fenomeno successorio esuli dall’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p., e, quindi, se l’orientamento del giudice di legittimità sia condivisibile oppure sia piuttosto il frutto di una presa di posizione del tutto aprioristica, bisogna risolvere alcune questioni logicamente preliminari.
È, innanzitutto, necessario accertare il tipo di rapporto esistente tra norme extrapenali e norme penali. Trattasi di argomento, come si è visto, assai complesso, stante l’eterogeneità dei contesti in cui le modifiche mediate della fattispecie incriminatrice possono, in concreto, rilevare.
In secondo luogo, occorre stabilire se il nucleo attorno a cui ruotano le previsioni in tema di successione di leggi penali sia la fattispecie astratta ovvero il fatto concreto costituente reato. Questa puntualizzazione appare, in effetti, essenziale tanto in rapporto ai casi di modifica immediata, quanto in relazione alle ipotesi di successione di norme extrapenali richiamate da un elemento normativo della fattispecie: proprio da essa dipende, anzi, l’intera portata applicativa dell’art. 2, c.p..
Con riguardo al primo quesito, occorre valutare quale sia il ruolo svolto dall’elemento normativo nella struttura della fattispecie, richiamando quella giurisprudenza formatasi in materia di errore su legge extrapenale, in cui si riconosce, attraverso una sostanziale interpretatio abrogans dell’art. 47, comma 3, c.p., un rapporto di necessaria integrazione fra norma penale ed extrapenale, sul presupposto, che la norma extrapenale integri sempre la norma penale, contribuendo addirittura a definire il senso del divieto.
A tal proposito vale la pena ricordare, in via esemplificativa, quell’elaborazione pretoria, che afferma la rilevanza dell’errore su legge extrapenale, nell’ipotesi in cui l’imprenditore dimostri di aver errato sulla propria qualifica soggettiva, ovvero di essersi considerato quale piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c. e, di conseguenza, di non essere obbligato a tenere le scritture contabili. La Corte di Cassazione, rifacendosi al criterio dell’efficacia integratrice della norma extrapenale rispetto al precetto penalistico, sostiene che, avendo le norme di diritto civile disciplinanti lo status di imprenditore carattere integrativo della disposizione, che incrimina la bancarotta semplice, l’errore ricadente su suddetta qualifica si risolve in ignoranza della norma penale, che scusa nei limiti dell’art. 5 c.p.155 .
La dottrina assolutamente dominante è orientata nel ritenere che l’erroneo convincimento di essere piccolo imprenditore, esclude il dolo a norma dell’art. 47, comma 3, c.p., trattandosi di un errore su una legge diversa da quella penale, che si risolve in un errore sul fatto che costituisce il reato, id est sulla qualità personale richiesta per l’esistenza dell’obbligo156.
Opportunamente si precisa che l’opinione va intesa nel senso che l’erronea convinzione del soggetto deve cadere sugli elementi di fatto, da cui deriverebbe la qualifica di piccolo imprenditore (quali, ad esempio, le dimensioni dell’azienda e la natura dell’attività esercitata), poiché l’articolo 47, comma 3, c.p., nell’attribuire rilievo all’errore su legge extrapenale, esige pur sempre che esso si risolva in un errore sul fatto che costituisce il reato157: il dolo viene escluso perché il soggetto si è rappresentato ed ha voluto un “fatto” diverso da quello tipico. In conclusione, la concezione dolosa del reato in esame rende maggiormente rilevante l’errore su legge extrapenale, in quanto ha determinato un errore sulla qualità personale richiesta per la sussistenza dell’obbligo158.
Ciò posto, appare, ora, contraddittorio affermare che la norma extrapenale integra la fattispecie penale sul solo versante applicativo dell’art. 47 c.p. e non anche su quello dell’art. 2 c.p.: il ruolo svolto dagli elementi normativi della fattispecie penale, dovrebbe, in altri termini, essere il medesimo tanto nella delicata materia dell’errore, quanto nell’insidioso territorio delle modifiche mediate della fattispecie incriminatrice. L’efficacia integratrice della legge extrapenale, come evidenziato in precedenza, viene pervicacemente ribadita sul territorio dell’art. 47, comma 3 c.p., onde rendere praticamente nullo l’effetto esclusivo del dolo derivante da errore su legge diversa da quella penale, che incida su di un elemento normativo della fattispecie. Viceversa, nella prospettiva della successione di leggi nel tempo, legge penale e legge extrapenale tornano a rappresentare, per l’interprete, due entità distinte ed inidonee, come tali, ad “integrarsi” a vicenda, con conseguente irrilevanza di ogni ipotesi di successione “mediata”.
Occorre, poi, in secondo luogo stabilire cosa debba intendersi per “fatto costituente reato” ai sensi dell’art. 2 c.p. e, di conseguenza, individuare se le previsioni ivi previste pongono a base della successione di leggi un fatto costituente (o non più costituente) reato, assumendo come ulteriore punto di riferimento il tempo in cui fu commesso: fatto concreto e fattispecie astratta sono, dunque, due dati logicamente distinti, su cui, in momenti diversi, si valuta l’abolitio criminis eventualmente intervenuta159.
Un orientamento particolarmente meritevole di apprezzamento evidenzia come sia proprio il fatto costituente reato, e non la fattispecie astratta, il nucleo essenziale da cui bisogna partire per risolvere tutte le vicende applicative dell’art. 2 c.p..
Sulla base di tale rilievo, quindi, il fatto che la norma incriminatrice tipizzata dal legislatore non subisca, nel caso di specie, alcuna modifica formale non esclude, che la (diversa) delimitazione della portata concettuale di uno dei suoi elementi essenziali incida in modo rilevante sul suo ambito di effettiva operatività: il concetto di “fatto” a risultare decisivo nella risoluzione della questione, comprende, appunto, l’insieme di tutti i presupposti rilevanti in concreto ai fini dell’applicazione della fattispecie incriminatrice160.
In questa prospettiva, le norme extrapenali richiamate dall’art. 1 del presente testo unico sono chiaramente norme giuridiche integratrici dell’elemento normativo, in quanto incidono in modo assai significativo sull’operatività delle fattispecie penali ivi previste, circoscrivendone, in modo determinante per il caso concreto, l’ambito di estensione161.
Sulla base delle brevi considerazioni svolte non può, pertanto, trovare accoglimento la tesi espressa dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la condizione di cittadino extracomunitario non rientra nel novero di quelle situazioni integratrici della fattispecie criminosa e che, pertanto, la sua modifica non si riflette sulla struttura stessa del precetto penale, con la conseguente inoperatività dell’art. 2, comma 2, c.p.. Il Supremo Collegio, come si è visto, per stabilire se la normativa extrapenale contribuisca a definire il “precetto penale” nella sua astratta dimensione, opera un distinguo all'interno del fatto di reato tra gli elementi che compongono il presupposto e quelli che riguardano la condotta tipica, ritenendo la riconducibilità solo dei secondi alla dimensione precettiva della norma penale. A ben vedere, il percorso motivazionale non chiarisce quale sia il discrimine fra elemento del fatto che contribuisce a definire il precetto penale, delimitandone la portata e ciò che, invece, andrebbe qualificato in termini di mero presupposto della condotta, il quale, pur conferendo significato al precetto (contribuendo ad individuarne il contenuto offensivo), è posto, nondimeno, al di fuori di esso162.
Invero, si deve preliminarmente osservare che l’affermazione dell'estraneità del presupposto al precetto penale non è di per sé idonea ad escluderne una qualsivoglia rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, in quanto l’art. 2, comma 2, c.p. riguarda tutte le norme che definiscono la natura sostanziale o circostanziale del reato, comprese non solo le norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice, bensì anche quelle fonti normative extrapenali primarie costituenti indispensabile presupposto o, comunque, concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto.
Per poter affermare o viceversa escludere la rilevanza della successione indiretta, occorre in primo luogo accertare se la variazione legislativa, che interessa la norma extrapenale richiamata influisca o meno sulla situazione che l’ordinamento intende tutelare.
Lo spirito della legge sull’immigrazione, nel suo complesso, è quello di punire il compimento di tutti gli atti, che, come già evidenziato, realizzano l’ingresso e la permanenza di stranieri in violazione delle norme del presente testo unico. Ne segue che la situazione di illegalità perdura fino a quando il soggetto, che entra o permane contra ius nel territorio nazionale, resti uno straniero nel senso inteso dal suddetto art. 1, mentre la stessa cesserà una volta che questi abbia acquisito la cittadinanza di un Paese appartenente alla U.E..
Il richiamo alla ratio legis, operato anche dalla stessa Corte, sembrerebbe implicitamente confortare l’opinione, secondo cui il mutamento successivo della qualificazione soggettiva faccia venir meno l’antigiuridicità di quelle condotte criminose tenute anche in epoca anteriore, posto che esso dà luogo ad una restrizione del penalmente rilevante limitatamente a quegli stranieri, che nelle more del giudizio o successivamente ad esso siano divenuti cittadini comunitari, con conseguente applicazione dell’art. 129 c.p.p., nonché eliminazione di tutte le sentenze di condanna pronunciate nel periodo della sua vigenza. Sarebbe proprio lo “spirito” della legge ad avvalorare la correttezza giuridica di tale ultima conclusione. In altri termini, essendo le ipotesi delittuose de quibus delimitate soggettivamente, la ratifica del Trattato di adesione alla U.E., al pari delle ratifiche di altri analoghi trattati, che hanno negli anni recenti sancito l’ingresso di numerosi nuovi Stati163, si incorporano nel precetto, in quanto lo completano di dati senza i quali il tipo di illecito non risulta definito164, nel senso che la norma extrapenale individua il contenuto precettivo, concorrendo a contrassegnarne il disvalore165, per cui potrà parlarsi di abolito criminis, se pure “in via mediata”.
L’intera architettura delle disposizioni concernenti l’immigrazione ruota, in sostanza, sul già più volte criticato discrimine fra cittadino comunitario e straniero, e non v’è dubbio alcuno, in ragione del richiamo testuale, che tale distinguo incida sulla punibilità attuale della condotte criminose commesse anteriormente alla modifica della nozione di straniero.
Il concetto di immigrazione clandestina è un concetto unitario dal punto di vista tecnico-giuridico, concernente sia i cittadini di Stati terzi, che entrano in uno Stato membro senza rispettare i requisiti giuridici per l'ingresso, come il visto o i documenti validi di viaggio, sia coloro che restano in uno Stato membro nonostante sia scaduto il proprio permesso di soggiorno, senza aver diritto ad una proroga o un rinnovo di tale titolo. Il carattere di illiceità dell’ingresso o della permanenza è, quindi, un elemento tipizzante, da ricavarsi tenendo conto della normativa extrapenale, che fornisce la nozione di straniero: solo tale illegalità renderebbe antigiuridica una condotta che, altrimenti, si risolverebbe nella mera agevolazione dell'esercizio di un diritto della persona, ossia quello di emigrare da uno Stato membro all’altro.
La norma di cui all’art. 1, stabilendo l’inapplicabilità dell’intero D.Lgs. n. 286 del 1998, dunque anche delle norme penali, al cittadino comunitario, non fa altro che prevedere uno speciale criterio di applicazione delle norme nel tempo, il quale risulta indubbiamente fondato sul presupposto del previsto allargamento dell’Unione europea, ed adottato nell’evidente intento di favorire l’integrazione e di evitare il protrarsi di conseguenze dannose per i cittadini di Stati, in procinto di entrare a far parte della U.E. Diversamente opinando, si determinerebbe una palese e illegittima disparità di trattamento tra i cittadini.
Ne segue che si appalesa ultronea la necessità, evidenziata dalla Corte, di individuare espressamente “i cittadini di uno Stato in attesa di adesione”, quale ulteriore categoria di soggetti da sottrarre dall’ambito di applicazione della normativa contenuta nel T.U. Immigrazione, dal momento che allo stesso risultato si perviene attraverso un’interpretazione adeguatrice della nozione di straniero.
La non appartenenza o appartenenza di un cittadino alle U.E. costituisce il discrimine tra l’applicazione o meno della disciplina contenuta nel suddetto decreto legislativo, che deve essere accertata dal giudice alla stregua di un elemento costitutivo della fattispecie, venendo a partecipare della sua natura. Il rapporto di integrazione fra norma penale ed extrapenale non deve, infatti, essere inteso in senso stretto, risultando la norma extrapenale richiamata del tutto autonoma dalla ratio sottesa al precetto penale. Il criterio discretivo che consente di distinguere i casi di novazione legislativa, che comportano una abolitio criminis da quelli che, invece, la escludono, poggia, in realtà, sulla circostanza che la norma extrapenale contribuisca o meno alla compiuta definizione della fattispecie penale.
Va, poi, ribadito che la disposizione di cui all’art. 2 c.p. non allude ad un fenomeno successorio di natura diretta o mediata, ma richiama l’eventualità che un fatto non integri più gli estremi di un reato in rapporto ad una legge, anche extrapenale, posteriore al momento della sua commissione: come si è già evidenziato, il fatto costituente reato altro non è che il “fatto storicamente determinato in tutti gli aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione di una disposizione incriminatrice”. Pertanto, il principio di retroattività della legge più favorevole ivi stabilito può trovare applicazione, anche se la fattispecie astratta sia rimasta virtualmente immutata.
Come noto, il principio del favor rei enunciato all’art. 2 c.p. corrisponde a due diverse rationes: mentre il principio di irretroattività costituzionalizzato all’art. 25 Cost.166 tende a garantire i cittadini dagli abusi del potere legislativo, la retroattività in bonam partem, pur non trovando espresso riconoscimento a livello costituzionale, è strettamente collegata al principio di uguaglianza sancito all’art. 3 Cost. Come affermato anche dalla Corte Costituzionale, tale legame poggia sulla concezione oggettivistica del diritto penale, accolta “dal complessivo tessuto dei precetti costituzionali” e dal principio di offensività, per cui la pena deve essere posta a presidio di interessi che il legislatore, in quanto “interprete della coscienza sociale”167, si prefigge di tutelare con la sanzione penale. Pertanto, una volta che la legge e, presumibilmente, la coscienza sociale sono mutate, non ha senso punire ancora con la legge più severa in vigore al momento del fatto: la distinzione, pur sussistente, tra rimproverabilità dei fatti commessi nel vigore della precedente norma più severa e rimproverabilità dei medesimi fatti commessi nel vigore della successiva norma più mite, non deve influire, quindi, sul trattamento sanzionatorio.
In quadro normativo del genere, può ben dirsi che sulla configurazione del soggetto attivo dei reati propri in tema di espulsione – ossia sulla qualificazione di un soggetto come “non appartenente all’Unione Europea” - si concentra il disvalore penale del fatto criminoso, il che impone, di fronte alla vicenda normativa relativa all’ingresso di un nuovo Stato nell’Unione, l’applicazione della disciplina ex art. 2 c.p. e, segnatamente, di quella relativa all’abolitio criminis168, in linea con quanto affermato anche dalla sentenza Tuzet, che fornisce alcune importanti coordinate metodologiche per orientare l'interprete in materia di successione mediata169.
Orbene, facendo applicazione di detti principi al caso di specie, non vi è dubbio che la novatio legis incidente sulla qualità di straniero170 non possa non rilevare in favore dei nuovi cittadini comunitari, in virtù del principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2, comma 2, c.p., la cui formulazione letterale è chiara nell’escludere la punibilità per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più reato171.
E’ appena il caso di notare che in alcune sentenze, sulla base del diverso ruolo giocato, nelle varie fattispecie, dallo status di straniero quale elemento normativo, si afferma che il successivo venir meno della suddetta qualificazione incida in modo diverso sull’antigiuridicità delle condotte criminose pregresse, a seconda che la speciale condizione connoti l’autore del fatto oppure la persona offesa dal reato. Essa, infatti, inciderebbe solo in merito alla fattispecie di cui all’art.14, comma 5-ter, che delinea un reato proprio, la cui configurazione ha come necessario presupposto, in capo al soggetto attivo, la qualifica di straniero ai sensi e per gli effetti dell'art. 1, comma 1, T.U. Immigrazione, laddove nei delitti di cui agli artt. 12 e 22, essa costituirebbe il mero presupposto di un reato comune, riguardando, in entrambi i casi, la sola persona offesa dal reato (di cui le norme incriminatrici intendono vietare lo sfruttamento, anche a fini lavorativi), di talché ben se ne può sostenere l’ultrattività dopo che i favoreggiati sono divenuti cittadini dell’Unione.
Invero, tale trattamento differenziato non è auspicabile: non è, infatti, ragionevole ammettere l’avvenuta depenalizzazione dei soli reati propri commessi da cittadini neocomunitari, ma non già di quelli che postulano la qualifica di straniero in capo alle vittime dell'altrui condotta criminosa. Si è del parere che un siffatto modo di ragionare, oltre a porsi in palese contrasto con il principio di uguaglianza, non è, parimenti, corretto dal punto di vista dogmatico, perché o la norma modificata fa corpo con il precetto penale e allora la sua abrogazione fa venir meno anche questo, o essa rappresenta un semplice elemento di concretizzazione del precetto penale e allora la modifica nel frattempo intervenuta è irrilevante per la qualificazione giuridica dei fatti in precedenza commessi, senza che possa essere di rilievo la circostanza che in alcuni casi la nozione di straniero afferisca al soggetto agente, mentre in altri a coloro in danno dei quali il reato viene posto in essere. L'aspetto importante sta, dunque, nella precisazione che, in entrambe le ipotesi, si tratta di un elemento costitutivo del fatto, il cui venir meno implica la mancata integrazione della fattispecie. In sostanza, la tesi preferibile è che si tratti di mutamento dall’indubbia portata generale, estendibile in via di principio, a tutte le fattispecie penali d’immigrazione coinvolgenti, a diverso titolo, cittadini “neocomunitari”.
8.1 Segue: conclusioni
Sulla base delle argomentazioni esposte, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità appare fin troppo severo e contraddittorio sul ruolo svolto dagli elementi normativi all’interno della fattispecie penale.
La decisione delle Sezioni unite in commento presta il fianco a critiche significative, la più rilevante delle quali è che la Corte non individua il discrimine, dogmaticamente fondato, tra mutamento di valore e mutamento fattuale della fattispecie incriminatrice, che si traduca in un criterio seriamente verificabile, alla cui stregua sindacare la correttezza del percorso logico seguito dall’interprete per sostenere o negare l’applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p.172.
La Corte riconosce sì che la materia è di quelle assai discusse, tanto da rendere difficile una pur sintetica indicazione delle varie posizioni emerse nel dibattito, ma anziché procedere ad una loro puntuale disamina, offre una panoramica degli orientamenti giurisprudenziali non tutti, peraltro, direttamente incidenti sulla fattispecie oggetto di giudizio.
Il richiamo alla natura integrativa o meno della norma extrapenale è l'unica indicazione che le Sezioni unite forniscono, ma si tratta appunto di una indicazione generica e tautologica, che non si sostanzia in un criterio logico-giuridico in forza del quale poter accertare in concreto la ricorrenza dell’una o dell’altra ipotesi.
La soluzione ermeneutica adottata dal Supremo Collegio determina conseguenze non condivisibili, nella misura in cui afferma l’irretroattività di una modifica in bonam partem e sottrae al giudice il compito istituzionale di ricostruire il bene protetto dalla fattispecie penale, anche alla luce della normativa sopraggiunta. Fortemente criticabile è, peraltro, l’affermazione secondo cui l’adozione di un’interpretazione “estensiva” è inammissibile in quanto creerebbe larghe sacche di impunità, incoraggiando comportamenti opportunistici173. A tal proposito giova ricordare che le stesse esigenze di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico salvaguardate dal presente testo unico, possono venire altrimenti soddisfatte, senza che sia necessario il ricorso a letture costituzionalmente censurabili dell’art.2 c.p.: può ricordarsi, in via esemplificativa, la recente emanazione del fortemente contestato “decreto-espulsioni” 174, che, a parziale modifica del D.Lgs. n. 30 del 2007, anticipava alcune disposizioni del disegno di legge in materia di sicurezza urbana, facilitando, in sostanza, le espulsioni dei cittadini comunitari175.
Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite, non mancano altri casi di interpretazione opinabili. A differenza di altri sistemi, nel nostro ordinamento il precedente non è mai vincolante e l’effettività della funzione nomofilattica176 non è affidata solo all’autorevolezza dell'organo decidente177, ma anche, anzi soprattutto, alla forza della argomentazione logico-razionale della decisione. Laddove quest'ultima manchi o sia insufficiente non solo è difficile che venga assicurata un’uniforme interpretazione del diritto, ma rischia di risultarne inficiata anche l'autorevolezza della istituzione cui quel compito è affidato. In questo caso non può non rilevarsi come la capacità persuasiva della decisione delle Sezioni unite sia alquanto debole.
Tuttavia, il percorso di affrancamento da tale sentenza, che l’elaborazione pretoria successiva vorrà eventualmente intraprendere, non potrà non tener conto dell'intero corpo di precedenti ora ricondotti a sistema dalla pronuncia in questione. Si è consapevoli che siffatto arresto giurisprudenziale avrà ricadute incisive sulla giurisprudenza di merito, che difficilmente si discosterà da esso nella consapevolezza che una eventuale decisione difforme verrà cassata in sede di legittimità; id est il giudice di merito, al fine di evitare una probabile censura da parte della Suprema Corte, è facile che segua pedissequamente e senza alcun spirito critico i precedenti delle Sezioni unite, limitando notevolmente l’evoluzione giuridica (e giurisprudenziale, in particolare).
Ciononostante, si auspica che la giurisprudenza successiva dia luogo a tale processo di affrancamento, che, valorizzando la funzione di “elemento respiratore” connessa agli elementi normativi della fattispecie, insista per la sicura rilevanza della successione extrapenale, almeno quando essa riguardi norme giuridiche non regolamentari.
Giova ricordare che la posizione favorevole all'applicazione dell'art. 2 c.p. in caso di modifiche “mediate” della legge penale, conseguenti alla successione di norme integrative del precetto penale, costituiva, peraltro, una linea di fondo prevalente nella stessa giurisprudenza di legittimità178 anche recente, secondo cui “l’istituto della successione delle leggi penali nel tempo riguarda le norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato e, conseguentemente, ai fini dell'applicabilità dell'articolo 2, c.p., si deve tenere conto anche di quelle fonti normative che, pur non comprese nel precetto penale, ne integrano tuttavia il contenuto”179.
Decisivo appare, in particolare, il riferimento alle costanti e ripetute applicazioni del principio del disvalore sociale del fatto, quale criterio attuativo del principio di necessaria offensività (art. 49, comma 2, c.p.), in cui si afferma che la modifica di una norma extrapenale può essere sussunta nell’ipotesi di abolitio criminis, ogniqualvolta essa incida sul predetto disvalore, privando la condotta concreta in tutto o in parte del suo necessario contenuto lesivo, avuto riguardo alla ratio puniendi sottesa all’ipotesi di reato contestata; circostanza, questa, puntualmente verificatasi nel caso di specie.
Ciò posto, sembra corretto concludere, che, a seguito della ratifica del trattato di adesione alla U.E., le condotte poste in essere da chi o nei confronti di chi, oggi, non rivesta più la qualifica di straniero, abbiano perso il loro necessario carattere offensivo, essendo venuto meno un elemento essenziale delle fattispecie penali in oggetto, con conseguente operatività dell’istituto successorio di cui all’art. 2, comma 2, c.p..
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1 Lo Stato Italiano con L. 9 gennaio 2006, n. 16, (in G. U., 25 gennaio 2006, n. 20) ha ratificato il Trattato di adesione della Repubblica di Bulgaria e della Romania all’Unione europea, sottoscritto a Lussemburgo il 25 aprile 2005 (in G. U. dell’Unione europea del 21 giugno 2005).
2 L'art.1, comma 2, D. Lgs. n. 286 del 1998 precisa che “il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, se non in quanto si tratti di norme più favorevoli, e salvo il disposto dell'articolo 45 della legge 6 marzo 1998, n. 40”.
3 Il Trattato istitutivo dell’Unione europea agli artt.39-42 ha, peraltro, previsto che, per un periodo transitorio minimo di due anni successivi all’allargamento, ognuno degli Stati membri potrà non applicare nei confronti dei neocittadini comunitari le norme europee sulla libera circolazione dei lavoratori ed applicarne invece di nazionali eventualmente (ma non necessariamente) più restrittive, al fine di scongiurare l’eventualità di un esodo in massa dai nuovi Stati dell'Unione. Relativamente alla situazione italiana, si rende noto che con circolare del 31 luglio 2006, n. 21 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha deciso di porre fine al regime transitorio restrittivo, imposto dal precedente governo con D.P.C.M. 20 aprile 2004 (Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori cittadini dei nuovi Stati membri della UE nel territorio dello Stato per l'anno 2004, in G.U., 3 maggio 2004, n. 102), dando in tal modo piena applicazione al libero ingresso di tutti i cittadini neocomunitari al mercato del lavoro italiano.
4 Cfr. artt. 43 e ss. Trattato CE.
5 Cfr. D. Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 (da ultimo modificato dal D. Lgs., 28 febbraio 2008, n. 32), recante disposizioni sulla libera circolazione ed il soggiorno dei cittadini dell’Unione e i loro familiari nel territorio degli Stati membri, che dà attuazione alla Direttiva comunitaria 2004/38/CE del 29 aprile 2004.
6 Il problema interpretativo ha riguardato non solo la fattispecie delittuosa di cui all’art.12, D. Lgs. n. 286 del 1998, ma anche quella, più ricorrente nelle aule di giustizia, prevista dal successivo art.14, commi 5-ter e 5-quater.
7 Esula dalla presente trattazione l’esame delle ipotesi di violazione del divieto di reingresso (art.13, commi 13 e 13-bis, T.U. Imm.), nonché di assunzione del lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno (art.22, comma 12, T.U. Imm.); alcune delle problematiche ad esse relative verranno, nondimeno, accennate in nota.
8 Ultimamente si registra una aumento della pressione migratoria alle frontiere esterne dell’area esterna a Schengen, in particolare, focolaio dell’immigrazione clandestina sono le coste dell’Italia meridionale, ove si intercetta un numero consistente di persone provenienti dal Corno d'Africa, compresi Sudan, Egitto, Sierra Leone, Costa d'Avorio e Liberia (zone in cui sono spesso in atto guerre civili).
9 Cfr. A. Cassese, Art. 10, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna – Roma, 1975, p. 510, secondo cui la ratio della riserva di legge rinforzata ivi prevista, è insita nella volontà di “sottrarre alla regolamentazione della pubblica amministrazione un campo nel quale l’autorità pubblica del passato regime fascista si era ispirata a bieche ideologie nazionalistiche e xenofobe”, ossia di evitare nella materia “l’arbitrio dell’esecutivo”.
10 Tale legge ha avuto il merito di aver abolito, in materia di asilo politico, la riserva geografica alla Convenzione di Ginevra del 1951, che limitava il riconoscimento dello status ai rifugiati provenienti dall'Europa. Tra i vari punti deboli della normativa l’inefficacia del sistema delle espulsione: cfr., sul punto, A. Caputo, Espulsione e detenzione amministrativa degli stranieri, in Quest. Giust., 1999, p. 426.
11 Cfr. B. Nascimbene, Nuove norme in materia di immigrazione. La legge Bossi - Fini: perplessità e critiche, in Corr. Giur., n. 4, 2003, p. 532-540 e bibliografia ivi citata; Id., Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Il commento, in Dir. Pen. Proc., 1998, p. 421 ss.
12 Tra le misure di contrasto all’immigrazione clandestina si segnalano i nuovi poteri riconosciuti alle forze di polizia in tema di controlli alla frontiera e l’impiego di navi della marina militare in ausilio e supplemento rispetto a quelle in normale servizio di polizia, al fine di fermare e ispezionare le imbarcazioni sospettate di trasportare clandestini. Si prevedono, inoltre, tre ipotesi di espulsione: l’art.13 disciplina la c.d. espulsione amministrativa disposta dal Ministro dell’interno o, su sua delega, dal prefetto, che in seguito all’abrogazione dell’art.13, comma 3-sexies ad opera dell’art.3, comma 7, L., 31 luglio 2005, n. 155, può essere disposta, oltre che nelle ipotesi generali ed in quelle richiamate dal suddetto art.3, L. n. 155 del 2005 (ossia nei casi in cui vi siano fondati motivi di ritenere che la permanenza dello straniero nel territorio nazionale possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali), anche in relazione allo straniero nei cui confronti si proceda per uno dei delitti di cui agli artt.407, comma 2, c.p.p. e 12, T.U. Imm.; l’art.15 prevede la c.d. espulsione a titolo di misura di sicurezza; l’art.16, infine, regola la c.d. espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, le cui eccezioni di illegittimità costituzionale per violazione dell’art.27, comma 3, Cost. sono state respinte dalla Corte Costituzionale con ordd. 15 luglio 2004, n. 226 e 23 dicembre 2004, n. 422, in ragione della ritenuta natura esclusivamente amministrativa della misura.
13 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. III, 23 gennaio 2003, n. 3162, in Giur. It. 2004, p. 1122. Sul piano processuale si ricorda che la legge Bossi-Fini ha previsto il ricorso al giudizio direttissimo anche nei confronti di persone colpevoli di essere rientrate nel territorio dopo essere state colpite da provvedimento di espulsione amministrativa o di non avere ottemperato all’ordine di allontanamento del questore, oltre alla parziale inoperatività della legge sull’ordinamento penitenziario (L., 26 luglio 1975, n. 354) nei confronti degli stranieri, con conseguente estensione agli stessi del regime carcerario previsto per i reati di maggiore gravità. Si segnala, peraltro, in materia di esecuzione della pena detentiva, una recente sentenza delle Sezioni Unite (Corte Cass. Pen., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 14500, in Guida Dir., 2006, n. 22, p. 50), ove si stabilisce che le misure alternative alla detenzione in carcere (nella specie, affidamento in prova al servizio sociale) possono essere applicate anche al cittadino extracomunitario, qualora ricorrano le condizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario.
14 Cfr. F. Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo, in Ind. Pen., n. 1, 2006, p. 181 ss.; Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, 1999; A. Caputo, Immigrazione, diritto penale e sicurezza, in Quest. Giust., numero monografico La libertà delle persone, n. 2-3, 2004, p. 379 ss., a cui si deve l’efficace definizione di “diritto della segregazione”. Sugli effetti negativi ascrivibili alle normative restrittive dei flussi migratori in entrata cfr. il Rapporto del Gruppo di esperti sulla tratta degli esseri umani nominato dalla Commissione Europea, Roma, 2005, consultabile all’indirizzo www.ontheroadonlus.it\pubblicazioni.html. In particolare, è proprio alla mancata adozione di politiche di regolarizzazione e integrazione sociale dei migranti, che si riconduce il coinvolgimento della criminalità organizzata nella attività di gestione illegale dei flussi migratori, caratterizzata da un’alta redditività. In altri termini, è la stessa condizione di clandestinità del migrante, che finisce per costituire un importante fattore criminogeno.
15 Cfr. M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004, p. 53 ss.
16 Anche il sistema di sanzioni amministrative presenta un grado di afflittività talmente alto da avere carattere sostanzialmente penale, apparendo la subordinazione al regime amministrativo meramente funzionale ad eludere le garanzie dello statuto penalistico. In particolare, la misura del trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea (ora denominati “centri di identificazione ed espulsione” dall’art.9, D. L., 23 maggio 2008, n. 92 (meglio noto come “pacchetto sicurezza”, convertito nella L., 24 luglio 2008, n. 125), definita da alcuni magistrati “detenzione amministrativa”, si caratterizza per il suo contenuto afflittivo riconosciuto anche dalla Corte Cost., 10 aprile 2001, n. 105 (in Giur. Cost., 2001, p. 2), che, pur rigettando l’eccezione di costituzionalità stante la limitazione del trattenimento al tempo strettamente necessario all’esecuzione dell’espulsione, ha precisato che tale provvedimento al pari dell’accompagnamento coattivo alla frontiera, deve considerarsi misura incidente sulla libertà personale ai sensi dell’art.13 Cost., il cui carattere di coercitività vale a differenziarlo da misure incidenti unicamente sulla libertà di circolazione. Cfr. C. Longobardo, La disciplina delle espulsioni dei cittadini extracomunitari: presidi penali ed amministrativi al fenomeno dell’immigrazione, in S. Moccia (a cura di), Diritti dell’uomo e sistema penale, II, Napoli, 2002, p. 260.
17 Contro la dilatazione degli strumenti repressivi cfr. F. Favara Relazione sull’amministrazione delle giustizia nell’anno 2004, Bozze di stampa, Roma, 11 gennaio 2005, p. 49-50: “L’efficacia del processo penale è minata alla radice dall’inefficacia della legge penale. In un ordinamento fondato sulla obbligatorietà della legge penale è pertanto contro ogni logica di efficacia l’espansione del diritto penale.”
18 Cfr. Moccia, Dalla tutela dei beni alla tutela delle funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 2, 1995, p. 373 ss.; cfr. A. Caputo, Prime applicazioni delle norme penali della legge Bossi-Fini, in Quest. Giust., n. 1, 2003, p. 126, in base al quale: “I principi e gli scopi dell’ordinamento penale – del diritto e della procedura penale - vengono piegati, asserviti all’attività amministrativa preordinata all’allontanamento del nemico della società, lo straniero”.
19 Cfr. A. Caputo, La libertà personale è uguale per tutti. Corte costituzionale e disciplina dell’immigrazione, in Quest. Giust., n. 5, 2004, p. 1050, che rileva come tuttavia la Corte costituzionale, nella sentenza 15 luglio 2004, n. 223, ha sancito che i provvedimenti di polizia incidenti sulla libertà personale devono avere “natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione”.
20 Occorre fare una precisazione terminologia con riguardo al significato di clandestino ed irregolare: il clandestino è propriamente colui che entra nel territorio dello Stato senza la documentazione richiesta, l’irregolare è colui che, entrato in Italia secondo le prescrizioni di legge, ha in seguito perso i titoli di legittimazione. Nella prassi, come nel presente lavoro, i due termini vengono sovente usati come sinonimi.
21 Cfr. A. Mangiaracina, Brevi note in tema di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, in Giur. Mer., 2005, n. 5, p. 1163; A. Caputo, Favoreggiamento all'emigrazione: questioni interpretative e dubbi di costituzionalità, in Quest. Giust., 2003, p. 1243 ss.; L. Gizzi, Sulla natura giuridica del delitto di agevolazione dell'immigrazione clandestina, in Giur. It., 2003, p. 1012; Pace, I flussi migratori illegali: disciplina penalistica della materia e tecnica delle indagini, anche nella loro dimensione sovranazionale, relazione tenuta al Primo corso di formazione “Falcone e Borsellino”, Frascati, 26-30 aprile 1999, p. 3 (Doc. n. 1830); E. Lanza, La repressione penale dell’immigrazione clandestina, in Dir. Dir., consultabile all’indirizzo http://www.diritto.it/materiali/penale/lanza.html.
22 In realtà non si ha una perfetta corrispondenza con ciò che a livello internazionale si indica col termine smuggling. Nel Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Air and Sea, Supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, all’art.2, ne è data la seguente definizione: “smuggling of migrants shall mean the procurement, in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit, of the illegal entry of a person into a State Party of which the person is not a national or a permanent resident”. In ambito europeo un’analoga definizione è prevista all’art.27 dell’Accordo di Schengen del 19 giugno 1990, contenente l’impegno per le Parti contraenti a “stabilire sanzioni appropriate nei confronti di chiunque aiuti o tenti di aiutare, a scopo di lucro, uno straniero a entrare o soggiornare nel territorio di una Parte contraente in violazione della legislazione di detta Parte contraente relativa all’ingresso e al soggiorno degli stranieri”. Per un quadro d’insieme in Italia, alla luce della recente legge 16 marzo 2006, n. 146, di ratifica della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001, cfr. G. De Amicis, O. Villoni, La ratifica della Convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale e dei suoi protocolli addizionali, in Giur. Mer., 2006, doc. 323, p. 1626 ss.; A. Di Martino, Criminalità organizzata e reato transnazionale, diritto penale nazionale: l’attuazione in Italia della cd. Convenzione di Palermo, in Dir. Proc. Pen, n. 1, 2007, p. 11 e ss.
23 Cfr. il Protocol to prevent, suppress and punish trafficking in persons, especially women and children, che si occupa della tratta a scopo di sfruttamento.
24 Come già evidenziato, il traffico di migranti è un’attività criminale spesso gestita dal crimine organizzato. La normativa penale previgente è stato rinnovata e adeguata agli standards internazionali ed europei con la L., 11 agosto 2003, n. 228 (in G.U., 23 agosto 2003, n. 195), che ha apportato importanti modifiche sul piano sostanziale e processuale, nonché sull’organizzazione delle competenze e degli uffici responsabili in questo settore, riformulando le fattispecie penali di cui agli artt.600, 601, 602 c.p., aventi ad oggetto la tratta e la riduzione in schiavitù, alla luce delle nuove esigenze emerse in questi ultimi anni. In epoca anteriore all’adozione della nuova legge, la giurisprudenza aveva preferito punire i comportamenti legati a tale fenomeno criminale facendo applicazione di reati, quali il reato di sfruttamento della prostituzione di cui alla L., 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. legge Merlin), il sequestro di persona, la violenza sessuale, la minaccia e la violenza privata, nonché di associazione a delinquere, anche di tipo mafioso. Un aspetto, però, merita di essere segnalato: l’art.12, T.U. Imm. prevede (in specie quella indicata al comma 3-ter) ipotesi di traffico di persone, in parte non dissimili da quelle di tratta (come definita nel Protocollo contro il trafficking), e di norma riconducibili ai medesimi ambienti di criminalità organizzata transnazionale, a cui, però, non sono applicabili le menzionate innovazioni legislative (come, ad esempio, l’attribuzione della “competenza” alle Direzioni distrettuali antimafia e la disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia), benché l’Italia abbia sottoscritto l’impegno ad adottarle in quanto previste dalla citata Convenzione della Nazioni Unite e dai Protocolli addizionali. In particolare, l’art.12 cit. non viene ricompreso nell’ambito di applicazione degli artt.51, comma 3-bis, c.p.p. e 416, comma 6, c.p. Tra le prime applicazioni giurisprudenziali in materia di riduzione in schiavitù cfr. Corte Cass., Sez. VI, 4 gennaio 2005, n. 82, ove il Supremo Collegio stabilisce che la nuova formulazione dell’art.600 c.p. non ha apportato alcuna significativa innovazione alla descrizione del fatto tipico, sia che si fondi l’accertamento sulla continuità del tipo di illecito o sul criterio dei rapporti strutturali (cfr. infra), dando così luogo ad un fenomeno di mera modificazione di norme penali ex art.2, comma 4, c.p., e non ad un fenomeno di abrogazione della precedente incriminazione rilevante ai sensi dell’art.2, comma 2, c.p.
25 La necessità di distinguere i due fenomeni nasce soprattutto dal fatto che le due attività sono affidate a diverse agenzie di law enforcement, diversi organismi di polizia o diverse branche operative all’interno dello stesso organismo. In Italia, la competenza per il coordinamento delle attività investigative in materia di traffico finalizzato allo sfruttamento è esercitata, a livello centrale, dalla Direzione centrale della polizia criminale, presso il Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, mentre le analoghe funzioni riferite alle attività di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono svolte, invece, dal Servizio stranieri, collocato all’interno dello stesso Dipartimento di pubblica sicurezza. Questa ripartizione delle funzioni e delle competenze trae origine da considerazioni di ordine storico (l’immigrazione clandestina nasce come problema di ordine pubblico) e burocratico-organizzativo (la lotta alle organizzazioni criminali dedite al trafficking richiede spesso risorse investigative e tecnologiche superiori). In alcuni casi, tuttavia, da tale suddivisione deriva un grado insufficiente di coordinamento tra le due strutture, sia sul versante dell’analisi strategica, sia su quello operativo, che sembra essere di ostacolo ad una comprensione corretta e organica delle dinamiche criminali collegate al traffico.
26 Trattasi di innovazione che in parte si adegua al contenuto del Protocollo addizionale della Convenzione della Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria già citata. Sul tema, cfr. E. Rosi, La tratta di persone ed il traffico di migranti. Gli strumenti internazionali, in Cass. Pen., 2001, n. 6, p. 731 ss.; Id., Le misure internazionali per la lotta contro le forme di criminalità connesse al fenomeno migratorio, in Riv. Giur. Circ. Trasp., 2002, n. 2, p. 178 ss.
27 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. III, 28 novembre 2002 – 23 gennaio 2003, n. 3162, cit.
28 Sono, pertanto, da escludere ipotesi di imputazione a titolo di concorso nel delitto di favoreggiamento dello straniero favorito, anche qualora sia riscontrabile una partecipazione consensuale e volontaria: in questo senso cfr. M. Cerase, Riformata la disciplina dell’immigrazione: le novità della “Legge Bossi-Fini”, in Dir. Pen. Proc., n. 11, 2002, p. 1347.
29 A tal proposito appare opportuno segnalare che l’art.21 del d.d.l. (A.C. 2180), approvato dal Senato il 5 febbraio 2009 (A.S. 733), contenente (le ennesime) disposizioni in materia di pubblica sicurezza, prevede il nuovo reato di ingresso illegale, punibile con l’ammenda (il testo è consultabile all’indirizzo http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?PDL=2180). Ma progetti di legge volti alla criminalizzazione di tale condotta non sono mancati anche in periodo anteriore: già in sede di conversione del D. L. n. 241 del 2004, Luigi Bobbio, relatore del provvedimento, aveva presentato e poi ritirato un emendamento che prevedeva l’introduzione del reato di ingresso clandestino; nello stesso senso cfr. il d.d.l. n. 3911, presentato al Senato il 20 aprile 1999 dal sen. Mantica; il p.d.l. n. 5392, presentato alla Camera dei Deputati in data 11 novembre 1998 dall’on. Carlesi, nonchè la proposta di legge n. 5808, d’iniziativa dell’on. Fini ed altri, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 1999.
30 Interessante segnalare Corte Cass. Pen., Sez. Un., 27 novembre 2003, n. 45801, la quale ha chiarito che lo stato di clandestinità dello straniero non costituisce giustificato motivo per la mancata esibizione dei documenti, chiarendo così un contrasto interpretativo sorto in riferimento all’art.3, comma 6, D. Lgs. n. 286 del 1998, essendo il destinatario della norma lo straniero in genere, quindi anche quello che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato.
31 Stesse perplessità suscita la previsione di cui all’art.3, n. 8, L. 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. Legge Merlin), che disciplina il delitto di favoreggiamento della prostituzione, che, al pari dell’ingresso clandestino, non costituisce reato. Per una rassegna di condotte rientranti nella fattispecie e per la definizione del contributo minimo ai fini della consumazione del reato, cfr. S. Ardita, Il favoreggiamento della prostituzione tra ambiguità del sistema ed ampiezza della lettera della legge: l'ipotesi dell'accompagnamento sul luogo dell'adescamento, in Cass. Pen., 2002, n. 2, p. 509; più di recente, cfr., per tutte, Corte Cass., Sez. III, 21 gennaio 2005, n. 1716, che ribadisce come non commette favoreggiamento della prostituzione il cliente che riaccompagni la prostituta nel luogo dell’iniziale adescamento o almeno, aggiungono i giudici di legittimità, “non la favorisce più di quanto non faccia la consumazione stessa del congresso carnale, che tuttavia nessuno (ancora) è arrivato a imputare al cliente come favoreggiamento della prostituzione”.
32 A titolo esemplificativo si ricorda che l’art.12, comma 2, sancisce che non sono punite le attività di soccorso ed assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato, con ciò indicano alcuni casi di esclusione dell’antigiuridicità del fatto. Anche la norma de qua ha suscitato qualche dubbio. Innanzitutto ne è stata lamentata l’ultroneità, per essere i fatti scriminabili ai sensi dell’art.12, comma 2, già comunque esenti da reazione penale in virtù dell’esimente generale di cui all’art.54 c.p. Invero, tale previsione è più elastica di quella di cui al richiamato art.54 c.p. e consente di scriminare anche quelle condotte occasionate da esigenze umanitarie, quand’anche non siano realizzati i parametri della “costrizione”, “necessità” e “inevitabilità altrimenti del pericolo” previsti dalla esimente generale per delimitare il proprio ambito di operatività. Ma ciò che ha destato maggior perplessità è la stessa collocazione della disposizione, atteso che essa non pare introdurre un’eccezione alla regola di cui all’art.12, comma 1, bensì dell’ipotesi di cui al successivo comma 5, presupponendo la causa di giustificazione de qua la presenza nel territorio. Vi è da dire, d’altro canto, che il dolo specifico del fine di trarre profitto caratterizzante il delitto di agevolazione della permanenza sia già di per sé idoneo ad escludere lo scopo umanitario di cui al comma 2, come anche le diverse attività punite nello stesso articolo (cfr. E. Lanza, La repressione, cit.).
33 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 16 gennaio 2008, n. 4123, ove si stabilisce che il delitto di cui all’art.12, comma 1, T.U. Imm. è reato di pericolo che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a favorire l’ingresso in altro Stato, senza che abbia alcuna rilevanza la durata della permanenza o la destinazione finale, a meno che non risulti provato che lo straniero clandestino sia diretto al proprio paese di origine. Tale prova non può consistere nelle sole dichiarazioni dei trasportati, sorpresi in transito nel territorio italiano, bensì deve essere valutata in relazione ad elementi che dimostrino la finalità ed i motivi del viaggio (ad esempio, i titoli di viaggio per il successivo percorso), con conseguente onere di allegazione per l’imputato (conformi Id., 20 giugno 2007, n. 29728; Id., 15 giugno 2007, n. 33232, in Cass. Pen., 2008, n. 6, p. 2598; Id., 26 ottobre 2006, n. 42117; Id., 24 gennaio 2006, n. 14545). Contra cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 3 ottobre 2008, n. 38936, secondo cui il delitto in argomento ha natura di reato di pericolo o a consumazione anticipata, che si perfeziona per il solo fatto che siano compiuti atti diretti a favorire l'ingresso, a prescindere dall'effettività, durata e finalità dell'ingresso medesimo, in quest'ultima incluso il mero transito con destinazione finale il Paese di origine della persona stessa (in senso adesivo Id., 23 settembre 2008, n. 38159; Id., 28 febbraio 2008, n. 11702; Id., 28 febbraio 2008, n. 10716; Id., 31 gennaio 2008, n. 6398; Id., 6 ottobre 2006, n. 34053; Id., 25 gennaio 2005, n. 4201).
34 Il giudice dovrà accertare, caso per caso, l’idoneità della condotta al raggiungimento dello scopo e, dunque, la sussistenza o meno di quella esposizione al pericolo per il bene protetto, che fonda la rilevanza penale della condotta (cfr. A. Caputo, Diritto e Procedura Penale dell’immigrazione, Giappichelli, 2006).
35 A tale riguardo è possibile registrare orientamenti giurisprudenziali difformi. Secondo una prima tesi, modalità “formalmente regolari” dell’ingresso non sono di ostacolo al perfezionamento del delitto di favoreggiamento dell’ingresso illegale (cfr. Corte Cass. Pen., Sez. VI, 16 dicembre 2004 – 9 marzo 2005, n. 9233); secondo un più condivisibile orientamento, invece, “la condotta penalmente rilevante prevista dalla norma in esame è esclusivamente quella tesa a favorire l’ingresso dello straniero in violazione delle norme del testo unico, cioè in assenza di valido documento legittimante l’ingresso o in presenza di documento ottenuto con artifici o in modo illecito (e non anche quella di chi favorisce l’ingresso dello Stato di persona munita di regolare visto, a nulla rilevando i progetti, le intenzioni o le speranze di quest’ultima in ipotesi difformi da quanto consentito dal visto)”: così Corte Cass., Sez. I, 21 ottobre 2004 – 22 dicembre 2004, n. 49258.
36 Cfr. A. Callaioli, M. Cerase, Il Testo Unico delle disposizioni sull’immigrazione, in Leg. Pen., n. 1-2, 1999; A. Caputo, Immigrazione, diritto penale e sicurezza, cit., p. 368 ss.
37 Cfr. Trib. Torino, ord. 17 marzo 2004, con cui il giudice dell’udienza preliminare solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art.12, comma 1, nella parte in cui punisce chi compie atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, in relazione ai principi di determinatezza e riserva di legge in materia penale di cui all’art.25, comma 2, Cost., nonché di libera immigrazione ex art.35, comma 4, Cost. Trattasi per il giudice a quo di una norma penale in bianco, non precisando, infatti, il parametro normativo, alla cui stregua condurre il giudizio di illegalità dell’ingresso stesso. Dovendosi escludere la possibilità di identificarlo con la disciplina dell’ordinamento italiano (non potendo essa dettare le condizioni di legalità dell’ingresso in altro Paese), il parametro di illegalità dell’ingresso nel territorio dello Stato estero (di cui la persona ‘‘non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”), sembra doversi identificare con la disciplina dello Stato di destinazione, che regoli la materia, con integrale assorbimento del precetto, quindi, nella normativa estera di riferimento, e con la conseguente denazionalizzazione dell’offesa, parallela all’internazionalizzazione dell’oggettività giuridica sottesa alla norma. La Consulta non entra nel merito della questione sottopostagli, osservando che, successivamente all’ordinanza, il quadro legislativo di riferimento è stato ulteriormente modificato ad opera della legge n. 271 del 2004, di conversione del D. L. n. 241 del 2004. Con ordinanza 29 dicembre 2004, n. 445 (con nota di Natalini, Clandestini e favoreggiamento, si cambia - Previste due fattispecie e tante aggravanti, in Dir. Giust., 2005, n. 4, p. 36), pertanto, restituisce gli atti al giudice de quo al fine di una rivalutazione ex novo della sussistenza della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione con riferimento anche allo ius superveniens. La novella non ha inciso sull’elemento specializzante dell’illegalità contenuto nella sottospecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in esame, lasciando così insuperati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dall’ordinanza di rimessione.
38 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 8 maggio 2002 – 5 giugno 2002, n. 22741, Galgano, in Riv. Pen., 2002, p. 669, che, nel respingere la questione di legittimità costituzionale sollevata sul punto, precisa come per ingresso illegale debba intendersi quello avvenuto in violazione delle norme del T.U., nonché nelle ipotesi “in cui il visto di ingresso sia richiesto ed eventualmente ottenuto fraudolentemente e mediante simulazione dei prescritti requisiti”.
39 Così Corte Cass. Pen., Sez. I, 8 maggio - 5 giugno 2002, n. 22741, cit.
40 La giurisprudenza delinea la figura in esame come reato istantaneo e di pericolo astratto, che si perfeziona nel momento in cui vengono posti in essere atti e attività che in qualsiasi modo agevolino l'ingresso irregolare dei clandestini nel territorio nazionale non essendo necessaria l'esistenza di una violenza fisica o psichica (cfr. Corte Cass. Pen., 28 novembre 2002 – 23 gennaio 2003, n. 3162, Hoxha, in Cass. Pen., 2003, p. 1876).
41 Cfr. L. Gizzi , Sulla natura giuridica del delitto, cit., p. 1016. Osserva l'Autore che il soggetto agente deve porre in essere condizioni concretamente favorevoli, che appaiano cioè effettivamente capaci di consentire tale ingresso clandestino di stranieri in territorio italiano. Nel senso che la nuova formulazione abbia determinato una restrizione delle condotte punibili, Trib. Marsala, 12 gennaio 2004, in Giur. It., 2004, II, p. 719.
42 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 8 marzo 2000 – 9 giugno 2000, n. 1744, in Cass. Pen., 2001, 1925.
43 In tal senso, Trib. Gorizia, 19 giugno 1999, in Dir. Imm. Citt., 1999, n. 3, p. 179 ss.
44 Giova ricordare che tale disposizione è stata elevata a fattispecie autonoma con la novella del 2002, l’originaria formulazione prevedendo solo una mera circostanza aggravante ad effetto speciale rispetto all’ipotesi del favoreggiamento di cui al comma 1 (cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 4 dicembre 2000, n. 5360, Vishe, in Cass. Pen., 2001, 3180).
45 La L. n. 271 del 2004, varata all'indomani della bocciatura da parte della Consulta (sentenze 15 luglio 2004, nn. 222 e 223) di alcune norme della Legge Bossi-Fini, relativamente alle mancate garanzie difensive nel procedimento amministrativo di convalida delle espulsioni e all'illegittimità dell'arresto obbligatorio in flagranza per le ipotesi contravvenzionali di trattenimento clandestino, inasprisce le sanzioni previste per le figure di favoreggiamento e sfruttamento dell'ingresso clandestino di stranieri in Italia o in altri Paesi dei quali la persona non sia cittadina. La ratio ispiratrice sembra essere quella di riequilibrare verso l'alto le pene previste per queste fattispecie, anche in conseguenza degli aumenti di pena compiuti sulle ipotesi di trattenimento senza giustificato motivo (art.14, commi 5-ter e 5-quater), elevate da contravvenzioni (come tali inidonee all'applicazione di misure custodiali) a delitti.
46 Il concetto di profitto quale aspettativa di arricchimento futuro al termine di un azione economica è più ampio di quello di lucro previsto nella precedente formulazione.
47 Da ultimo modificato dal D. L. n. 92 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 125 del 2005. Per la nuova ipotesi di reato prevista dal successivo comma 5-bis (anch’esso introdotto dal “pacchetto sicurezza” in argomento) cfr. infra nt. n. 59.
48 Cfr. Caputo, Diritto e procedura, cit., p. 78; Bricola, voce Teoria Generale del Reato, in Noviss. Dig. It., Vol. XIX, Utet, Torino, 1973, p. 87.
49 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 4 dicembre 2000, n. 5360.
50 Il concetto di flagranza dovrebbe essere individuato ai sensi dell’art.382 c.p.p.
51 Si amplia così il novero delle ipotesi in cui ai sensi dell’art.240, comma 2, c.p. la confisca è sempre obbligatoria, andando a colpire in maniera più diretta l’attività svolta dalle organizzazioni criminali dedite al traffico degli stranieri sia in Italia che all’estero. Un’ulteriore ipotesi di confisca obbligatoria è, peraltro, prevista al successivo comma 5-bis (nella specie dell’immobile).
52 Cfr. G. Della Monica, Il giudizio direttissimo dinanzi al tribunale ordinario in composizione monocratica, in Aa.Vv., Le recenti modifiche al codice di procedura penale, Vol. III, in Le innovazioni in tema di riti alternativi, a cura di R. Normando, Milano, 2000, p. 207, che auspica una “riorganizzazione sistematica dell'intera disciplina”. Nel senso che la soluzione normativa di prevedere l'obbligatorietà dell'arresto in flagranza e del rito direttissimo appare inspirata più “da contingenti preoccupazioni di efficienza che dallo sforzo di individuare risposte conformi ai principi generali”, non giustificate in una materia di portata sopranazionale, quale quella della lotta contro l'immigrazione clandestina. Cfr., altresì, A. Casadonte , Capitolo III, Ingresso, soggiorno e allontanamento, Sezione II, Profili penalistici, in Aa.Vv., Il diritto degli stranieri, a cura di B. Nascimbene, Cedam, 2004, p. 672.
53 Che ha introdotto un’ipotesi aggravata di favoreggiamento, qualificabile come circostanza aggravante ad effetto speciale analogamente a quanto previamente osservato con riguardo all’art.12, commi 3-bis e 3-ter, “quando il fatto è commesso in concorso da due o più persone, ovvero riguarda la permanenza di cinque o più persone”.
54 Sulla distinzione già tratteggiata fra i due concetti di trafficking of human beings e smuggling of migrants, cfr. anche l’analisi comparativa in EUROPOL (ed.), Legislation on Trafficking in Human Beings and Illegal Immigrant Smuggling, Bruxelles 2005, in specie 8 ss. (www.europol.eu.int).
55 Dal confluire di più norme incriminatrici nei confronti di un medesimo fatto emerge, come noto, la necessità di individuare i criteri (specialità, sussidiarietà, assorbimento), che consentano di accertare la realtà o l'apparenza di un concorso di reati. Nel caso di specie, lo stesso legislatore ha espressamente previsto il criterio della sussidiarietà come canone ermeneutico per la risoluzione del concorso apparente tra l'art.12, comma 5, T.U. Imm. e l'art.600 c.p. Dati i confini abbastanza fluidi delle due attività, vi è da dire, comunque, che la prima ipotesi delittuosa trova generalmente applicazione, qualora risulti difficile provare il delitto di tratta di persone a scopo di sfruttamento.
56 Cfr. D. Pulitanò, Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Giuffrè, Milano, 1984.
57 Cfr., in tal senso, Trib. Monza, 6 - 13 dicembre 1999, in Dir. Imm. Citt., 2000, n. 3, p. 156-157. Sul piano interpretativo si è posto altresì il problema di distinguere l’ipotesi in esame con la previsione di cui all’art.22, comma 12, che punisce “il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato”, con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato (pene ora sostituite con la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa di 5.000 euro dal D.L. n. 92 del 2008, che trovano applicazione anche nell’ipotesi di lavoro stagionale in virtù del rinvio operato dall’art.24, comma 6, alla suddetta norma. La novella, ha, quindi determinato la trasformazione delle due fattispecie contravvenzionali in delitti). L’impiego di manovalanza clandestina è assai frequente, il datore di lavoro che sfrutta il lavoratore irregolare sottopagandolo e non versando i contributi pone in essere una condotta agevolatrice della sua permanenza. In realtà, le due fattispecie non sono coincidenti, nel reato di cui all’art.22, comma 12, non si richiede il dolo specifico, assenza che dà ragione della maggior pericolosità della condotta di chi agevola la permanenza di stranieri irregolari per approfittarne ingiustamente rispetto all’ipotesi contravvenzionale del datore di lavoro, (sempre) che non persegua tale finalità.
58 Cfr. Trib. Gorizia, sentenza 19 giugno 1999, cit.
59 Secondo alcuni interpreti l’ambito di operatività della norma dovrebbe venire circoscritto ai soli casi in cui, in presenza del dolo specifico, la condotta di agevolazione abbia riguardato la permanenza di chi, entrato regolarmente in Italia, abbia, poi, perso i titoli di legittimazione. Essendo il presupposto del reato l’ingresso irregolare dello straniero, la norma si colloca a completamento della tutela del bene tutelato, quando la sua lesione derivi da condotte ulteriori rispetto alla mera agevolazione dell’ingresso: cfr. E. Lanza, La repressione, cit.; P. Zaccaria, Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina alla luce delle modifiche apportate al T.U. 286/1998 dalla L. 189/2002, in Rass. Arma Carab., 2003, n. 2, p. 170 ss.; A. Caputo, Diritto e procedura, cit. Tale lettura riceve, peraltro, conferma dal nuovo illecito delittuoso di cui all’art.12, comma 5-bis, introdotto dal più volte menzionato “pacchetto sicurezza”, che punisce “chiunque a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ad uno straniero, privo di titolo di soggiorno in un immobile di cui abbia disponibilità, ovvero lo cede allo stesso, anche in locazione”. La norma, infatti, sembrerebbe dettare un’ipotesi specifica di favoreggiamento alla permanenza non solo dell’immigrato clandestino, espulso od allontanato, ma anche di colui, cui venga annullato o revocato, per qualsiasi motivo, il permesso di soggiorno. Si ritiene, invero, che tale previsione sia del tutto superflua, in quanto la condotta ivi descritta può essere agevolmente ascritta, in via interpretativa, al generico favoreggiamento di cui al comma 5 in commento. A diversa conclusione si sarebbe potuti pervenire, se in sede di conversione del suddetto decreto fosse stato mantenuto il testo originario della fattispecie incriminatrice, che richiedeva il solo dolo generico: per i fatti rientranti nell’odierna previsione, la giurisprudenza escludeva la generalizzata ricorrenza del delitto di cui all’art.12, comma 5 proprio per mancanza del richiesto dolo specifico, consistente nella finalità di trarre ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero clandestino (cfr., sul punto, Corte Cass. Pen., Sez. I, 29 novembre 2006, n. 40398, secondo cui la condotta di chi fornisce alloggio o cede un immobile a cittadini extracomunitari irregolari integra l’ipotesi criminosa ex art.12, comma 5, solo se “dalla stipula del contratto l’imputato intenda trarre un indebito vantaggio dalla condizione di illegalità in cui si trova lo straniero, sempre in relazione a quel particolare rapporto sinallagmatico”).
60 Le fattispecie in questione muniscono di sanzione penale la disciplina dell’allontanamento e della riammissione dello straniero, nonché i relativi provvedimenti espulsivi ed autorizzativi.
61 Cfr. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 5, con cui viene dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.14, comma 5-ter, sollevata in ragione della scarsa determinatezza della formula “senza giustificato motivo”. La Corte ritiene che la manifesta indigenza dello straniero (cfr., da ultimo, Trib. Rovereto, 1 ottobre 2008), ovvero il ricovero ospedaliero in atto di un prossimo congiunto possano costituire causa di giustificazione all’inosservanza dell’ordine di espulsione. In merito alla ripartizione dell’onus probandi circa la sussistenza del giustificato motivo si stabilisce, poi, che sullo straniero grava un mero onere di allegazione dei motivi non conosciuti o conoscibili dal giudice, “fermo restando il potere-dovere del giudice di rilevare direttamente, quando possibile, l'esistenza di ragioni legittimanti l'inosservanza del precetto penale”; si ritiene, inoltre, che sia compito del giudice verificare caso per caso se l’atto sia stato effettivamente tradotto in una lingua comprensibile all’intimato, e se il significato dell’ordine e le conseguenze della sua violazione siano stati comprese dallo straniero. Nell’ipotesi della non intellegibilità dell’ordine da parte di chi ignori la lingua in cui l’atto è tradotto, va escluso l’elemento psicologico del reato (cfr. Trib. Bologna, 27 settembre 2002, giud. Betti, in cui si accerta la violazione della disciplina legislativa in materia di traduzione degli atti ex art.13, comma 7, T.U. Imm.). Va, altresì, rilevato che la Consulta, chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla questione di compatibilità costituzionale della suddetta locuzione, l’ha dichiarata manifestamente inammissibile con ord. 17 dicembre 2008, n. 417, in quanto “non risultano essere stati addotti nuovi profili di censura, diversi da quelli già scrutinati” con la citata sent. n. 5 del 2004. Con riguardo, poi, alla compatibilità di tale onere di allegazione e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato sancita all’art.27, comma 2, Cost., vi è da dire, che anche se apparentemente l’accollo di oneri probatori in capo all’imputato circa gli elementi a lui favorevoli sembra contrastare con tale presunzione, in realtà esso non è che la naturale conseguenza della partecipazione della difesa in punto di prova ex art.24, comma 2, Cost. Incombe sulle parti, dunque, l’onere di provare i fatti favorevoli e di falsificare gli elementi sfavorevoli addotti dalla controparte in dibattimento, sede in cui si forma la prova (cfr. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, 1979, p. 136; Paulesu, Presunzione di non colpevolezza, in Dig. Disc. Pen., Vol. IX, Utet, 1995; Siracusano, Diritto processuale penale, Giuffrè, 2004).
62 Si segnala a tale riguardo Corte Cass. Pen., Sez. I, 15 marzo 2006, n. 9120, secondo cui l'accompagnamento dello straniero alla frontiera è l'unica forma di esecuzione di un nuovo provvedimento di espulsione adottato nei confronti dello straniero clandestino, che sia stato già condannato per non avere volontariamente ottemperato all'ordine di allontanamento del questore; ne deriva che nei confronti dello straniero sottoposto a giudizio con rito direttissimo, in stato di arresto o libero, il questore deve disporre il trattenimento presso un centro di permanenza temporanea, in vista dell'esecuzione dell'espulsione a mezzo della forza pubblica.
63 Tale ultima disposizione è stata interpretata nel senso di considerare integrata l’ipotesi delittuosa del reingresso illegale nel territorio dello Stato, solo qualora si sia già avuta l’effettiva esecuzione di un precedente provvedimento di espulsione coattiva e non anche nel caso di inottemperanza di un ordine di espulsione reiterato, e cioè adottato a mente dell’ultima parte dell’art.14, comma 5-ter (cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 30 ottobre 2003, n. 41304, Dudic, in Riv. Pen., 2004, p. 28).
64 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez I, 18 dicembre 2007, n. 1479, secondo cui non integra il reato in esame la condotta dello straniero, che si sia trattenuto in Italia successivamente all'ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni, emesso a seguito di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno, atteso che tale provvedimento di diniego non può essere equiparato a quello di revoca o di annullamento del medesimo, a ciò ostando il divieto di applicazione analogica in materia penale (conformi Id., 7 dicembre 2008, n. 244; Id., 11 maggio 2006 n. 31426). In senso difforme, cfr. Id., 16 novembre 2007, n. 45517.
65 Tale ordine ha quale suo antecedente logico il decreto di espulsione emesso da Prefetto, che dichiara l'irregolarità della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art.13, comma 2; cfr. però, Corte Cass. Pen., Sez. I, 19 gennaio 2007, 9826, in Cass. Pen., 2008, n. 6, p. 2598, secondo cui integra il reato in esame “l'ingiustificata inosservanza dell'ordine di allontanamento del Questore che trovi il suo presupposto nel respingimento di cui all'art. 10 del citato” T.U. Imm.
66 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 28 marzo 2006, n. 13314, con nota di Abukar Hayo, La motivazione dell'ordine di allontanamento del questore, in Cass. Pen., 2007, 1, 249. Le tre opzioni esecutive (accompagnamento immediato alla frontiera, soggiorno in un C.P.T. (ora C.I.E.), ordine di allontanamento entro cinque giorni) si inseriscono in un ordine di priorità, prefissato dal legislatore. Ergo ogni passaggio della sequenza deve essere motivato. Deve essere chiaro perché non è stata possibile la prima opzione, se si fa luogo alla seconda; e perché non sono state possibili la prima e la seconda, se si fa luogo alla terza. Solo in questo modo l'autorità amministrativa rispetta la voluntas legis e rende possibile il controllo di legittimità dei suoi atti. In tema di legittimità del provvedimento del Questore che intima allo straniero di allontanarsi ex art.14, comma 5-bis, la giurisprudenza di legittimità più recente (cfr. Corte Cass. Pen. Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 394; Id., 28 febbraio 2008, n. 11714, cit.; Id., 11 gennaio 2007, n. 11489; Id., Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 2451; Id., Sez. I, 28 settembre 2007, n. 38679; Id., 12 aprile 2006, n. 15259), sembrerebbe aver operato un renvirement di quell’orientamento più risalente, secondo cui sia fini della convalida dell'arresto obbligatorio in flagranza, sia ai fini della configurabilità del reati di cui all'art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, non è necessario che siffatto ordine espliciti le dettagliate ragioni che, ad esempio, hanno impedito il suo trattenimento presso un centro di permanenza temporanea (ora di identificazione ed espulsione) più vicino, nè rileva che la motivazione del provvedimento costituisca, in parte, la ripetizione della formula normativa, se non vi è necessità di specificazioni concrete (cfr., per tutte, Corte Cass. Pen., 23 novembre 2003 n. 40299), stabilendosi, ora, che “gli ordini di allontanamento a carattere intimatorio devono fare espresso riferimento alle ragioni specifiche che rendono impossibile la permanenza dello straniero nei centri di permanenza temporanea, chiarendo se il motivo è proprio il sovraffollamento delle strutture, ...non bastando ... che il decreto si limiti a riprodurre letteralmente la formula della legge”. L’ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale costituisce per lo straniero modalità meno gravosa ed afflittiva rispetto al suo immediato accompagnamento coattivo alla frontiera a mezzo della forza pubblica o al suo trattenimento presso un centro di accoglienza in vista del suo successivo accompagnamento coattivo, anche se indicati in via preferenziale dalla legge come modalità esecutive (in questo senso cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 22 luglio 2005 n. 27429, Belbettah, in Cass. Pen., 2006, n. 10, p. 3336; Corte Cost., 10 aprile 2001, n. 105, cit.).
67 M. Pavone, Note in tema di illecito trattenimento del cittadino straniero espulso, consultabile all’indirizzo www.filodiritto.com.
68 Cfr. A. Caputo, nota a Corte Cass. Pen., 2 agosto 2005, n. 29221, in Dir. Iimm. Citt., 2006, 2, p. 194.
69 Cfr A. Caputo, op. loc. cit. In dottrina cfr., altresì, M. Gambardella, I reati in materia di immigrazione dopo la legge Bossi-Fini, in Aa.Vv. La condizione giuridica dell’immigrato. Normativa, dottrina, giurisprudenza, in Giur. Merito, suppl. al n. 7-8, 2004, p. 106; A. Casadonte, Profili penalistici, in Aa.Vv. (a cura di B. Nascimbene), Diritto degli stranieri, cit., p. 683. In giurisprudenza, sul potere del giudice di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi, che costituiscono il presupposto di condotte penalmente sanzionate (da ravvisare, in primis, nell'ordine del questore ex art. 14, comma 5-bis, poi, nel preventivo decreto di espulsione prefettizio) e, di conseguenza, assolvere il soggetto incriminato per insussistenza del fatto, cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, Sez. I, 26 maggio 2006, Hu Li, Guida Dir., 2006, n. 35, p. 84; Id., 4 maggio 2006, Nefzi, ivi, 2006, n. 31, p. 82; Trib. Bologna 21 giugno 2004, n. 972, ivi, 2004, n. 39, p. 92. In senso contrario cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 23 ottobre 2003, Fedi, in Riv. Pen., 2004, p. 192; Sez. I, 25 ottobre 2004, Vera Contreras, in Guida Dir., 2004, n. 47, p. 91, ove si esclude che possano essere sollevati in sede penale presunti vizi dell’atto amministrativo presupposto. Con precipuo riferimento al provvedimento prefettizio, si assiste ad un’ulteriore divaricazione giurisprudenziale: a fronte, infatti, di un orientamento che ne ammette la sindacabilità, in quanto contribuisce a descrivere sul piano oggettivo la tipicità dell'illecito (cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 8 ottobre 2004, n. 47677, in Foro It., 2005, II, p. 409; Trib. Roma, 2 gennaio 2003, in Giur. merito, 2003, p. 1198), si registra un opposto indirizzo che opera un distinguo fra l’ordine di allontanamento emesso dal questore, la cui legittimità può essere valutata in sede penale, ed il decreto del prefetto, la cui cognizione è, invece, riservata al giudice di pace civile, salvo i casi di sua inesistenza (Corte Cass. Pen., Sez I, 3 novembre 2007 n. 2907, in Cass. Pen., 2008, n. 9, p. 3412; Id., 30 marzo 2005, in Riv. pen., 2005, p. 970; Id., 30 marzo 2005, Angheluta, in Foro It., 2006, II, p. 10).
70 Cfr. Corte Cost., 15 luglio, 2004, n. 223, in Giur. Cost., 2004, 4, o in Cass. Pen. 2004, 3990, con nota di Gallucci, Illegittima la previsione dell'arresto da parte della polizia giudiziaria dell'autore di contravvenzioni.
71 L’arresto obbligatorio è esteso anche all’ipotesi di cui al comma 5-quater, che prevede il delitto di reingresso nel territorio dello Stato dello straniero già espulso.
72 Cfr. A. Caputo, Prime note sulle modifiche alle norme penali del testo unico sull’immigrazione, in Quest. Giust., 2005, 252 ss.,
73 Va al riguardo segnalato che, proprio sulla base dell’assunto secondo cui la condizione personale di “clandestino” sarebbe di per sè sintomatica di pericolosità sociale, l’art.1, lett. f) del summenzionato “pacchetto sicurezza” (D. L. n. 92 del 2008) ha introdotto, all’art.61, comma 1, c.p., il n. 11-bis, che disciplina una nuova circostanza aggravante comune nel caso in cui il fatto sia “commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. Una simile aggravante fa, quindi, conseguire ad una status di mera irregolarità amministrativa una risposta sanzionatoria più severa, con ciò determinando una disparità di trattamento fra soggetti, che pone seri dubbi di legittimità costituzionale.
74 Cfr. Corte Cass. Pen, Sez. VI, 25 ottobre 2006, n. 35828, con nota di A. Natalini, Rito direttissimo atipico: ecco i limiti, in Dir. Giust., 2006, 44, p. 71, in cui il Supremo Collegio stabilisce, in contrasto con il proprio orientamento maggioritario, la perentorietà della previsione temporale di cui all'art.449 c.p.p. in materia di instaurazione del rito direttissimo extra codicem, statuendo l'obbligo per il pubblico ministero di non oltrepassare, ai fini di una regolare vocatio in ius, il quindicesimo giorno dall'inserimento nominativo della notitia criminis nell’apposito registro.
75 In particolare si censura la parificazione esistente fra la pena prevista dalla disposizione in esame e quella fissata dall’art.13, comma 13-bis, nella parte in cui punisce lo straniero che, già colpito da provvedimento giudiziale di espulsione, faccia rientro indebitamente nel territorio dello Stato, che prevede una fattispecie ben più grave di quella del mancato allontanamento dello straniero colpito da un provvedimento di espulsione. Tale articolo introduce un’ipotesi specifica di reato di violazione del divieto di reingresso, in riferimento al quale il provvedimento di espulsione gioca un doppio ruolo, atteggiandosi sia a presupposto positivo della condotta, sia ad elemento che concorre a specificare la condotta materiale del reato. La fattispecie generale è prevista dal precedente comma 13, che punisce il reingresso dello straniero in mancanza dell’autorizzazione del Ministro dell’Interno. L’art.13, comma 13-bis, in particolare, disciplina due figure delittuose relative la prima al già ricordato reingresso illegale dello straniero allontanato sulla base di un’espulsione disposta dal giudice, la seconda al reingresso illegale dello straniero già denunciato per il reato ex art.13, comma 13 ed espulso. Tale ultima ipotesi è stata dichiarata illegittimità dalla Corte Cost. con sentenza 14 – 28 dicembre 2005, n. 466 (con nota di Mantovani, Corte costituzionale e reingresso abusivo dello straniero: un self-restraint davvero opportuno?, in Giur. Cost., n. 1, 2006, p. 674 ss.), nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art.12, L. 30 luglio 2002, n. 189. Non è chiaro se tutti i profili di incostituzionalità siano stati travolti dalla novella del 2004, intervenuta nelle more del giudizio costituzionale. Nella ultima parte della motivazione, infatti, la Corte ambiguamente precisa che nessun rilievo può avere la circostanza che alla denuncia era collegata anche l’espulsione perché, nel regime antecedente la sentenza della Consulta n. 222 del 2004 (declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.13, comma 13-bis, “nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa”), l’espulsione con accompagnamento alla frontiera era eseguita anche prima dell’eventuale convalida, sicché neppure sotto tale profilo la denuncia era soggetta ad alcuna delibazione processuale. Ottemperando specificatamente ai dettami della suddetta sentenza, la L. n. 241 del 2004 ora dispone che l’esecuzione del provvedimento del Questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida. Secondo alcuni interpreti l’introduzione del meccanismo di convalida ad opera del giudice di pace, precedente all’esecuzione dell’espulsione, renderebbe la norma immune dalle censure della Corte, dal momento che la denuncia appare ora assistita in astratto da un minimo di garanzie. Altra parte della dottrina, invece, ritiene che quest’ultima precisazione dimostri come la denuncia “è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce” (cfr. Corte Cost., sentt. 18 febbraio 2005, n. 78 e 13 giugno 1997, n. 173), soprattutto quando non venga sottoposta ad alcuna delibazione processuale, potendosi, pertanto, concludere che la pronuncia di illegittimità costituzionale ha rilievo anche in riferimento al novellato art.13, comma 13-bis (cfr. M. Centini, Automatismi sanzionatori tra principio di non colpevolezza e principio di ragionevolezza, in Giur. Cost., 2006, n. 3, p. 2649). Si ricorda, infine, che la novella del 2004 ha, peraltro, previsto per i suddetti reati l’arresto obbligatorio anche fuori dei casi di flagranza, in aperto contrasto con quanto dispone l’art.13 Cost. in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale da parte della polizia giudiziaria, che dovrebbero venire adottati solo in situazioni di necessità ed urgenza, che in assenza di una flagranza sembrano presunte iuris et de iure.
76 Cfr., per tutte, Trib. Trani, ord. 30 maggio 2005.
77 Cfr., da ultimo, Corte Cost., ordd., 16 gennaio 2009, n. 7, 27 febbraio 2008, n. 52 e 15 luglio 2008, n. 273, che hanno dichiarato manifestamente inammissibili questioni di legittimità costituzionale sostanzialmente identiche a quelle testè enunciate.
78 Cfr. Corte Cost., 18 luglio 1989, n. 409, in Foro It., 1990, I, p. 36 ss., e, più di recente, Id., 3 dicembre 1993, n. 422, ivi, 1994, I, p. 341.
79 Cfr. G. Fiandaca, Commento all’art.27, 3° comma, Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, Bologna, 1991, p. 330.
80 Cfr. Corte Cost., 3 luglio 1990, n. 313, in Giur. Cost., 1990, p. 1981 e ss.; Id., 28 luglio 1993, n. 343, in Foro It., 1994, Bologna, I, p. 342; Id., 3 dicembre 1993, n. 422, cit.
81 Cfr. Corte Cost., 25 luglio 1994, n. 341, in Foro It., 1994, I, p. 2585, che dichiara l’illegittimità dell’art.341 c.p., nella parte in cui prevede per il delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale la pena minima di sei mesi di reclusione, per violazione non solo dell’art.3 Cost., per la rilevante ed ingiustificata differenza rispetto al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di ingiuria di cui all’art.594 c.p., ma anche del successivo art.27, comma 3, poiché la sproporzione della pena rispetto all’effettivo disvalore del fatto-reato in questione vanifica la finalità rieducativa della pena stessa.
82 A supporto di tale opzione ermeneutica, si segnala la recente giurisprudenza di legittimità formatasi in ordine ai rapporti fra le norme dell’ordinamento penitenziario che regolano la materia delle misure alternative alla detenzione e quelle del testo unico sull’immigrazione, secondo cui la condizione dello straniero clandestino, pur se soggetto ad espulsione amministrativa da eseguire dopo l’espiazione della pena, non sia di per sé ostativa alla concessione di misure extramurarie. Tale linea interpretativa, poi condivisa dalle Sezioni Unite (Corte Cass. Pen., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 14500, già richiamata), considerati i preminenti valori costituzionali dell’uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt.2, 3 e 27, comma 3, Cost.), che costituiscono la chiave di lettura delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario sulle misure alternative, stabilisce che dette misure devono essere applicate senza distinzioni di nazionalità, essendo dirette a favorire il reinserimento del condannato nella società, posto che, in un’ottica transnazionale, la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli Stati nel settore della giurisdizione penale.
83 Cfr. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali - Parte generale, Padova 2003, p. 315 ss., in cui l’Autore non manca di chiarire come la disciplina legislativa della condizione dello straniero extracomunitario, in ogni caso, incontri il limite posto dal principio di razionalità/ragionevolezza.
84 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 11 settembre 2001, n. 33539, Donatelli, in Dir. Prat. Lav., 40, 2001, p. 2747, che, ponendo fine alla querelle interpretativa scaturita dall’abrogazione dell’art.12, comma 2, L. 30 dicembre 1986, n. 943, che incriminava l’assunzione di lavoratori extracomunitari privi dell’autorizzazione al lavoro rilasciata dalle direzioni provinciali del lavoro, e dalla contestuale introduzione dell’art.22, comma 12, T.U. Imm., nega la sussistenza di una continuità normativa fra le due fattispecie incriminatrici, precisando che non è ravvisabile un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, in quanto il proprium delle stesse è assolutamente diverso, poiché del tutto eterogenei sono gli elementi, che concorrono a disegnarne la tipicità: l’atto amministrativo che si inserisce nell'area della rilevanza penale, i procedimenti autorizzatori e organi ai quali spetta il rilascio dei provvedimenti amministrativi e la ratio dell'intervento del legislatore penale.
85 Sul piano processuale, se il fenomeno dell’abolitio criminis si verifica nel corso di un procedimento penale, troverà applicazione l’art.129 c.p.p., che impone al giudice, in ogni stato e grado del processo, di prosciogliere l'imputato quando il fatto non costituisce più reato. In particolare la Corte di Cassazione, ex artt. 129 e 620 lett. a), c.p.p., deve pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio se, invece, si realizza quando è già intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile, il giudice dell’esecuzione, a norma dell’art.673 c.p.p, deve revocare la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Cfr. per la dottrina Gambardella, Abolitio criminis: casi e regole processuali, in Cass. Pen., 2005, 5, 1739. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Sez. Un., 6 febbraio 2006, n. 4687) ha stabilito che tra gli effetti giuridici pregiudizievoli scaturiti dal giudicato di condanna da eliminare in applicazione della suddetta disposizione, sono da annoverare anche quelli preclusivi alla concessione della sospensione condizionale (“previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164, comma primo, cod. pen., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti”), così dirimendo il contrasto precedentemente insorto.
86 Un’ipotesi di continuità normativa può rinvenirsi anche quando ad una norma speciale succeda una norma generale, “poiché è quest'ultima a contenere pienamente la previsione precedente, ed a riprodurne integralmente la tipicità, per quanto stemperata nel più ampio contesto della nuova incriminazione” (così Bisori, L'abrogazione dell'oltraggio tra abolitio criminis e successione di leggi incriminatrici, in Cass. Pen., 2000, n. 11, p. 3025).
87 Cfr. Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2006, Milano, p. 61.
88 Cfr. Donini, Discontinuità del tipo di illecito e amnistia. Profili costituzionali, in Cass. Pen., 2003, n. 9, p. 2857. Segnala l'esigenza che la nuova legge disponga sempre per le situazioni pregresse attraverso una espressa disciplina di diritto transitorio Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 61.
89 Si ricorda, altresì, che danno luogo al fenomeno di successione di leggi sia l’innesto di una nuova fattispecie interferente con l’ambito d’applicazione di altre pregresse, che l’abrogazione di una norma e contestuale riespansione di una formula incriminatrice previgente. In tale ultimo caso, la circostanza che all'abrogazione di un reato non abbia fatto seguito l'introduzione di nuove o diverse figure di reato non esclude la possibilità che la condotta già tipica del delitto abrogato possa integrare altra fattispecie criminosa tuttora prevista e punita dalla legge penale. Emblematica a questo riguardo la vicenda processuale scaturita dall’abrogazione del delitto di oltraggio (art.341 c.p.) e alla possibile applicazione del delitto di ingiuria aggravata (artt.594 e 671, n. 10 c.p.). Non sembra condivisibile quanto affermato dalle Sezioni Unite (Corte Cass. Pen., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 29023, Avitabile, in Cass. Pen.., 2002, p. 482, con nota di Lazzari, L'abrogazione del reato di oltraggio: la parola delle Sezioni unite), secondo cui la vicenda legislativa in questione “non configura una ipotesi di successione intertemporale di leggi penali, di cui al comma 3 [ora 4] dell'art. 2 c.p. Infatti quest'ultima disposizione ha per presupposto una diversità di norme incriminatrici, di cui una cronologicamente precedente all'altra”. Secondo parte della dottrina, infatti nel concetto di “legge successiva”, rientra anche quella che, pur preesistente, non risulti però applicabile in una certa epoca: come nel caso in cui la norma generale diventi applicabile ad un dato tipo di fatto storico soltanto in seguito all'abrogazione della norma speciale derogatoria. È sufficiente, invero, per la sussistenza di una “successione di leggi penali” ai sensi dell'art.2 c.p., che cambi la disciplina giuridica applicabile al caso concreto per qualsivoglia mutamento normativo intervenuto dopo la realizzazione del fatto. In questo senso cfr. Pulitanò, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2002, p. 1274 ss.; Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, 1971, p. 530, per il quale nel caso di una successiva abrogazione della norma speciale si ha successione di leggi penali ex art. 2 c.p.
90 Cfr. Pulitanò, Legalità discontinua?, cit., p. 1271; Padovani, Tipicità e successione di leggi penali. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie penale incriminatrice o della sua sfera di applicazione nell’ambito dell’art. 2, commi 2 e 3, c.p., in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1982, p. 1369 ss.; più di recente Micheletti, I nessi tra politica criminale e diritto intertemporale nello specchio della riforma dei reati societari, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2003, p. 1113 ss.
91 Riguardo alle conseguenze della abolizione parziale del reato sui procedimenti penali ancora non terminati, si può osservare, in linea generale, che il pubblico ministero, di regola, deve modificare l'imputazione e contestarla all'imputato, in modo che la descrizione del fatto addebitato rientri nelle condotte punite alla stregua della nuova disposizione incriminatrice. Cfr. Padovani, Il cammello e la cruna dell'ago, I problemi della successione di leggi penali relativa alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, in Cass. Pen., 2002, p. 1607 ss.; Avenati Bassi, L'attività di accertamento degli illeciti societari, Incontro di studio sul tema La riforma del diritto societario, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 6-8 febbraio 2003, p. 6 ss. (dattiloscritto).
92 Anche se entrambe le disposizioni sono ispirate al favor rei, la revoca delle sentenze di condanna passate in giudicato è interdetta nell’ipotesi di mera successione di norme penali, in quanto l’art 673 c.p.p. prevede tale possibilità soltanto in caso di abolitio criminis vera e propria.
93 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. V, 16 ottobre 2002, n. 34622.
94 Le ipotesi fin qui descritte rientrano nella c.d. specialità “unilaterale”, mentre una parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono che il congegno predisposto dall'art.15 c.p. sarebbe applicabile anche quando un fatto concreto risulti sussumibile in più fattispecie astratte, che presentino alcuni elementi comuni tra loro ed altri, generici o tipizzanti, diversi, fenomeno questo meglio descritto come specialità “bilaterale” o “reciproca”. Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. V, 21 novembre 1999 in Riv. Pen., 2001, 559, secondo cui “le fattispecie criminose previste, rispettivamente, dall'art. 648 c.p. e dall'art. 12 d.l. 3 maggio 1991 n. 143, convertito con modificazioni in l. 5 luglio 1991 n. 197 sono tra loro in relazione di specialità reciproca. Tra le due, quindi, deve trovare applicazione quella caratterizzata da maggiore specialità rispetto all'altra”. In dottrina cfr. Padovani, Diritto penale, Milano, 2006, p. 378; Caraccioli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Padova, 2005, p. 190 (che fa rientrare anche la specialità in concreto nella specialità reciproca o bilaterale). Si oppongono alla tesi che riconduce la specialità reciproca alla previsione dell'art.15 c.p. Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, cit., p. 385.
95 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 16 giugno 2003, n. 25887, Giordano, in Cass. Pen., 2003, p. 3310, con nota di Padovani, Bancarotta fraudolenta impropria e successione di leggi: il bandolo della legalità nelle mani delle Sezioni unite.
96 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. V, 16 ottobre 2002, in Dir. Pen. Proc., 2003, n. 6, p. 712, con nota di D. Micheletti, La continuità intertemporale della bancarotta fraudolenta “cagionata” tramite reati societari. L’avvicendamento di due fattispecie incriminatrici comporta sempre un’abolitio criminis totale, e dunque la costante applicazione dell’art.2, comma 2, c.p., qualora intercorra tra le stesse un rapporto di specialità per aggiunta e l’elemento costitutivo speciale abbia un “peso” tale da ascrivere al fatto di reato un significato lesivo diverso da quello sottostante alla fattispecie generale. Secondo tale ricostruzione, se tra falso in comunicazioni sociali vecchia e nuova ipotesi sussiste un’omogeneità strutturale, nel senso di una specialità per specificazione, tra bancarotta impropria vecchia e nuova formula esiste un rapporto di specialità per aggiunta, in cui l’elemento nuovo (nesso di causalità tra reato presupposto e dissesto dell’impresa) ha quel peso e quella rilevanza che esprimono una mutata volontà legis e determinano la sussistenza di una abrogazione totale della norma precedente. Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., secondo cui in tema di diritto intertemporale sussiste la punibilità della condotte di falsità e delle omissioni previste dagli artt.2621 e ss. c.c., poste in essere prima della riforma introdotta con il D. Lgs., 11 aprile 2002, n. 61, solo quando siano state superate le soglie di punibilità previste dalla nuova disciplina. Nel stesso senso sembra orientata Corte Cass. Pen., Sez. V, 23 aprile 2003, Ruocco, in Dir. Pen. Proc., 2003, p. 3747, o in Impr., 2004, n. 7/8, p. 1278 ss., ove si stabilisce che la Corte deve annullare senza rinvio la sentenza impugnata, qualora dalla stessa non risulta possibile stabilire se le soglie di punibilità siano state superate o meno. Ancora così (almeno in parte) Corte Cass. Pen., Sez. V, 3 ottobre 2003, Fodde, in C.E.D. Cass., n. 226918, secondo cui al fine di verificare se i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 61 del 2002 siano sussumibili nell'attuale fattispecie criminosa di cui all'art.2622 c.c., occorre che tutti gli elementi richiesti dalla nuova disciplina (quali ad esempio il superamento delle soglie di punibilità) siano stati contestati e abbiano formato oggetto di accertamento in contraddittorio. Ne consegue che nel giudizio di cassazione, nel quale la Corte è chiamata a decidere sulla base di un accertamento già compiuto dal giudice di merito, se i nuovi elementi non hanno formato oggetto di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-reato rientra nell'ambito dell'abolitio criminis.
97 In argomento cfr. l'approfondito studio di Ambrosetti, Abolitio criminis e modifica della fattispecie, Cedam, 2004, p. 37.
98 Nella manualistica penale, cfr. C. Fiore-S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Utet, 2004, p. 86 ss., secondo cui per stabilire quando una norma penale abbia cessato di essere in vigore è necessario fare riferimento alla disciplina posta dall'art.15, disp. prel. c.c.
99 Per un'applicazione giurisprudenziale della teoria, in riferimento alla soluzione del problema, seguito alla riforma avvenuta con L., 26 aprile 1990, n. 86, della continuità normativa fra alcuni dei reati dei pubblici ufficiali commessi in danno dell'Amministrazione, cfr. Trib. Genova, 13 giugno 1990, Giuffrè, in Foro it., 1990, II, p. 639 ss.
100 Cfr. Musco, La riformulazione dei reati. Profili di diritto intertemporale, Giuffrè, 2000, p. 109 ss.
101 Cfr. Padovani, Diritto Penale, cit. Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 20 giugno 1990, n. 10893, in Giust. Pen., 1990, II, p. 513 ss., con nota di Fiandaca, Questioni di diritto transitorio in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato di ufficio.
102 Cfr. Bisori, L'abrogazione dell'oltraggio, cit., p. 3025. In alcune sentenze si è cercato di superare i suddetti limiti, da più parti denunciati, attraverso il richiamo alla teoria della persistente modalità d'offesa del medesimo bene giuridico: cfr. Corte Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2000, n. 35, in Cass. Pen., 2001, p. 2643, con nota di Micheletti, La riformulazione del reato tributario di omessa dichiarazione. A proposito della distinzione tra abolitio criminis e abrogatio sine abolitione; in argomento cfr., altresì, l’ampio lavoro monografico di Musco, op. loc. cit.
103 Più nello specifico sussiste continuità d’incriminazione quando la fattispecie successiva è “contenuta”, appunto, in quella precedente: cioè quando la norma abrogatrice è speciale rispetto alla norma abrogata. Si è, però, obiettato che tale interpretazione restringerebbe troppo l’ambito applicativo del fenomeno della successione, che, invero, andrebbe esteso “anche nel caso in cui la norma successiva ampli il contenuto di una precedente più specifica” (cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2008, p. 89).
104 Cfr. Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, cit., p. 1354.
105 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887, cit.; Id., Sez. Un. 13 dicembre 2000, n. 35, cit., che richiama i criteri ermeneutici elaborati dalla precedente sentenza Corte Cass. Pen., Sez. Un., 25 ottobre 2000, n. 27, Di Mauro, in Cass. Pen., n. 2, 2001, p. 448 ss., con nota di Musco, La riformulazione dei reati tributari e gli incerti confini dell’abolitio criminis, che nel valutare se vi sia o meno una continuità normativa tra il reato di cui all'art.4, comma 1, lett. d), L. n. 516 del 1982 (utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti) e la nuova fattispecie di cui all'art.2, D. Lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione fraudolenta nella quale ci si avvalga di fatture per operazioni inesistenti), opera un’ampia disamina dei criteri utilizzabili al fine di stabilire se sussista nel caso di specie abolitio criminis o abrogatio sine abolitione, pervenendo, poi, all'esclusione di detta continuità sulla base della teoria dei rapporti strutturali tra le fattispecie (in realtà la sentenza utilizza tale criterio ad adiuvandum, ossia per dimostrare come il risultato interpretativo resti invariato sia che si consideri il rapporto strutturale tra le fattispecie a confronto, sia che si fondi l'accertamento sulla continuità del tipo di illecito, come anche sulla base del teoria dell’applicazione in concreto. Per un recente impiego “combinato” dei suddetti parametri cfr. Corte Cass. Pen., Sez. VI, 23 novembre 2004, n. 81, in tema di riduzione in schiavitù). Diversamente cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 15 gennaio 2001, Sagone, in Dir. Pen. Proc., 2001, p. 878 ss., con nota di Dovere, L’omessa dichiarazione dei redditi: una nuova ipotesi di abolitio criminis, che accoglie, invece, il canone sostanzialistico-valoriale della c.d. “continuità del tipo di illecito”, anche se con argomentazioni “prudenziali”, a dimostrazione delle difficoltà di rintracciare un criterio univoco valido in tutti i casi.
106 Cfr. Palazzo, L'errore su legge extrapenale, 1974, Milano, p. 17: “Si denomina elemento normativo della fattispecie penale ogni elemento per la cui determinazione ... l'interprete deve servirsi di una norma diversa da quella incriminatrice, richiamata appunto dall'elemento normativo, già esistente nell'ambito di un ordinamento giuridico od extragiuridico”.
107 Nei delitti contro l’onore ed il pudore sessuale, ad esempio, l’oscenità è elemento normativo extragiuridico variabile al mutare dei tempi e dei luoghi. Cfr. Fiandaca-Musco, Diritto Penale, cit., p. 83, secondo cui, nel caso di elementi normativi rinvianti a norme sociali e di costume, “il parametro di riferimento diventa inevitabilmente incerto e sorgono forti dubbi circa il limite discretivo tra rispetto di un sufficiente livello di determinatezza e carattere indefinito dell'elemento del fatto di reato”.
108 Cfr., per tutti, Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, cit., p. 1356; Petrone, L’abolitio criminis, Milano, 1985, p. 25; Del Corso, Successione di leggi penali, in Dig. Disc. Pen., Vol. XIV, Torino, 1999, p. 98; Musco, La riformulazione dei reati. Profili di, cit., p. 47 ss. Circa la questione altrettanto complessa dell’errore su legge extrapenale, che abbia cagionato un errore sul fatto che costituisce reato (art.47, comma 3, c.p.) cfr., ex pluribus, Pagliaro, Dolo ed errore: problemi in giurisprudenza, in Cass. Pen., 2000, p. 9, 2493; Montagni, La divergenza tra rappresentazione e volontà, in Giur. Mer., 2004, n. 9, p. 1905.
109 Le stesse, peraltro, già enunciate in riferimento al fenomeno successorio conseguenza di modificazioni immediate della fattispecie penale. Per un quadro delle posizioni dottrinali italiane si rinvia alla recente monografia di Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006, e per quelle tedesche al volume di Dannecker., Das intertemporale Strafrecht, , Tübingen, 1993, p. 495 ss.
110 Sul punto, cfr., fra gli altri, Grosso, Successione di norme integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1960, 1206 ss.; Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 314. Cfr., per la giurisprudenza, Trib. di Perugia 12 febbraio 2005, in Rass. Giur. Umbra, 2006, p. 213, con nota di Bisacci, L’abolitio del delitto presupposto nel quadro delle coordinate di diritto intertemporale.
111 In tal senso, Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 273; Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2007, p. 83-84; Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 132 ss.
112 È questa la posizione, fra gli altri, di Padovani, Diritto penale, cit., p. 43-44; Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., p. 94 ss.; Iori, Abrogazione di norma extrapenale integratrice, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1976, p. 349 ss.
113 Cfr. Mantovani, Diritto penale, cit.
114 Cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit.
115 Così, Mantovani, Diritto penale, cit., p. 84 (ma si veda, contra, lo stesso autore, ivi, p. 90, con riferimento al delitto di associazione costituita per la realizzazione di fatti delittuosi divenuti successivamente leciti); Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, cit., p. 273.
116 In questo senso cfr. Pagliaro, Il delitto di calunnia, Palermo 1961, p. 37, secondo il quale, invece, qualora successivamente alla falsa incolpazione il legislatore sancisca l’irrilevanza penale del fatto falsamente addebitato, viene meno di riflesso anche il reato di calunnia per effetto dell’art.2 c.p.
117 Cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, p. 96.
118 Cfr. Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., p. 127.
119 Cfr., per tutti, Romano, Commentario sistematico, cit., p. 59; Petrone, L’abolitio criminis, cit., 26; Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, cit., p. 276.
120 L’ipotesi di scuola è rappresentata dall’annullamento o modifica dell’atto amministrativo richiamato dall’art.650 c.p. Cfr. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 90, secondo cui l’abolizione del provvedimento ex art.650 c.p. ricade sotto il disposto dell’art.2 c.p., poiché, in tal caso, viene a cessare la tutela penale dell’interesse prima protetto.
121 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 11 dicembre 1997, Prestigiacomo, in Cass. Pen., 1999, p. 858. In termini analoghi, si è pronunciata la Corte di Cassazione con riferimento anche al delitto di truffa, stabilendo il principio che la modifica del regime giuridico dell’Enel non ha configurato una successione di leggi penali e che, pertanto, si può escludere una efficacia retroattiva della legge più favorevole; Id., Sez. V, 25 febbraio 1997, n. 4114: “L'art. 2 c.p., che regola la successione nel tempo della legge penale, riguarda quelle norme che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato, comprese quelle norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice, nonché le leggi costituenti indispensabile presupposto o comunque concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto. Esula da tale normativa la successione di atti o fatti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o comunque su di essa influire, agiscano sugli elementi di fatto - modificandoli - sì da non renderli più sussumibili sotto l'astratta fattispecie normativa. (Fattispecie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità dell'art.468 c.p., alla contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico per non essere più l’Enel, a seguito della l. n. 359 del 1992, ente pubblico economico)”; Id., Sez. II, 21 settembre 1993, Cusimano, in Cass. Pen., 1994, 3010; Id., Sez. III, 28 aprile 1993, Azzarito, in Cass. Pen., 1994, 3010).
122 Cfr. Corte Cass. Pen, Sez. V, 18 marzo 1998, Gambino, in Cass. Pen., 1999, p. 3127.
123 Va ricordato che è rimesso, comunque, all’interprete il compito di accertate la natura giuridica della privatizzazione di cui è causa: se, cioè, la stessa possa essere ricondotta ad una privatizzazione debole, o formale, nella quale il cambiamento ontologico non incide affatto sul servizio prestato, che conserva i suoi canoni di pubblicità e di essenzialità; oppure ad una privatizzazione sostanziale, o forte, nella quale, invece, si evinca senza ombra di dubbio il passaggio dell’ente pubblico alla forma societaria, il mutamento della qualifica soggettiva rilevando, infatti, soltanto in tale ultima ipotesi.
124 Cfr., in tal senso, Corte Cass. Pen., 4 febbraio 2005, n. 8045: “Nel novero delle norme integratrici della legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma terzo, cod. pen., debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche la nuova norma non rechi testuale statuizione in tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per il nuovo caso regolato, nella struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che potesse valere ad escludere la configurabilità del reato di violazione di domicilio – addebitato ad un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto, per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà del proprietario, in un locale privato adibito a canile – la sopravvenuta emanazione di una norma regionale che imponeva ai gestori di strutture di ricovero per animali di consentire l’accesso, senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche)”.
125 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 23 maggio 1987, n. 8342, Tuzet, in CED Cass., rv. 176406: “Qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa intervenuta successivamente che concerna la disciplina normativa extra-penale di riferimento per attribuire la qualità di soggetto attivo di un reato proprio si applica il principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2 cod. pen. Perché per legge incriminatrice deve intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo (nella fattispecie è stata ritenuta non più ravvisabile l’ipotesi del reato di peculato nella condotta di un dipendente di una cassa di risparmio perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis, l’attribuibilità allo stesso della qualifica di pubblico ufficiale)”.
126 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. II, 4 febbraio 2004, n. 4296, trattasi di una modifica concernente una norma “definitoria”, ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più incriminazioni, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale; Id., 8 aprile 1975, n. 7422.
127 Cfr. Corte Cass. Pen., 4 febbraio 2005, n. 8045, cit.
128 Cfr. Corte Cass. Pen., 4 febbraio 2003, n. 14329: “Sussiste l’abolitio criminis del reato di contrabbando doganale (art. 282 DPR n. 43 del 1973) consistente nell’omissione del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale Yugoslavia in virtù della sopravvenienza del regolamento comunitario n. 2007 del 2000, integrato e modificato dal regolamento n. 2563 del 2000 che ha sottratto tale merce ai diritti di confine sulla stessa gravanti, in quanto le norme impositive del dazio costituiscono norme extrapenali integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 2 cod. pen.”; Id., 26 giugno 2002 n. 33934.
129 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. VI 9 dicembre 2002 - 16 gennaio 2003, n. 1751, Di Campli Finore, rv. 223341: “Non integra il reato di esercizio abusivo di una professione la condotta del praticante avvocato, abilitato al patrocinio, il quale abbia assunto la difesa di un minore nell’udienza di convalida dell’arresto tenuta dal GIP del tribunale per i minorenni, in quanto, nei limiti in cui tale attività difensionale è consentita dalla norma sopravvenuta di cui all’art. 7 1.16 dicembre 1999, n. 47, la modifica della norma extrapenale si riflette sulla struttura stessa del precetto penale ed opera, dunque, il principio di retroattività della legge più favorevole (art. 2, cpv. cod. pen)”; relativamente al delitto di associazione per delinquere cfr. Id., 9 marzo 2005, n. 13382, in Cass. Pen., 2006, n. 6, p. 2070, con nota di Restignoli, Esclusa la configurabilità del reato di associazione per delinquere per la sopravvenuta depenalizzazione del reato fine, secondo cui lo stesso viene meno, qualora venga depenalizzata la fattispecie dei reati fine, perché vi è la “perdita della rilevanza criminale del fatto, non già dalla data della modifica legislativa, ma ex tunc”.
130 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. III, 24 settembre 1996, n. 9163, secondo cui “quando la legge punisce condotte contrarie a prescrizioni poste con atto amministrativo, che influisce su singoli casi, l'emanazione di nuovi atti, o il mutamento del loro contenuto, non costituiscono novazione legislativa rilevante ex art.2, comma 2, c.p., in quanto non si prospetta alcuna modificazione di regole generali di condotta. Invero tale atto amministrativo ... integra il precetto penale in un elemento normativo della fattispecie; cioè l'atto amministrativo è il presupposto di fatto della legge penale incriminatrice, la quale ne sanziona la trasgressione. Ne deriva che il mutamento dell'atto amministrativo non comporta una differente valutazione della fattispecie legale astratta, bensì determina la modifica del precetto e l'instaurazione di una nuova fattispecie incriminatrice, sicché regolando le due norme fatti storicamente diversi, non sorge problema di successione di leggi”; Id., 8 maggio 1978, in Foro It., 1979, II, 577; Id., Sez., VI, 4 giugno 1986, n. 9530, ivi, 1987, II, p. 156.
131 Cfr. Corte Cass. Pen., 1 febbraio 2005 n. 9482: “L’istituto della successione delle leggi penali nel tempo riguarda le norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato; pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 cod. pen. si deve tenere conto anche di quelle fonti normative subprimarie che, pur non ricompresse nel precetto penale, ne integrano tuttavia il contenuto. (Nel caso di specie, relativo al reato di esercizio di attività venatoria nei parchi, la Corte ha ritenuto che la riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un provvedimento amministrativo della Regione Sicilia avesse eliminato il disvalore penale del fatto commesso, in quanto era venuta successivamente a mancare la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria, elemento costitutivo della condotta punibile)”.
132 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. VI, 21 novembre 1988, Caronna, in Cass. Pen., 1990, p. 28; Id., 26 settembre 1986, Dotto, ivi, 1988, p. 254; Id., 5 novembre 2003, n. 48525; Id., 11 giungo 2003, n. 34481. Si è quindi ritenuto che nella calunnia la falsa attribuzione di un fatto costituente reato è un elemento materiale della fattispecie, e la sua esistenza va valutata nel momento della falsa attribuzione ad altri del fatto stesso, senza che sulla configurabilità del delitto di di cui all’art.368 c.p. possano influire modifiche legislative incidenti sulla definizione del reato falsamente attribuito, che nulla hanno a che vedere con il principio stabilito dall’art.2 c.p. Per la casistica giurisprudenziale contraria a ritenere applicabile la disciplina di cui all’art.2 c.p. nel caso di abrogazione del reato presupposto nell’ipotesi di ricettazione, calunnia e omessa denuncia, nonché di caducazione di un atto amministrativo, la cui emissione costituiva una condotta abusiva ai sensi dell'art.323 c.p., cfr. Piergallini, Sub art. 2 c.p., in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, a cura di Lattanzi-Lupo, Vol. I, Giuffrè, 2000, p. 65 ss.
133 Per un quadro delle diverse posizioni giurisprudenziali si rinvia a Natalini, La leva volontaria è un’abolitio criminis - La corte aggiusta il tiro: non rileva la gradualità della riforma, in Dir. Giust., 2006, n. 15, p. 74.
134 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 25 maggio 2006, n. 20382; Id., 10 febbraio 2005 n. 12316; Id., Sez. I, 24 gennaio 2006, n. 7628, Bova: “Tra il sistema di coscrizione volontaria introdotto dalla l. 331/00 ed il preesistente sistema di coscrizione obbligatoria sussiste una netta soluzione di continuità, con la conseguenza che l'abolizione del servizio militare obbligatorio ha comportato l'abrogazione del delitto di rifiuto di prestare detto servizio da parte dei cittadini ad esso tenuti per chiamata di leva e ha determinato - ex art. 2, comma 2, c.p. - la non punibilità della condotta di chi in precedenza, allorché detto servizio era obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo ovvero la cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna eventualmente intervenuta”.
135 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 4 luglio 2007, n. 25812; Id., 13 luglio 2006, n. 24270; Id., Sez. I, 24 maggio 2006, n. 7852; Id., 28 agosto 2006 n. 19168; in senso conforme Brunelli, Rilevanza penale dell’abolizione del servizio militare o obbligatorio: tra successione di norme e "scomparsa" del fatto tipico, in Cass. Pen., 2006, 5, 1680.
136 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 28 febbraio 2008, n. 19601, in Fall., n. 10, p. 1187, con nota di Tetto, Il nuovo statuto dell'impresa fallibile ed i riflessi nei giudizi di bancarotta; contra Id., Sez. V, 18 ottobre 2007, n. 43076; Trib. Trieste, Sez. Pen., 9 gennaio 2007 e Trib. Pordenone, Sez. Pen., 10 ottobre 2007, ivi, n. 4, p. 451 ss., con nota di Id., Il concetto di imprenditore “fallibile” penalmente rilevante e vicende successorie di norme extrapenali ex art. 2 c.p.; dello stesso avviso in dottrina Socci, Gli effetti delle riforme del fallimento e del diritto societario sui reati fallimentari e societari. Successione di leggi non penali e conseguenze sulle fattispecie penali, in Giur. Mer., n. 11, 2007, p. 3054, secondo cui gli imprenditori dichiarati falliti in base alla legge previgente, che, in seguito al mutamento di disciplina, non rientrano più nell’area dei soggetti sottoponibili al fallimento, devono essere assolti dai reati fallimentari con la formula perché il fatto non sussiste (manca l’elemento oggettivo del reato), o perché il “il fatto non è - più – previsto dalla legge (penale, così come integrata dalla successione di norme non penali) come reato”, giacché il disvalore sociale del fatto è venuto meno; Cò, Applicabilità della nuova legge più favorevole tra vecchi e nuovi contrasti sullo status di imprenditore nei reati di bancarotta, in Fall., n. 3, 2008, p. 278 ss.; Ambrosetti, I riflessi penalistici derivanti dalla modifica della nozione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare al vaglio delle Sezioni unite, in Cass. Pen., 2008, n. 10, p. 3602.
137 A favore dell’abolitio criminis cfr Trib. Reggio Calabria, 23 gennaio 2007, n. 76, che assolve l’imputato cittadino rumeno in riferimento al reato di cui all’art.14, comma 5-ter, D. Lgs. 286 del 1998, perché il fatto non costituisce più reato in seguito all’adesione della Romania alla U.E., la cui la ratifica, ha infatti, determinato non un mero caso di successione di leggi nel tempo, ma un’abolitio criminis, con conseguente applicabilità del disposto dell'art.2, comma 2, c.p. e non del successivo comma 3 (ora 4); Trib. Catanzaro, 14 marzo 2007, n. 174; Trib. Milano, Sez. III Penale, 17 febbraio 2007, n. 816 ; Trib. Viterbo, 11 gennaio 2007, n. 15 (Est. Centaro, Imp. Dottori); Trib. Roma, 25 novembre 2005 (Est. Iulia, Imp. Yarga), in Cass. Pen., 2006, p. 2270 ss. Anche nell’imminenza dell’adesione alla U.E. di Romani e Bulgaria la giurisprudenza di merito si era, peraltro, orientata nel senso dell’inapplicabilità del T.U. Imm.: cfr. Trib. Livorno, 15 ottobre 2004, n. 1122 che, riportandosi al principio affermato dalla sentenza Corte Cass. Pen., Sez III, 27 gennaio 2000, n. 439 (in Riv. Pen., 2001, p. 181), ha affermato che l’inapplicabilità delle norme del presente testo unico ai cittadini degli Stati membri dell’Unione, si estende in via analogica, anche ai cittadini degli Stati candidati a data certa ad entrare a farne parte; diversamente opinando, si creerebbe una disparità di trattamento difficilmente giustificabile; Giudice di pace Messina, 19 luglio 2005; Trib. Catanzaro, 2 luglio 2006, n. 396. Per completezza espositiva, occorre rilevare che in alcune pronunce si sottolinea come, secondo un indirizzo presente nella stessa giurisprudenza di legittimità, l'ingresso della Romania nell'U.E. potrebbe corrispondere ad una vicenda successoria di leggi penali nel tempo riconducibile non già nella situazione di abolitio criminis prefigurata nell’art.2, 2 comma, c.p., ma nella particolare previsione del successivo comma 4, di cui è stata fatta applicazione nella materia dei reati di rifiuto del servizio militare. Va, poi, aggiunto, che la questione di diritto intertemporale è emersa anche in riferimento all’art.22, comma 12, T.U. Imm., che punisce l’assunzione di cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno. Dal punto di vista strutturale le fattispecie incriminatrici di cui agli artt.12 e 22 presentano un’affinità, dal momento che in entrambe le ipotesi la qualifica soggettiva connota la persona offesa dal reato, non già il soggetto agente.
138 La giurisprudenza, afferma che tale posizione interpretativa è, peraltro, il linea con quanto affermato più volte dal Supremo Collegio circa la rilevanza delle modifiche "mediate” della legge penale, la cui principale espressione è rintracciabile nella sentenza delle Sezioni unite già richiamata (Corte Cass. Pen., Sez. Un., 23 maggio 1987, Tuzet), riguardante la disciplina introdotta dal D.P.R., 27 giugno 1985, n. 350, che, nel recepire la Direttiva comunitaria 77/780/CEE, riconobbe natura privatistica all'attività bancaria, ritenendo, pertanto, sussistente un'ipotesi di abolitio criminis con riguardo ai delitti di malversazione e di peculato precedentemente commessi dagli operatori bancari, per effetto del mutamento di disciplina extrapenale, a cui il precetto faceva riferimento. In tale sentenza, seppur risalente, la Corte enuncia in termini chiari e convincenti un principio di immutato valore logico-sistematico, ossia che per legge incriminatrice deve intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto. Tra questi elementi, nei reati propri, è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo. Se ne deve dedurre che, se la novatio legis riguarda la qualità del soggetto attivo, nel senso che, come nella specie, fa venire meno al dipendente bancario la qualità di incaricato di pubblico servizio, necessaria per integrare il reato di peculato, non può non applicarsi in favore di quel dipendente il principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall'art.2 c.p.
139 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. II, 4 febbraio 2004, n. 4296, cit.
140 Conformi, peraltro, seppur in ambiti diversi, Corte Cass. Pen., Sez. V del 2 marzo 2005, n. 8045, cit.; Id., Sez. I, 24 gennaio 2006, n. 7628, cit., in materia di rifiuto di prestare il servizio militare e l'abolizione del servizio militare obbligatorio a seguito dell'introduzione di forze armate esclusivamente professionali, realizzata con l'art.1, comma 6, L. 14 novembre 2000, n. 331, che secondo la Corte avrebbe ridisegnato la fattispecie penale del rifiuto della relativa prestazione “eliminando il disvalore sociale della condotta incriminata (ancorché antecedentemente commessa)”, con la conseguente applicazione dell'art.2, comma 2, c.p. Medesimo principio di diritto viene ribadito, questa volta in materia di contrabbando, dalla Corte Cass. Pen., Sez. III, 4 febbraio 2003 n. 172 in fattispecie attinente al mancato versamento di un dazio che, successivamente alla commissione del fatto, era stato abrogato da una norma che doveva ritenersi integratrice del precetto penale, con conseguente abolitio criminis.
141 Cfr., nello stesso senso, Trib. Trieste, Sez. Pen., 9 gennaio 2007; Trib. Pordenone, Sez. Pen., 10 ottobre 2007, cit.
142 Circa i problemi di costituzionalità delle norme penali in bianco con riferimento ai principi di tassatività e tipicità dell’illecito penale, nonché alla riserva di legge in materia penale cfr. Corte Cost., 9 giugno 1986, n. 132, in Cass. Pen., 1987, p. 3, secondo cui le stesse sono da ritenersi rispettose dell’art.25 Cost., purché la fattispecie penale sia descritta nei suoi elementi costitutivi.
143Il disvalore penale della fattispecie di cui all’art.14, comma 5-ter, T.U. Imm. non si incentra sulla mera inosservanza ad un ordine dell’autorità, ma sulla qualifica di straniero del soggetto inottemperante (cfr. Trib. Roma, 25 novembre 2005, cit.). Analogamente il delitto di favoreggiamento dell'ingresso illegale di cui all’art.12 T.U. Imm. contemplerebbe solamente la condotta di ingresso clandestino sicché, potendo i cittadini di nazionalità polacca, rumena e bulgara oggi entrare legalmente in Italia in quanto comunitari, il fatto non costituirebbe più reato, ai sensi dell'art.2, comma 2, c.p.
144 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. V, 25 febbraio 1997, n. 4141, De Lisi, cit.
145 A questo proposito depone anche la scelta amministrativa seguita dai responsabili dell'esecutivo, allorché con la circolare congiunta del Ministro dell'Interno e del Ministro della Solidarietà Sociale, 28 dicembre 2006, n. 2, si chiarisce che ai cittadini rumeni e bulgari non si applicano più le disposizioni del testo unico sull’immigrazione, ma quelle del D.P.R., 18 gennaio 2002, n. 54 ed, in particolare l'art.7, che prevede che i cittadini comunitari non possono essere espulsi (nel caso di specie a decorrere dal 1 gennaio 2007), ma solo allontanati per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Ciò significa che laddove il bene tutelato dall'ordine amministrativo, la cui violazione è penalmente rilevante, sia esclusivamente il rispetto del confine nazionale (stranieri espulsi perché irregolarmente entrati o soggiornanti in Italia), il medesimo atto amministrativo presupposto di quella condotta illecita non possa più trovare efficacia, trattandosi di decreto emesso a tutela di valori non più riferibili ai suddetti cittadini comunitari, nei cui confronti le barriere nazionali interne non sono oramai opponibili per scelta legislativa, quindi astratta ed impersonale, ed esecutiva dello Stato italiano.
146 Contrarie all’abolitio criminis, con riferimento all’art.12 T.U. Imm., Corte Cass. Pen., Sez. I, 22 gennaio 2007 n. 1815, con cui viene respinto il ricorso di un imputato condannato a tre anni e due mesi di reclusione per aver favorito, a fini di lucro, l’ingresso illegale in Italia e comunque la permanenza di due cittadine polacche poi avviate al lavoro di “badanti”, dal dicembre del 2000 all’aprile del 2001, in epoca cioè anteriore all’ingresso della Polonia nell’Unione europea (avvenuto a far data dal 2004). La circostanza che la Polonia sia entrata a far parte dell’U.E. dal 2004, con la conseguente libera circolazione (così come ribadita, da ultimo, dalla circolare ministeriale n. 2 del 2006, cit.) dei cittadini polacchi nell’ambito dei Paesi aderenti, non ha alcuna influenza sulle condotte criminose commesse in data antecedente alla ratifica del Trattato di adesione, poiché la qualifica di cittadino di Stato non appartenente alla U.E. è un presupposto della condotta, che però non concorre a delineare il precetto penale previsto dall’art.12, D. Lgs. n. 286 del 1998. Ne consegue che, qualora il Paese di appartenenza dell’imputato venga a far parte della U.E. in epoca successiva alla commissione del reato, si verifica una successione di norme extrapenali, che non integrano la fattispecie incriminatrice, sì che non è consentita l’applicazione della disciplina prevista dall’art.2, commi 2 e 4, c.p. Sempre in materia di favoreggiamento dell’ingresso illegale dello straniero la medesima posizione è stata da ultimo affermata da Corte Cass. Pen., 20 luglio 2007, n. 29728, in cui si afferma che l’adesione successiva alla U.E. determina una variazione della rilevanza penale del fatto per le violazioni commesse successivamente a tale evento, con la conseguente inapplicabilità dell’art.2 c.p. al caso di specie. Già nel 2004 il Supremo Collegio (Corte Cass. Pen., Sez. VI, 16 dicembre 2004, n. 9233, Buglione ed altro, in CED Cass., rv. 23095) aveva negato, rispetto all’analogo caso della Lettonia, l’efficacia diretta di una modifica (di favore) della norma comunitaria di riferimento, “non vertendosi evidentemente in un caso di abolitio criminis”, pur precisando incidentalmente che l’applicazione del testo unico è limitata ai (soli) cittadini di Stati non appartenenti all’U.E. (art.1). Il giudice di legittimità “liquidò” la questione in queste pochissime righe, senza fornire alcuna giustificazione a supporto della tesi della irrilevanza dell’adesione; Id., 7 aprile 2004, n. 17973; Id., Sez. I, 12 maggio 2004, Deinita, RV. 228254; Id., Sez. I, 27 ottobre 2004, Passaro, RV. 229823; Id., Sez. II, 2 dicembre 2003, n. 4296, Stellaccio, rv. 228152.
147 Così ad esempio Corte Cass. Pen., 1 febbraio 2005, n. 9482, cit.; Id., Sez. III, 19 marzo 1999, n. 5457, Arlati, in CED Cass., rv. 213465.
148 Per un’analisi critica alla impostazione adottata dal Supremo Collegio cfr. Risicato, La restaurata ostilità delle Sezioni unite nei confronti delle modifiche mediate della fattispecie penale, in Dir. Pen. Proc., n. 3, 2008, p. 307 ss., Gambardella, Nuovi cittadini dell’Unione europea ed abolitio criminis parziale dei reati in materia di immigrazione, in Cass. Pen., n. 3, 2008, p. 909 ss.; Gargani, Il controverso tema della modifiche mediate della fattispecie incriminatrice al vaglio delle Sezioni unite, ivi, n. 6, 2008, p. 2694 ss.; in senso adesivo cfr., invece, Natalini, Le norme del Trattato comunitario non integrano il precetto penale, in Guida Dir., n. 9, 2008, p. 50 ss.
149 Cfr. Corte Cass. Pen., 20 luglio 2007, n. 29728, cit., che richiama i principi ermeneutici enunciati da Corte Cass. Pen., Sez. Un., 26 marzo 2003 n. 25887, Giordano, cit.
150 Fra cui, in particolare, Corte Cass. Pen, Sez. Un., 26 marzo 2003 n. 25887, Giordano, cit.
151 Cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 20 luglio 2007, n. 29728, cit.
152 È evidente che la Corte, nel dare soluzione alla questione di diritto intertemporale sottoposta al suo esame, abbia voluto scongiurare il rischio di un indebolimento della tenuta del sistema punitivo, che sarebbe seguito all’eventuale riconoscimento di un fenomeno di abolitio criminis parziale. E ciò in deroga al principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior o abrogatrice, a cui, peraltro, viene ormai pacificamente assegnato rango costituzionale in base al superiore principio dell’eguaglianza di trattamento (art.3 Cost.); nello stesso senso cfr. Gambardella, Nuovi cittadini, cit., p. 922 ss., secondo cui la decisione vuole soddisfare ragioni di “politica criminale”, al fine di contenere gli effetti dell’“amnistia occulta” (cfr. Donini, Discontinuità del tipo di illecito e amnistia, cit., p. 2857 ss.), riconducibili alla novatio legis in argomento (come anche a molti dei recenti provvedimenti di riforma del sistema penale), anche se ciò comporta una sostanziale abdicazione di quei canoni ermeneutici, rispettosi del principio del favor rei, di cui è stata fatta, invece, applicazione in altre pronunce.
153 A parere della Corte rientrano nella categoria delle norme extrapenali integratrici della fattispecie sia le disposizioni definitorie sia le norme penali in bianco, che “possono addirittura costituire il precetto, anche se in questo caso, vista la funzione che svolgono, si parla forse impropriamente di norme extrapenali”. Più in generale, “l'art. 2 c.p. può trovare applicazione rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la qualificazione di un elemento ma per l'assetto giuridico che realizzano, come può accadere per le norme penali richiamate dalla norma incriminatrice (e da considerare perciò alla stregua di norme extrapenali, nel senso di norme esterne a quella penale descrittiva del reato)”.
154 Cfr. Corte Cass. Pen, Sez. Un. 23 maggio – 16 luglio 1987, Tuzet, cit. Come già ricordato, la vicenda riguardava la sussistenza e permanenza del reato di peculato ai sensi dell’originario testo dell’art.314 c.p., in capo agli operatori di un istituto bancario di diritto pubblico, costantemente considerati dalla giurisprudenza incaricati di pubblico servizio anche dopo l’intervenuta privatizzazione del settore. La Corte, attraverso il riferimento al fatto concreto, ritiene applicabile l’art. 2, comma 2, c.p. sulla base della considerazione che la novatio legis ha fatto venire meno, in capo al dipendente bancario, la qualità di incaricato di pubblico servizio necessaria ai fini dell’integrazione del reato di peculato (nella specie per distrazione): “Quel fatto storico, illecito nel momento in cui fu commesso, non corrisponde più alla fattispecie astratta di reato”.
155 Perfettamente in linea con l’orientamento della Corte Costituzionale sancito nella nota sentenza 23 marzo 1988, n. 364, sull’ignoranza della legge penale inevitabile (“E' costituzionalmente illegittimo l'art. 5 cod. pen. nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile”), la decisione assolutoria del Pretore di Reggio Emilia, 13 giugno 1988, n. 458, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1988, p. 998, con la quale, in applicazione dell’art.5 c.p., si è deciso che “è inevitabile l’ignoranza della legge penale dell’artigiano il quale in base a un’informazione avuta dalla CNA, ritiene di essere piccolo imprenditore e dunque non tiene i libri e le scritture contabili prescritti dalla legge. Egli va dunque assolto dall’imputazione di bancarotta semplice documentale perché il fatto non costituisce reato”. Alcuni Autori sottolineano, però, giustamente la necessità di affermare in ipotesi simili la sussistenza di un errore su legge extrapenale, che determina un errore sul fatto del reato. Diversamente si corre il rischio di ridurre ulteriormente, con una indiscriminata applicazione dell’art.5 c.p., il già ristretto ambito di operatività dell’articolo 47, comma, 3 c.p. (cfr. Patrono, Problematiche attuali dell’errore nel diritto penale dell’economia, ivi, 1988, p. 117 ss.). In giurisprudenza aderisce alla tesi della dottrina dominante secondo cui in materia si avrebbe un errore sul fatto, Corte Cass. Pen., 31 maggio 1952, in Dir. Fall., 1953, II, p. 40, ove, in applicazione dell’art.47, comma 1, c.p., si afferma che quando si ha errore determinato da colpa, la punibilità della bancarotta semplice documentale non è esclusa, perché trattasi di fatto previsto dalla legge anche come delitto colposo.
156 Cfr. Ghidini, Imputabilità e punibilità per bancarotta semplice, in Dir. Fall., 1953, p. 40; Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari. Reati fallimentari, Milano, 2001, p. 117; Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 91; La Monica, I reati fallimentari, Milano, 1999, p. 424; Antonioni, La bancarotta semplice, Napoli, 1952, p. 237; Lugnano, Aspetti problematici nell'elaborazione giurisprudenziale dei reati di bancarotta, in Dir. Fall., I, 1983, p. 415; Tencati, La tenuta dei documenti contabili nel delitto di bancarotta, in Riv. Pen., 1986, p. 234; Contra, Santoriello, I reati di bancarotta, Torino, 2000, p. 248; Pagliaro, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, p. 139, che ritiene trattarsi di errore sul fatto derivante da errore di fatto.
157 Cfr. Conti, I reati fallimentari, Torino, 1991, p. 274.
158 Cfr. Antonioni, La bancarotta semplice, cit., p. 238, individua anche altre situazioni di rilevanza dell’errore, ad esempio il caso dell’amministratore che ignora il fatto dell’avvenuta nomina e, pertanto, non ritiene di essere obbligato a tenere i libri e le scritture contabili; qui l’errore ricade nell’ambito dell’ipotesi i cui all’art.47, comma 1, c.p.: errore sul fatto derivante da errore di fatto.
159 A tal proposito occorre precisare che il legislatore, formulando l'art.2 c.p. non parla di leggi che debbano essere necessariamente penali, sicché è, ormai, convinzione unanime che l'abolizione di una disposizione incriminatrice ben possa essere cagionata da successiva legge “non penale”, che contribuisca ad integrarne il precetto.
160 L’individuazione del fatto concreto come fulcro dell’efficacia della legge penale nel tempo si rivela, in realtà, importante anche per la definizione delle ipotesi di successione diretta di norme penali. Cfr. per la dottrina, Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Milano 1976, p. 145: “L'espressione "legge penale", contenuta nell'art. 2 comma terzo cod. Pen., deve ritenersi comprensiva non solo delle leggi extrapenali espressamente richiamate dalla norma penale, e integranti il precetto, ma anche di quelle leggi che ne costituiscono l'indispensabile presupposto o che concorrono a determinarne, anche parzialmente e implicitamente, il sostanziale contenuto o dalle quali comunque non può prescindersi nel valutare gli elementi penalmente rilevanti della condotta”.
161 Cfr. Corte Cass. Pen., 16 aprile 1984, n. 3478, ove si afferma che la legge notarile deve ritenersi integratrice dell'art.479 c.p. sulla base dell'art. 2 c.p. (nella specie era stato ritenuto che, ai fini dell'indagine sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di falso ideologico commesso da notaio nell'autenticazione di firma, il disposto dell'art.72 della legge notarile, il quale prevede che il notaio stesso nell'autenticare sottoscrizioni apposte su scritture private deve dichiarare che le medesime sono state apposte “in sua presenza”, non ha subito modifiche per effetto dell'art.1, L. 10 maggio 1976, n. 333, che ha soltanto previsto la possibilità per il notaio di formare il suo convincimento, al momento della attestazione, circa la identità personale delle parti mediante la valutazione di ogni elemento utile; analogamente cfr. Corte Cass. Pen., 20 ottobre 1981, n. 9219, in Giust. Pen., 1983, II, p. 25). Per la dottrina cfr. Casu, Sull'acquisizione da parte del notaio della certezza dell'identità del sottoscrittore, in Riv. Notariato, 2005, n. 2, p. 320.
162 La Corte opera un richiamo a quella giurisprudenza, già citata, formatasi in materia di contrabbando e di esercizio abusivo della professione, la quale ha riconosciuto che la norma amministrativa sopravvenuta, consentendo ora di importare le merci dalla Jugoslavia o di assumere la difesa penale anche al praticante avvocato, incide sul precetto, facendolo venir meno. Nel caso di specie, infatti, il valore normativo del fatto è dato dalla combinazione della norma penale che pone il divieto, apprestando la relativa sanzione in caso di sua violazione e la norma amministrativa che ha funzione di completamento del precetto; ciò succede quando la norma extrapenale qualifica l'oggetto o le modalità della condotta, ponendo, quindi, concorrere a delineare il precetto penale già nella sua dimensione astratta; per contro, ciò non potrebbe mai accadere quando essa definisce un presupposto della condotta, potendosi unicamente riflettere sulla rilevanza penale del fatto concreto. Non sarebbe, peraltro, ravvisabile alcun divieto di applicazione retroattiva di tale norma, che, secondo la corrente opinione si ritiene operi solo per la condotta e non anche per gli estremi materiali che fungono da presupposto, i quali pertanto possono anche venire ad esistenza prima dell'entrata in vigore della norme incriminatrice. Alcuni interpreti ritengono questa distinzione insufficiente a tratteggiare compiutamente il fenomeno e sostengono, invece, che occorra indagare volta per volta il bene giuridico tutelato dalle norme passata e presente, al fine di stabilire se l’innovazione legislativa influisca o meno sulla situazione sottoposta alla tutela della legge penale (cfr. in materia di rilevanza penale dell'omessa bonifica dei siti inquinati ex art.51-bis, D. Lgs., 5 febbraio 1997, n. 22 (sostituito dall’art.257, D. Lgs., 3 aprile 2006, n. 152), cfr. Corte Cass. Pen., Sez. III, 28 aprile 2000, Pizzuti, 2002, in Cass. Pen., 2001, p. 2479, ove si stabilisce che fra i soggetti tenuti alla bonifica vanno inclusi anche coloro che hanno inquinato prima dell'entrata in vigore delle norme, che impongono penalmente tale obbligo; in senso critico, Micheletti, Il reato di contaminazione ambientale, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2004, p. 145 ss. La circostanza che ai fini della sussistenza del reato, i presupposti devono sussistere, preesistere od essere concomitanti alla condotta, oltre che conosciuti o conoscibili da parte dell’agente, e che, nella specie, il legislatore abbia configurato un fatto-presupposto “atipico”, che dipende dalla condotta dello stesso soggetto, tenuto poi all’adempimento dell’obbligo di decontaminazione del sito, non può condurre a ritenere irrilevante il momento causativo del fatto di inquinamento, da cui origina l’obbligo di bonifica, il cui inadempimento è penalmente sanzionato dall’art.51-bis, cit. Pertanto, se non si vuol violare il precetto di cui all’art.11, disp. prel. c.c., e conseguentemente stravolgere la portata dell’art.51-bis, occorre ritenere che il nuovo regime sulla bonifica dei siti contaminati sia operante esclusivamente con riferimento ai fatti di inquinamento “cagionati” dopo l’entrata in vigore del nuovo regime ed, in specie, dopo il 16 dicembre 1999, data in cui sono entrati in vigore i limiti di accettabilità previsti dall’art.17, comma 2).
163 Leggi in forza delle quali, come noto, i cittadini dei nuovi Stati membri, presenti sul territorio italiano, sono destinati a perdere la qualifica di clandestini e ad acquisire i diritti di libera circolazione e di libero stabilimento spettanti ai cittadini comunitari.
164 La normativa che individua i diversi Stati appartenenti all’Unione europea fornisce la definizione della nozione di straniero, la cui sostanziale modifica incide in modo essenziale sulla portata del precetto, rendendo, pertanto, applicabile la disciplina di cui all’art.2 c.p. Da ciò discende che gli imputati di reati commessi sulla base di una qualificazione soggettiva non più esistente debbano essere assolti con la formula “perché il fatto non è previsto (più) dalla legge come reato” ai sensi dell’art. 129 c.p.p..
165 Tale precisazione è vieppiù doverosa con riguardo a quelle previsioni, come ad esempio quelle contemplata dall’art.14 comma 5-ter, D. Lgs. n. 286 del 1988, che configurano non già un reato comune, bensì un reato proprio dello straniero. In secondo luogo, risulta del tutto evidente come il fulcro del disvalore del fatto si incentra sull’elemento normativo sopra indicato, tanto che l’intera normativa di cui al D. Lgs. n. 286 del 1998 concerne “la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, inapplicabile, per espressa disposizione di legge, a chi straniero non sia.
166 Cfr. Pulitanò, Principio di uguaglianza e norme penali di favore, in Corr. Mer., n. 2, 2007, p. 212.
167 Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394. In dottrina Marinucci, Irretroattività e retroattività nella materia penale: gli orientamenti della Corte costituzionale, in Dir. Pen. Giur. Cost., Napoli, 2006, p. 89.
168 Cfr. Romano, Commentario sistematico, cit., p. 66: “Quando una nuova legge modificatrice restringe l’area di illiceità della precedente, continuano bensì ad essere illeciti i tipi di condotte che, reati secondo la legge abrogata, lo siano anche per la nuova, ma cessano di esserlo, invece, i tipi di condotte mancanti di elementi da essa richiesta. Per questi si ha un’abolitio criminis parziale”. Nella giurisprudenza di merito, a favore dell’applicabilità dell’art.2, comma 2, c.p., cfr., per tutte, Trib. Roma, 25 novembre 2005, cit.
169 Nella valutazione complessiva della fattispecie criminosa devono ricomprendersi tutti gli elementi rilevanti ai fini della integrazione del fatto-reato, e tra questi elementi significativi, che incidono sulla dimensione lesiva del fatto, sono indubbiamente ricomprese le qualifiche soggettive.
170 Il fenomeno successorio coinvolgente la qualifica di straniero è avvenuto, più nello specifico, mediante l’emanazione di Trattati ed Atti comunitari, ossia mediante fonti normative “super primarie”, che l’Italia, in base al Trattato istitutivo dell’Unione europea, si è impegnata a rispettare.
171 In questo senso cfr. Corte Cass. Pen., Sez. Un., 23 maggio 1987, Tuzet, cit.; Id., Sez. III, 29 gennaio 1998, n. 4176, Sciacchiano, in CED Cass., rv. 210696. Così, per tutti, Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2005, p. 156: tale tesi, in ossequio ai principi costituzionali di uguaglianza e di garanzia che governano la materia della successione di leggi nel tempo, tiene conto della differenza di trattamento giuridico-penale derivante, per lo stesso fatto, dalla modifica legislativa sia pure “mediata”, cosicchè, di fronte alla diversità di disciplina giuridica, tra quella vigente al momento del fatto e quella vigente al momento del giudizio, il principio generale sovraordinato all’intera materia esige che trovi applicazione quella normativa, da cui discende il trattamento più favorevole per il reo.
172 Cfr. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, cit.
173 “La consapevolezza dell’agente che di lì a breve il proprio Stato entrerà nella CE lo indurrebbe a trasgredire senza alcun timore l’art. 14, comma 5-ter, d. lgs. 286 del 1998, confidando poi nella successiva abolitio criminis”; per una recente applicazione giurisprudenziale della sentenza in commento cfr. Corte Cass. Pen., Sez. I, 23 aprile 2008, n. 16786, che annulla con rinvio la pronuncia assolutoria adottata nei confronti di un imputato di nazionalità rumena per il reato ex art.14, comma 5-ter, T.U. Imm., “in quanto - come recentemente stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte - è da escludere che l'ingresso della Romania nell'Unione Europea dia origine ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo a norma dell’art.2 c.p. e che, quindi, per le precedenti violazioni delle norme in materia di immigrazione clandestina sia giustificato il proscioglimento dell'imputato perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
174 Ci si riferisce al D. L., 1 novembre 2007, n. 181 (in G.U. 2 novembre 2007, n. 255), contenente Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza, decaduto per mancata conversione, le cui disposizioni sono poi state inserite nel D. L., 29 Dicembre 2007, n. 249, anch’esso decaduto. La relativa normativa è, infine, confluita in larga misura nel D. Lgs., 28 febbraio 2008, n. 32.
175 Fra le novità più significative introdotte dal già citato “pacchetto sicurezza” (D. L. n. 92 del 2008), va, altresì, menzionata la riformulazione degli artt.235 e 312 c.p., (adesso rubricati Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato), che ora prevedono, accanto alla misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero, anche l’allontanamento del cittadino “appartenente ad uno Stato membro dell'Unione europea”. Tale aggiunta è da ritenersi superflua, in quanto la nozione codicistica di straniero di cui all’art.4 c.p. è già comprensiva del cittadino comunitario, differendo da quella recepita dall’art.1 T.U. Imm. di cui si è già dato conto.
176 Come noto, l’art.65, R. D., 30 gennaio 1941, n. 12, attribuisce alla Corte di Cassazione il delicato compito di assicurare la uniforme interpretazione del diritto, definito nella prassi funzione nomofilattica. L'interpretazione data dalla Corte non ha, comunque, alcun valore vincolante, stante i principi sanciti a livello costituzione di soggezione del giudice solo alla legge (art.101, comma 2, Cost.) e di uguaglianza tra magistrati, che si distinguono tra loro “solo per diversità di funzioni” (art.107, comma 3, Cost.), nonché del principio del libero convincimento dettato in materia di valutazione della prova. Infatti, interpretazioni difformi sono ammissibili, purché il giudice dia conto dell’iter che ha portato alla formazione del proprio convincimento, iter che deve connotarsi per la sua logicità e corrispondenza a canoni di completezza e razionalità, onde evitare che tale libertà si trasformi in puro arbitrio interpretativo. Ne consegue che nel nostro ordinamento, pur non potendosi configurare un dovere di conformità alla interpretazione resa dalla Corte, nondimeno il giudice che decida di discostarsi dal principio interpretativo enunciato sarà tenuto alla soddisfazione di un obbligo motivazionale più stringente ex art.111 Cost. In altri termini, lo stesso dovrà esercitare un convincimento “libero”, ma “ponderato”, soprattutto tenuto conto della posizione di vertice che l'organo dotato di tale funzione ricopre nel sistema delle impugnazioni. Circa la funzione nomofilattica delle Sezioni unite civili, cfr., invece il D. Lgs., 2 febbraio 2006, n. 40, di attuazione della legge delega per la competitività del 14 maggio 2005, n. 80: al fine di ridefinire l’assetto giuridico relativo al rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici della Cassazione, con la novella in esame è stato stabilito che “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”, imponendo all’interprete di tener presente l’esistenza di un nuovo principio giuridico, in base al quale la decisione della Suprema Corte, presa a Sezioni unite, è vincolante (seppur non in modo assoluto) per le Sezioni semplici, nel senso che, queste ultime, non potranno discostarsene e decidere la quaestio iuris in modo difforme.
177 Quella che gli anglosassoni definirebbero persuasive authority.
178 Nelle sentenze passate in rassegna, nonché nei precedenti ivi citati, si è visto che la normativa extrapenale può venire in considerazione ai fini dell'applicazione della norma penale essendo richiamata da uno qualsiasi degli elementi del fatto di reato: nel caso del contrabbando doganale serve per individuare l'oggetto della condotta (merci sottoposte ai diritti di confine), nel caso dell'esercizio abusivo della professione serve per individuare il carattere abusivo della condotta.
179 Cfr., per tutte, Corte Cass. Pen., Sez. III, 1 febbraio - 10 marzo 2005, Pitrella, rv. 231228; Id., Sez. III, 12 marzo - 14 maggio 2002, Pata, rv. 221943; Id., Sez. Un. n. 8342 del 1987, cit.
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