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ALTALEX NEWS


martedì 15 luglio 2008

Cassazione - Sezione terza - sentenza - 19 giugno 2008, n. 25104 riproduzione detenzione possesso utilizzo programmi software pirata

Cassazione - Sezione terza - sentenza - 19 giugno 2008, n. 25104

riproduzione detenzione possesso utilizzo programmi software pirata - art. 444 c.p.p. di euro 9.400,00 di multa (di cui euro 5.400,00 in sostituzione di mesi 4 di reclusione) per il reato di cui all'art. 171 bis comma 1 L. L.633/1941, come modif. dalla L.248/2000, per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software - non è più previsto il dolo specifico del "fine di lucro" ma quello del "fine di trarne profitto (Cassazione - Sezione terza - sentenza - 19 giugno 2008, n. 25104)

dalla rivista foroeuropeo.it

http://www.foroeuropeo.it/sen/cas/08/25104.htm

Cassazione SS. UU. Pen. Sentenza n. 28606 del 24 aprile 2008 - depositata il 10 luglio 2008 STUPEFACENTI COLTIVAZIONE

Cassazione SS. UU. Pen. Sentenza n. 28606 del 24 aprile 2008 - depositata il 10 luglio 2008

Con due sentenze rese in pari data, le Sezioni Unite hanno chiarito che "costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale", osservando in particolare che: (a) non è individuabile un "nesso di immediatezza tra la coltivazione e l'uso personale", ed è conseguentemente impossibile "determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione" (cfr. Corte cost. n. 360 del 1995): la fattispecie in esame ha, infatti, natura di reato di pericolo presunto, che fonda sulle "esigenze di tutela della salute collettiva", bene giuridico primario che "legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto"; (b) il fatto che, anche dopo l'intervento normativo del 2006, gli artt. 73 co. 1-bis e 75 co. 1 d. P.R. n. 309 del 1990 non richiamino la condotta di <<>>, lascia ritenere, nel rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, che il legislatore ha inteso "attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale"; (c) è arbitraria la distinzione tra <<>> ovvero <<>> e <<>>, non legittimata da alcun riferimento normativo, e superata dal rilievo che qualsiasi tipo di <<>> è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo rispetto alla <<>> di "contribuire ad accrescere … la quantità di sostanza stupefacente esistente". A parere del Supremo Collegio, spetta inoltre al giudice "verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva"; peraltro, la condotta de qua è <<>> soltanto "se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile"

http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaPenale/SezioniUnite/SchedaNews.asp?ID=1225

martedì 1 luglio 2008

CASSAZIONE Sezioni Unite Penali Sentenza n. 25932 del 29 maggio 2008 - depositata il 26 giugno 2008

CASSAZIONE SS. UU. SENTENZA N. 25932 UD. 29/05/2008 - DEPOSITO DEL 26/06/2008

MISURE CAUTELARI – REALI – SEQUESTRO PREVENTIVO – RIESAME - PERSONA OFFESA – INTERVENTO SPONTANEO NEL PROCEDIMENTO
Con due sentenze emesse in pari data le Sezioni unite hanno statuito il principio di diritto secondo cui la persona offesa, che vanta il diritto alle restituzioni, può spontaneamente intervenire nel giudizio di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo, come si desume dalla previsione di legge che le riconosce il potere di proporre la richiesta di riesame, e così può produrre documenti e altri elementi di prova, oltre che partecipare all’eventuale successivo giudizio di legittimità, eventualmente da essa stessa promosso, con correlativo diritto di ricevere i prescritti avvisi.

PER il Testo Completo: Sentenza n. 25932 del 29 maggio 2008 - depositata il 26 giugno 2008

(Sezioni Unite Penali, Presidente G. Lattanzi, Relatore B. Rossi)

cliccare sul link sottostante

http://www.cortedicassazione.it/Documenti/25932.pdf

CASSAZIONE SEZIONI UNITE SENTENZA N. 25931/2008 DECRETO COMPENSI PROFESSIONALI PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE SENTENZA N. 25931 UD. 24/04/2008 - DEPOSITO DEL 26/06/2008

DIFESA E DIFENSORI- PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – DECRETO COMPENSI PROFESSIONALI – OPPOSIZIONE - SPESE E ONORARI – LIQUIDAZIONE
Il difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato, che proponga opposizione avverso il decreto di pagamento dei compensi professionali, ha diritto alla liquidazione degli onorari e delle spese imputabili al relativo procedimento, sempre che l’opposizione sia, almeno parzialmente, accolta, alla stregua di quanto disposto dagli artt. 91 e 92, commi 1 e 2, c.p.c. in tema di ripartizione delle spese giudiziali secondo il principio di soccombenza.

Sentenza n. 25931 del 24 aprile 2008 - depositata il 26 giugno 2008(Sezioni Unite Penali, Presidente V. Carbone, Relatore E. Gironi)

per leggerla cliccare sul link sottostante

http://www.cortedicassazione.it/Documenti/25931.pdf

giovedì 5 giugno 2008

Risoluzione n. 260 del 21/09/2007 Oggetto: Procedimento di opposizione al decreto di pagamento ex artt. 84 e 170 d.P.R. 115/2002 - Atti di volontaria

Risoluzione Ag. Entrate n. 260 del 21/09/2007
Oggetto: Procedimento di opposizione al decreto di pagamento ex artt. 84 e 170 d.P.R. 115/2002 - Atti di volontaria giurisdizione - Imposta di registro
è possibile accedere al testo dal link sottostante dell'Agenzia delle Entrate

http://www.agenziaentrate.it/ilwwcm/resources/file/eba1044288e4aa0/260.pdf

rimane la domanda : "su chi deve far carico l'effettivo pagamento dell'imposta"? e se il valore è inferiore ai 2 milioni di Lire va considerato esente?

mercoledì 4 giugno 2008

Corte di Cassazione – Sez. VI pen. Sent. del 22.05.2008, n. 20647

Cassazione penale 20647/2008
Maltrattamenti in famiglia e more uxorio
La disciplina dei maltrattamenti in famiglia può essere applicata anche alle convivenze more uxorio.
può essere letta dal sito diritto in rete al link sotto indicato

http://www.diritto-in-rete.com/sentenza.asp?id=658

ancora sul quesito di diritto nel ricorso per Cassazione in materia civilistica

http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaCivile/SezioniSemplici/SchedaNews.asp?ID=2083

CASS SS UU SENTENZA N. 19601 UD. 28/02/2008 SU REATI FALLIMENTARI

CASS SS UU SENTENZA N. 19601 UD. 28/02/2008 - DEPOSITO DEL 15/05/2008

REATI FALLIMENTARI – SENTENZA DI FALLIMENTO – PRESUPPOSTI - SINDACATO DEL GIUDICE PENALE – ESCLUSIONE - MODIFICHE ALL’ART. 1 L.FALL. - APPLICABILITA’ DELL’ART. 2 C.P. - ESCLUSIONE
Le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 l. fall. per la fallibilità dell’imprenditore; pertanto, le modifiche apportate all’art. 1 l. fall., prima dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 non esercitano influenza, ai sensi dell’art 2 c.p., sui procedimenti penali in corso.

Testo Completo: Sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008 - depositata il 15 maggio 2008
AL LINK
http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaPenale/SezioniUnite/SchedaNews.asp?ID=1163

CASS SS UU N 19602_2008 NOTIFICAZIONI EX ART 157 CO. 8 BIS CPP AL DIFENSORE DI FIDUCIA

CASS SS. UU. SENTENZA N. 19602 UD. 27/03/2008 - DEPOSITO DEL 15/05/2008

NOTIFICAZIONI – IMPUTATO NON DETENUTO – SUCCESSIVE ALLA PRIMA – CONSEGNA AL DIFENSORE DI FIDUCIA – PREVALENZA SU DOMICILIO DICHIARATO O ELETTO – ESCLUSIONE
Le Sezioni unite hanno affermato il principio di diritto secondo cui le notificazioni all’imputato non detenuto, successive alla prima, devono essere eseguite mediante consegna di copia al difensore di fiducia, ai sensi dell’art. 157, comma 8 bis, c.p.p. sempre che l’imputato non abbia dichiarato o eletto domicilio. La facoltà di dichiarare o eleggere domicilio, peraltro, può essere esercitata anche dopo la nomina del difensore di fiducia ed ha l’effetto di impedire il ricorso alla notificazione per mezzo di consegna di copia al difensore. (v. anche (v. anche C. cost., sent. n. 136 del 2008)
Testo Completo:
Sentenza n. 19602 del 27 marzo 2008 - depositata il 15 maggio 2008
Il testo della sentenza è possibile leggerlo cliccando sul link sotto indicato.

http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaPenale/SezioniUnite/SchedaNews.asp?ID=1164

martedì 6 maggio 2008

RICORSO PER CASSAZIONE CIVILE: MOTIVI DI RICORSO E QUESITI DI DIRITTO

La più recente giurisprudenza della Suprema Corte ha assunto degli indirizzi molto rigorosi sui motivi e sulle modalità di formulazione dei quesiti di diritto del ricorso per Cassazione in materia civile. L'Ufficio del Massimario della S. C. ha realizzato un'interessantissima relazione sullo stato della giurisprudenza di legittimità su tali argomenti.
la relazione è accessibile dal sottostante indirizzo internet

http://www.cortedicassazione.it/Notizie/SchedaNewsCivile.asp?ID=1951

lunedì 21 aprile 2008

LA BANCA DATI DEL C.N.F.

prova la banca dati del c. n. f. clicca sull'indirizzo sotto riportato e sarai reindirizzato automaticamente

http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp

domenica 13 aprile 2008

d. P. R. 445/2000 "Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa. (Testo A)."

il d. P. R. 445/2000 prevede la possibilità per i cittadini comunitari di fornire in sotituzione delle certificazioni delle dichiarazioni sostitutive. il testo della norma che contiene anche altre utilità per l'utente e delle responsabilità per l'ufficio addetto alla ricezione, nonchè responsabilità per la veridicità delle dichiarazioni per chi le effettua è consultabile all'indirizzo sotto indicato:

http://www.parlamento.it/leggi/deleghe/00443dla.htm

martedì 8 aprile 2008

ARCHIVIO DI DOTTRINA GIURIDICA

http://nir.ittig.cnr.it/dogiswish/Index.htm

Cassazione penale SS.UU. 8413/2008

Cassazione penale SS.UU. 8413/2008 Pluralità di reati ed omessa somministrazione di mezzi di sussistenza.
dal sito diritto-in-rete.com
http://www.diritto-in-rete.com/sentenza.asp?id=613

Cassazione penale 6277/2008 Datore di lavoro e posizione di garanzia

Cassazione penale 6277/2008 Datore di lavoro e posizione di garanzia
dal sito diritto in rete .com

http://www.diritto-in-rete.com/sentenza.asp?id=599

Cassazione penale SS.UU. 7945/2008 Errore materiale nella sentenza

Cassazione penale SS.UU. 7945/2008 Errore materiale nella sentenza
tratta dal sito diritto-in-rete.com

http://www.diritto-in-rete.com/sentenza.asp?id=625

Legge 18 marzo 2008, n. 48 Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica, Budapest 23.11.2001

Legge 18 marzo 2008, n. 48 - Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001,e norme di adeguamento dell'ordinamento interno - (G.U. 4 aprile 2008, n. 80; s.o. n. 79).7.4.2008, tratta dal sito diritto-in-rete.com

domenica 6 aprile 2008

giovedì 3 aprile 2008

REQUISITI PER LA VALIDITA' DELLE COMUNICAZIONI DI CANCELLERIA EX ART. 136 C.P.C. AI DIFENSORI

Comunicazioni via Mail – Comunicazione di cancelleria a mezzo e mail - Valida la comunicazione di cancelleria ex art. 136 cod. proc. civ. effettuata per e-mail all’indirizzo elettronico comunicato dal difensore al proprio Consiglio dell’ordine e da questo alla corte d’appello competente - Il destinatario deve dare risposta per ricevuta non in automatico (Sentenza n. 4061 del 19 febbraio 2008) http://www.foroeuropeo.it/sen/cas/pdf/04061_2008.pdf
dal sito www.foroeuropeo.it

mercoledì 20 febbraio 2008

Cassazione penale Sentenza, Sez. IV, 28/01/2008, n. 4153 - liquidazione dell'onorario del difensore d'ufficio dell'irreperibile di fatto -

Un’importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione ( Cassazione penale Sentenza, Sez. IV, 28/01/2008, n. 4153 reperibile sull’indirizzo internet http://www.praticantidiritto.it/news_dett.aspx?nwid=723 con relativo commento) affronta il tema quid juris per la liquidazione dell’onorario del difensore d’ufficio di persona domiciliata presso tale difensore ma di fatto irreperibile.
Come è noto, a termini dell'art. 116 d.P.R. 115/2002, l 'onorario e le spese spettanti al difensore di ufficio sono liquidati dal magistrato «quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali». Mentre per l’ art. 117 del d.P.R. 115/2002, non è necessaria una preventiva attivazione del legale d'ufficio per il recupero del credito professionale nel caso in cui l’imputato (o l’indagato o il condannato) sia “irreperibile”. In tali ipotesi, infatti, è sufficiente che il difensore formuli direttamente al Giudice l’istanza di liquidazione corredata di nota spese senza svolgere alcuna preventiva attività finalizzata al recupero del credito per l’attività professionale svolta. La giurisprudenza è divisa : secondo un orientamento, per l’applicazione dell’art. 117 sarebbe necessario che l’imputato sia stato preventivamente dichiarato irreperibile (in questo senso cfr. Cass, Sez. IV 20.12.2002, Battistella, CED 224011) con un effettivo decreto di irreperibilità emesso in tal senso dall’A.G.; tra l’altro, secondo un orientamento restrittivo sarebbe dubitabile che l’art. 117 possa trovare applicazione nel caso in cui l’imputato abbia eletto domicilio presso il difensore d’ufficio. La sentenza affronta il tema appena delineato sostenendo che, ai fini dell’art. 117, viene in considerazione la condizione di fatto di irreperibilità dell’imputato, a nulla rilevando l’eventuale elezione di domicilio presso il difensore. E’ questa sicuramente un’interpretazione di buon senso fornita dalla Suprema Corte nell’interpretazione della norma, in primo luogo in quanto l’art. 117 citato non utilizza l’espressione “che sia dichiarato irreperibile” – con evidente necessaria applicabilità dell’art. 159 c.p.p. - preferendo piuttosto la semplice espressione “irreperibile”. Secondo la Corte, infatti, «l’art. 117 non specifica la significazione del termine “irreperibile”; in particolare non si richiamano espressamente gli artt. 159 e 160 c.p.p., sicché, in sostanza, non si chiarisce se “irreperibile” è solo il soggetto che tale sia stato dichiarato nel corso del procedimento penale con apposito decreto del giudice, ovvero anche la persona che, pur rintracciata nel procedimento penale, venga successivamente a trovarsi in una situazione di sostanziale irrintracciabilità». In relazione all’“irreperibilità” invocata dall’art. 117 d.P.R. 115/2002 la dicotomia concettuale si divide tra chi vuole accedere ad una concezione strettamente giuridica della categoria, secondo cui occorre la previa emissione di apposito decreto ex art. 159 c.p.p., e chi propone l’approccio ad una concezione sostanzialistica, che invece dà rilievo alla situazione di fatto, anche in assenza di apposita dichiarazione con il decreto.
Secondo la Corte ai fini del giudizio di irreperibilità assume rilievo la circostanza che se il debitore sia «sostanzialmente irrintracciabile, anche in mancanza di un formale decreto ex art. 160 c.p.p., sicché non era esigibile da parte del difensore istante alcuna previa procedura intesa al recupero del credito professionale, tenuto conto anche della sostanziale equiparazione quoad effectum tra irreperibilità formalmente dichiarata ex art. 159 c.p.p. e quelle presunta ex lege ai sensi dell’art. 161, comma 4, c.p.p.».
Va inoltre sottolineato che tale principio interpretativo apporta diversi vantaggi al sistema. Infatti, stanti le continue dichiarazioni di assoluta difficoltà a gestire il carico delle liti giudiziarie nei rispettivi uffici e dei relativi costi – costantemente denunciati come in aumento – che progressivamente il sistema sostiene, tale scelta interpretativa risolverebbe i disagi per l’intasamento delle procedure di recupero dei crediti, limitando al contempo sia le spese (si pensi ai costi per Giudici di Pace che emettono il decreto ingiuntivo, le anticipazioni a debito degli Ufficiali Giudiziari che notificano, le ulteriori anticipazioni a debito dei contributi unificati e delle spese di registro e l’utilizzo di personale che nel contempo rimane sommerso di inutili procedure di recupero nei confronti di persone sostanzialmente non identificate).
Tra l’altro, lo Stato – appena diventi rintracciabile la persona nei cui confronti ha anticipato il pagamento delle spese difensive – può recuperare le sue anticipazioni attraverso i canali che già utilizza per il recupero delle spese di giustizia nei confronti dell’obbligato attraverso le cartelle di pagamento. Questa semplificazione può solo apportare benefici all’intero sistema e anche rendere più attento il cittadino sottoposto a giudizio penale circa l’opportunità di seguire l’iter del processo anziché disinteressarsene.
(di Amalia Lamanna - Riproduzione vietata senza citare fonte e autore-)

lunedì 4 febbraio 2008

L'omesso versamento di somme dovute quale mantenimento all'ex coniuge è procedibile d'ufficio

SENTENZA N. 39392 UD.03/10/2007 - DEPOSITO DEL 24/10/2007
DELITTI CONTRO L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA - ART. 12 SEXIES L. 1 DICEMBRE 1970, N. 898 - PROCEDIBILITA' D'UFFICIO
La Corte, pronunciandosi su una questione controversa, ha affermato che il reato di omesso versamento di somme dovute a titolo di mantenimento all'ex coniuge (art. 12 sexies L. 1° dicembre 1970, n. 898) è procedibile d'ufficio. In motivazione, la Corte ha ricordato tra l’altro come tale regime sia stato ritenuto non meritevole di censura dalla Corte costituzionale, in relazione a quello di procedibilità a querela previsto per il reato di cui all’art. 570 c.p. (sentt. nn. 325 del 1995 e 472 del 1989).
Sentenza n. 39392 del 3 ottobre 2007 - depositata il 24 ottobre 2007(Sezione Sesta Penale, Presidente B. Oliva, Relatore G. Fidelbo)
La sentenza è stata massimata, per la visualizzazione della massima e del testo integrale della sentenza consultare la banca dati Italgiure-Web

L'art. 157 co 8 bis cpp va davanti alle Sezioni Unite

ORDINANZA N. 2259 UD.05/12/2007 - DEPOSITO DEL 16/01/2008
NOTIFICAZIONI - IMPUTATO CHE ABBIA DICHIARATO O ELETTO DOMICILIO A NORMA DELL'ART. 161 C.P.P. - NOTIFICAZIONE SUCCESSIVA NELLE FORME DELL'ART. 157, COMMA 8-BIS C.P.P. - RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE
Con la decisione in esame, la Corte, preso atto di un contrasto di giurisprudenza sul punto, ha rimesso alle Sezioni Unite il ricorso proposto sul rilievo che la notificazione dell’avviso di fissazione del giudizio risultava effettuata al difensore di fiducia nelle forme dell’art. 157, comma 8-bis cod. proc. pen., nonostante la preesistenza di una dichiarazione di domicilio. Tale questione ha dato origine a contrastanti pronunce della Suprema Corte (nel senso dell’illegittimità: sez. V, n.8108/2007, Landro; nel senso della legittimità: sez. III, n. 41063/2007, Ardito).
Ordinanza n. 2259 del 5 dicembre 2007 - depositata il 16 gennaio 2008(Sezione Terza Penale, Presidente E. Papa, Relatore A. Fiale)
( maggiori informazioni sono reperibili sul sito www.cortedicassazione.it )

sabato 2 febbraio 2008

cassazione penale sez. II n. 36642 del 5.10.2007 Lavoro in nero. Minaccia da parte del datore di lavoro di licenziamento. Estorsione

Cassazione penale, sez. II, sentenza 05.10.2007, n. 36642 Lavoro in nero. Minaccia da parte del datore di lavoro di licenziamento. Estorsione
Osserva1.1. Con sentenza in data 21-1-2003 la Corte di appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari, in riforma della sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Nuoro in data 7.11.2000 con la formula il fatto non sussiste, dichiarava – per quanto qui rileva – L. G., L. M. e M. A. responsabili dei delitti, ad essi rispettivamente ascritti, di estorsione aggravata e continuata e, concesse le attenuanti generiche, prevalenti sulle aggravanti contestate, li condannava alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ed € 800,00 di multa, nonché, in solido, al pagamento delle spese del doppio grado.Secondo la prospettazione accusatoria, recepita dai Giudici di appello, gli imputati avevano posto in essere una serie di comportamenti estorsivi nei confronti di proprie lavoratrici dipendenti, costringendole ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, approfittando della situazione di mercato in cui la domanda di lavoro era di gran lunga superiore all’offerta e, quindi, ponendo le dipendenti in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto di lavoro.La vicenda era ricostruita dalla Corte territoriale, sulla scorta della prova orale e documentale e, segnatamente, in base agli esiti delle indagini, confermati in sede di deposizione testimoniale, che l'Ispettorato del lavoro di Nuoro aveva effettuato con riguardo ai rapporti di lavoro intercorsi tra la s.a.s. X. (i cui soci erano L. M. e D. P., altra imputata, la cui posizione era stata stralciata) e le dipendenti Z. P., M. R., C. M. G. e F. A. in vari periodi tra il 1983 e il 1993 e, successivamente, esteso ai rapporti di lavoro intercorsi tra la ditta individuale Y. di M. A. (poi divenuta s.n.c. Y., con amministratore M. A. e, quindi, s.r.l. Y., con amministratore unico L. G. e la M. socia) e le dipendenti C. R., P. G., S. L. e P. M. in vari periodi tra il 1983 e il 1994.In particolare - con riguardo al capo A. di imputazione ascritto a L. M. (e alla D. P.) - si accertava che le indicate dipendenti della X. s.a.s. erano state assunte senza libretto di lavoro, non avevano ricevuto copertura assicurativa (tranne una e per un breve periodo), non avevano goduto ferie, né percepito corrispettivi per lavoro straordinario ed altri emolumenti ad essi spettanti e che le stesse firmavano prospetti-paga indicanti importi superiori a quelli percepiti. Inoltre la dipendente Z. P. era stata indotta a sottoscrivere un contratto di associazione in partecipazione, senza che la sua qualità fosse mutata, nonché costretta a mentire sulla propria posizione agli ispettori del lavoro, oltre che a firmare una dichiarazione in cui si assumeva la responsabilità, con il fidanzato, di un furto di capi di abbigliamento subito dall'azienda.Con riguardo al capo B. di imputazione, ascritto a L. G. e M. A., si accertava che le indicate dipendenti della ditta Y. erano state assunte senza libretto di lavoro, non godevano di assistenza assicurativa, firmavano buste paga per importi superiori a quelli realmente percepiti, non percepivano emolumenti ad essi spettanti (quali la quattordicesima mensilità) e ricevevano un trattamento corrispondente a quello del contratto di formazione lavoro, pur osservando un orario superiore a quello previsto dai contratti collettivi.I Giudici di primo grado, pur reputando accertati i fatti contestati nei capi di imputazione nella loro materialità, avevano ritenuto che difettasse il presupposto della minaccia di licenziamento illegittimo, correlata alle pretesa delle prestazioni lavorative alle condizioni richiamate. A parere del Tribunale non era ravvisabile una coartazione della volontà in senso penalmente rilevante, in quanto il licenziamento aveva costituito una condizione preesistente all'assunzione per le dipendenti che non avessero voluto accettare le chiare, anche se illegali, condizioni proposte dagli imputati.In contrario avviso i Giudici di secondo grado rilevavano che l'idoneità della condotta degli imputati a integrare l'elemento strutturale della minaccia emergeva da un complesso di elementi, quali l'ingiustizia della pretesa, la personalità sopraffattrice dei soggetti agenti, le circostanze ambientali quantomai favorevoli ai datori di lavoro. In particolare la Corte territoriale - sotto il profilo dell'ingiustizia della pretesa - escludeva la rilevanza della circostanza, evidenziata dalla difesa, secondo cui le pretese delle lavoratrici erano tutelabili innanzi al Giudice del lavoro, osservando che la F. e la C., pur vincitrici nelle relative cause, non erano riuscite ad ottenere alcunché dal L. M.; evidenziava, inoltre, una serie di comportamenti significativi della personalità dei soggetti agenti (e in particolare: la pretesa di L. M. nei confronti della Z. del rilascio della dichiarazione di ammissione del furto, dichiarazione che - come riferito dal teste F. B. - sarebbe stata utilizzata nei confronti della dipendente qualora avesse inteso ribellarsi alle inique condizioni di lavoro; la «fuga» imposta dalla M. A. a una dipendente allorché aveva avuto sentore della venuta degli ispettori; l'atteggiamento del L. G. e di M. A., inteso ad ostacolare i colloqui tra le dipendenti e l'ispettore del lavoro); infine precisavano che - quand'anche si ritenesse intervenuto tra i titolari dell'azienda e le lavoratrici un accordo contrattuale - non per questo andava esclusa la sussistenza dell'estorsione, dal momento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale la condotta dei fratelli L. e della M. risultava posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, quest'ultimo inteso come contributo di energie lavorative impiegate dalle persone offese a vantaggio del titolare dell'azienda in cambio di una retribuzione inferiore a quella dovuta e dichiarata nella busta-paga.Sulla base di tali premesse i Giudici di appello ritenevano L. M. responsabile del reato di estorsione come contestato sub A. nei capi di imputazione per i rapporti di lavoro relativi alla X. e i coniugi L. G. e M. A. concorrenti nel reato di estorsione contestato sub B. per i rapporti di lavori relativi alla Y.. Precisavano che, invece, la coppia L. G. e M. A. non doveva rispondere del reato di estorsione loro ascritto al capo A., quali presunti soci della ditta W. di Cagliari, non risultando che alcuna delle parti offese avesse lamentato alcunché relativamente ai rapporti di lavoro eventualmente intercorsi con l'indicata ditta cagliaritana.1.2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione L. G. e M. A., per mezzo del loro difensore, nonché L. M. di persona.1.2.1. Il difensore di L. G. e M. A. deduce:- violazione dell'art. 606 lett. b. c.p.p. con riferimento all'art. 629 c.p.; secondo la difesa la vicenda all'esame costituirebbe espressione del non eccezionale fenomeno del lavoro nero, ma non integrerebbe gli estremi dell'estorsione, giacché la violazione delle norme collettive risultava concordata tra le parti sin dall'origine, senza ricorso ad alcuna violenza;- violazione dell’art. 606 lett. e. c.p.p. con riferimento all'art. 629 c.p. e agli artt. 1427-1434-1435 c.c. - mancanza di motivazione; secondo la difesa la Corte di appello non avrebbe motivato sul punto del difetto di costrizione delle dipendenti nella determinazione dell'accordo contrattuale; inoltre non avrebbe tenuto conto dell'estraneità alla gestione di L. G..1.2.2. L. M. deduce:- violazione di legge e vizio di motivazione e, in particolare, violazione degli artt. 192 e 194 c.p.p. e 629 c.p.. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata avrebbe omesso di differenziare le posizioni degli imputati, nonché di effettuare uno scrutinio approfondito ai fini della credibilità oggettiva e soggettiva di testimoni che erano portatori di interessi confliggenti con quelli dell'imputato; inoltre avrebbe equivocato i significati di contrattazione e accordo, equiparando l'assenza di trattative con il costringimento morale; avrebbe, quindi, individuato la prova di tale costringimento nel mero condizionamento ambientale, che non potrebbe ascriversi al datore di lavoro; infine avrebbe confuso i piani di indagine, omettendo di considerare che l'ingiustizia della pretesa da sola non offre alcun elemento per ravvisare l'estorsione e neppure la personalità sopraffattrice del datore di lavoro, se non si dimostra che non sono stati posti in essere atti impeditivi dell'esercizio dei diritti. In altri termini - a parere del ricorrente - andrebbe distinta la situazione del datore di lavoro che rende impossibile o particolarmente gravoso l'esercizio del diritto da quella verificata in esame, in cui i Giudici di appello hanno accertato che due lavoratrici dipendenti hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti, ma che il L. non ha pagato: nel primo caso - si legge testualmente nel ricorso - «poteva parlarsi di estorsione, nel secondo, invece, di prigione per debiti».2.1. I due ricorsi, articolandosi sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, si incentrano su una comune e principale doglianza: entrambi i ricorrenti lamentano, infatti, che la Corte territoriale non abbia adeguatamente apprezzato la circostanza che la violazione delle normativa a tutela del lavoratore aveva costituito, nello specifico, il risultato di un accordo tra le parti, di tal che l'accordo, seppure illecito e nullo sotto il profilo privatistico, non integrerebbe un fatto rilevante agli effetti dell’art. 629 c.p., per difetto del requisito della minaccia.Ciò posto e considerato che la sostanziale identità delle censure consente una trattazione per buona parte unitaria, il nodo centrale della decisione si rivela quello della qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati; a tal fine occorre verificare se la ricostruzione del fatto storico sia suscettibile di censura sotto il profilo logico e, quindi, accertare se la fattispecie sia stata correttamente inquadrata nel paradigma dell'art. 629 c.p..In punto di diritto va premesso che l'oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l'interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione. L’evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente. In particolare il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini il soggetto passivo dell'estorsione è posto nell'alternativa di far conseguire all'agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit).In questa prospettiva anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l'altrui volontà; in tal caso l'ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto per il fine cui è diretto (cfr. Cass. pen. Sez. II 17 ottobre 1973, n. 877). Allo stesso modo la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr. Cass. pen. Sez. II, 5 marzo/28 aprile 1992 n. 1071). Ciò in quanto la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfì-. Cass. pen. Sez. II, 7 novembre 2000, n. 13043).Si spiega cosi perché la «minaccia», da cui consegue la coazione della p.o., possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma di esortazioni e di consigli. Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito perseguito dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonché l'idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente.Ciò precisato in via di principio, osserva il Collegio che le censure dei ricorrenti si rivelano generiche e, comunque, afferenti a valutazione riservate al Giudice del merito per quanto attiene alla ricostruzione dei fatti storici e all'interpretazione del materiale probatorio, mentre, sotto il profilo della violazione di legge, risultano infondate, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione del disposto dell'art. 629 c.p..Merita puntualizzare che - contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente L. M. - i riscontri fattuali dell'accusa non sono stati attinti dalle sole deposizioni di «persone (pretesamente) portatrici di interessi confliggenti con quelli dell'imputato», di cui non sarebbe stata valutata l'attendibilità, ma risultano desunti da un complesso di elementi di prova orale e documentale, ivi inclusi i risultati degli accertamenti effettuati dall'Ispettorato del lavoro, confermati in sede di deposizioni testimoniali; e ciò a prescindere dalla considerazione che il vaglio di attendibilità è imposto esclusivamente con riguardo alle dichiarazioni provenienti da coimputati o da imputati in procedimento connesso e non dalle parti offese.Si tratta, del resto, degli stessi elementi probatori già assunti dal Tribunale a conferma della materialità dei fatti enunciati nei capi dì imputazione, sebbene i Giudici di primo grado abbiano finito per escludere l'integrazione del reato di cui all’art. 629 c.p., sul presupposto, qui riaffermato dai ricorrenti, che l'alternativa (tra il licenziamento illegittimo e l'accettazione del trattamento retributivo deteriore e, in genere, delle condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi) fosse stata preventivamente prospettata alle lavoratrici dipendenti e avesse, quindi, costituito oggetto dell'accordo contrattuale tra le parti.In proposito è il caso di fare una precisazione, trattandosi di un punto cruciale della vicenda, su cui - segnatamente da parte del L. M. - vengono formulati specifici rilievi. Invero la Corte territoriale ha dichiarato di dissentire non solo dalle conclusioni in diritto, ma anche dalle premesse in fatto assunte dal Tribunale (cfr. pag. 6 e pag. 8), precisando di ritenere sufficientemente provata l'esistenza di un «accordo contrattuale» solo per la dipendente C. (la quale aveva riferito dell'esistenza di «patti» con la M. e di condizioni di lavoro chiarite sin dall'inizio) e forse anche per la C. (la quale aveva dichiarato che «all'atto dell'assunzione era consapevole» delle condizioni del rapporto). A tal riguardo il L. M. lamenta che i Giudici di appello abbiano confuso i due concetti di «accordo contrattuale» e «trattative», senza considerare che «la trattativa o libera contrattazione non è un presupposto necessario per l'instaurarsi di un rapporto di lavoro dipendente» (così a pag. 3 del ricorso).Orbene ritiene il Collegio che l'osservazione del ricorrente, seppure fa leva su un'indubbia improprietà espressiva, non scalfisce la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale si fonda sul principale rilievo dell'irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorché questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto. Invero - contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti - nella sentenza impugnata viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore delle dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l'offerta superava di gran lunga domanda) e in presenza di comportamenti costantemente prevaricatori dei datori di lavoro, sì da rendere evidente che anche nel caso (della C. e, forse, della C.) in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto la lavoratrice aveva «accettato» di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non fu libera, ma condizionata dall'assenza di possibilità alternative di lavoro.In tal modo la distinzione che la Corte territoriale ha operato tra la posizione delle lavoratrici C. e C., per le quali le condizioni di lavoro furono «chiare» sin dall'inizio e tutte le altre dipendenti che, invece, «chiedevano la regolarizzazione in costanza del rapporto di lavoro» (pag. 6 della sentenza impugnata) si rivela di secondario rilievo nell'economia della motivazione e non vale certo ad affermare l'essenzialità delle «trattative» per la stipula del contratto di lavoro, risultando, piuttosto, funzionale alla considerazione che - pur quando vi fu un'originaria «rinuncia» delle lavoratrici alla pretesa di rivendicare i propri diritti - non per questo risultavano esclusi gli estremi dell'estorsione.Valga considerare che questa Corte è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera (ex plurimis Cass. pen., Sez. II, 24/01/2003, n. 3779; Cass. pen., Sez. I, 11/02/2002, n. 5426). È questione, poi, riservata al Giudice del merito valutare se la condotta dell'imputato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un comportamento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, ponga concretamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nella alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, quale l'assenza di altre possibilità occupazionali.Orbene, nelle vicende all'esame, i Giudici di merito hanno elencato tali e tanti comportamenti prevaricatori dei datori di lavoro in costante spregio dei diritti delle lavoratrici (si pensi non solo all'erogazione di retribuzioni inferiori ai minimi sindacali e alla correlativa pretesa di far firmare prospetti-paga per importi superiori a quelli corrisposti, ma anche all'assenza di copertura assicurativa, alla mancata concessione delle ferie, alla prestazione di lavoro straordinario non retribuito ecc.) da rendere evidente, con la stessa eloquenza dei fatti, da un lato, che gli imputati, al di là del ricorso ad esplicite minacce, si sono costantemente avvalsi della situazione del mercato del lavoro ad essi particolarmente favorevole e, dall'altro che il potere di autodeterminazione delle lavoratrici è stato compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di siffatta situazione. In tale contesto si rivelano infondate le deduzioni dei ricorrenti - ai limiti del merito - in ordine all'esistenza di un accordo contrattuale: invero ciò che rileva agli effetti dell’art. 629 c.p. è che l'«accordo» non fii raggiunto liberamente, ma (nella descritta situazione) estorto.Nel complesso la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo, giuridicamente corretto e immune da palesi vizi logici. Inoltre, le eventuali minime incongruenze sono ininfluenti, una volta che le deduzioni difensive, anche se non compiutamente esaminate, siano tuttavia incompatibili con la decisione impugnata.2.2. Per la parte in cui sollecitano specifiche questioni i ricorsi richiedono alcune osservazioni aggiuntive.Innanzitutto - rettificando la motivazione dei Giudici di appello, nel punto in cui hanno focalizzato l'attenzione sull'inadempimento del L. M., nonostante fosse rimasto soccombente nei giudizi intentati dalle dipendenti C. e F. - occorre dire che la circostanza che le dipendenti potessero agire innanzi al Giudice del lavoro non esclude, ma anzi conferma l'ingiustizia della pretesa; mentre il fatto che il L. sia rimasto inadempiente alle obbligazioni di pagamento accertate nel processo del lavoro, attiene all'aspetto risarcitorio e/o ripristinatorio. Non si tratta, qui, di evocare (per dirla con il ricorrente) «la prigione per debiti», ritenendosi inconferenti, agli effetti che ci occupano, le ragioni del mancato pagamento, quanto, piuttosto, di rimarcare che l'elemento oggettivo dell'estorsione, nella duplice valenza sopra precisata, è integrato dal fatto stesso del condizionamento della volontà delle dipendenti, particolarmente interessate ad assicurarsi una possibilità lavorativa altrimenti esclusa.2.3. Per quanto riguarda, poi, la specifica posizione del L. G. si osserva che i Giudici di appello, pur dando atto che «le redini della situazione» erano in mano a M. A., hanno individuato una serie di elementi di fatto (le modeste dimensioni dell'azienda, il rapporto di coniugio tra i due coimputati del medesimo reato, l'atteggiamento ostruzionistico tenuto da entrambi nel corso della visita ispettiva) univocamente deponenti per una gestione famigliare dell'azienda e, correlativamente, per un ruolo attivo del ricorrente nella consumazione dell'estorsione. Si tratta di elementi di fatto di sicuro valore sintomatico, non elisi o efficacemente contrastati da elementi di segno opposto, coerentemente e congruamente valoR. dai Giudici del merito in ossequio alla norma generale espressa dall'art. 192, co. l c.p.p., che è quella del libero convincimento, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati.2.4. Infine, per quanto riguarda la prescrizione eccepita in udienza dalla difesa di L. M., si osserva che il reato attribuito all'imputato è stata contestato in continuazione dal 1983 al 1993 (capo A.); mentre i fatti attribuiti ai coniugi L. M. e M. A. e riconosciuti in continuazione si collocano negli anni dal 1983 sino a giugno 1994. Ciò posto e precisato che alla fattispecie si applica il «vecchio» testo degli artt. 157 e 160 c.p., deve osservarsi che non è ancora decorso il termine di anni quindici di prescrizione.In definitiva per la prevalenza delle ragioni di infondatezza su quelle di inammissibilità, i ricorsi vanno rigettati con i consequenziali provvedimenti in ordine alle spese processuali.2.5. Resta da provvedere alla rettifica di un errore materiale evidenziato in udienza dal P.G. presso questa Suprema Corte. Invero dal complessivo tenore della motivazione risulta chiaro che il reato di estorsione di cui sono stati riconosciuti responsabili L. G. e M. A. è quello di cui al capo B., mentre il L. M. è stato dichiarato responsabile del reato di estorsione allo stesso contestato al capo A.; inoltre la puntualizzazione contenuta a pag. 9 (laddove si legge: «Ovviamente la coppia L.-M. non deve rispondere del reato loro ascritto al capo A., quali presunti soci della ditta W. di Cagliari ...») rende chiaro che i Giudici di appello hanno confermato in parte qua la sentenza di assoluzione emessa in prime cure: conferma (parziale) di cui non è dato atto in dispositivo. Ai sensi dell'art. 130 co. 1 c.p.p. occorre provvedere in questa sede alla rettifica dell'errore.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali. Corregge il dispositivo della sentenza impugnata nel senso che dopo le parole «L. G., L. M. e M. A.» si aggiungano le parole «rispettivamente il primo e la terza per il reato di cui al capo B. e il secondo per il reato di cui al capo A.» e dopo le parole «spese del doppio grado» si aggiungano le parole «CoArnoldo Pazzianferma nel resto».

lunedì 21 gennaio 2008

CASSAZIONE SS UU PENALI 6.12.2007 N. 45583

CASS SS. UU. PENALI SENTENZA N. 45583 UD. 25/10/2007 - DEPOSITO DEL 06/12/2007

PENA – CONCORSO DI REATI E DI PENE – LIMITE AL CUMULO MATERIALE – RIDUZIONE PER IL GIUDIZIO ABBREVIATO – ORDINE DI APPLICAZIONE
La riduzione di pena per il giudizio abbreviato deve essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pena stabilite dagli artt. 71 ss c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta.
DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – FRODE PROCESSUALE – IMMUTAZIONE RILEVANTE - INDIVIDUAZIONE
Le Sezioni Unite, dopo aver precisato che l’artificiosa immutazione di luoghi e cose, posta in essere dall’autore di un reato per nasconderne le tracce ed ostacolare la ricostruzione dei fatti, se compiuta in modo grossolano e maldestro risulta priva del necessario carattere dell’idoneità lesiva rispetto al bene tutelato, hanno statuito un fondamentale principio di diritto, volto all’individuazione dell’ambito di un possibile concorso di reati tra quello presupposto e la frode processuale diretta ad ostacolarne l’accertamento. Hanno così chiarito che non ricorre il delitto di frode processuale, presuntivamente commesso prima che abbia inizio un procedimento penale, se l’autore del fatto rispetto al quale l’immutazione fraudolenta dovrebbe essere funzionale compie in quello stesso contesto temporale alcuni atti che, proprio per l’assenza di un’apprezzabile soluzione di continuità, difettano della necessaria alterità rispetto alla condotta del reato presupposto
Sentenza n. 45583 del 25 ottobre 2007 - depositata il 6 dicembre 2007 (Sezioni Unite Penali, Presidente M. Battisti, Relatore G. Canzio)
RITENUTO IN FATTO 1. – Con sentenza del 22/2/2005 il G.u.p. del Tribunale di Busto Arsizio dichiarava A. V. e P. G. responsabili, in concorso tra loro e con altri imputati giudicati separatamente, dei reati di omicidio in danno di F. T. e C. M. e porto illegale di arma da taglio e oggetti atti ad offendere (capo I), duplice tentativo di omicidio in danno del T. e della M. e illegale detenzione di eroina (capi M-N), nonché il V. dei reati di omicidio in danno di M. P., occultamento di cadavere, detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo e munizioni, frode processuale (capi A-B-C-D), furto in abitazione (capo E), rapina e armi (capo G), danneggiamento (capo H), istigazione al suicidio di A. B. (capo P): reati commessi, tutti, nel contesto delle attività criminose della setta denominata “Bestie di Satana”. Il G.u.p. condannava quindi: - il V. alla pena di anni 30 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i distinti gruppi di reati di cui ai capi A-B-C-D, ai capi E-G e ai capi I-M-N-P, con determinazione delle pene, in relazione a ciascun gruppo e previa riduzione di un terzo per il rito abbreviato, in anni 16 di reclusione (capi A-B-C-D), anni 2 e mesi 4 di reclusione (capi E-G), mesi 4 di reclusione (capo H), anni 20 di reclusione (capi I-M-N-P), con finale contenimento della pena nella misura indicata dall’art. 78 c.p.; - il G. alla pena di anni 16 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i reati sub I-M-N, applicata la diminuente del rito. Più precisamente, per quanto attiene alla determinazione della pena, il primo giudice, per il V., operava il cumulo materiale delle pene, prima quantificate all’interno di autonome sequele di continuazione, e perveniva alla pena di anni 38 e mesi 8 di reclusione, già computata la diminuente del rito, applicando poi l’art. 78 c.p. e giungendo alla pena finale di anni 30 di reclusione; mentre, per il G., determinava la pena per il reato più grave in anni 21 di reclusione, aumentata di anni 3 per la continuazione, e sulla pena di anni 24 applicava la riduzione di un terzo per il rito, irrogando così la pena finale di anni 16 di reclusione. 2. – La Corte d’assise d’appello di Milano, con sentenza del 16/6/2006, in parziale riforma della decisione impugnata: - relativamente al V., assolveva l’imputato dal delitto di frode processuale (capo D) siccome persona non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., riqualificava come tentativo di lesioni il tentato omicidio in danno del T. e della M. contestato al capo M, estendeva la continuazione tra l’omicidio P. e i reati di cui ai capi A-B-C anche al furto in abitazione e alla rapina di cui ai capi E-G, fissando la pena per tali reati in anni 25 e mesi 10 di reclusione, rideterminava in anni 28 di reclusione la pena per il duplice omicidio T. e M. e per i reati di lesioni tentate in danno dei medesimi, di tentato omicidio in danno della M. e di istigazione al suicidio del B. (capi I-M-N-P), quindi, stabilita la pena complessiva di anni 54 e mesi 4 di reclusione e limitata la stessa ai sensi dell’art. 78 c.p. ad anni 30, la riduceva ulteriormente, per effetto del rito abbreviato, ad anni 20, così sovvertendo l’ordine applicativo seguito dal primo giudice; - relativamente al G., rigettata la richiesta di nuova perizia psichiatrica, riqualificato nei sensi anzidetti il tentativo di omicidio in danno di T. e M. (capo M) e dichiarate le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, riduceva la pena ad anni 12 e mesi 8 di reclusione; - confermava, nel resto, la sentenza appellata. 3. – Hanno proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte d’appello di Milano e il difensore del Guerrieri. 3.1. - Il P.G. ha denunziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, deducendo: - che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della frode processuale, prima ancora di riconoscere la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso di specie, perché il Volpe agì per assicurarsi l’impunità dell’omicidio P.; - che le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75 (capo I) erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione; - che, quanto alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato (capo M), l’incendio dell’autovettura era idoneo ad attentare all’incolumità dei due giovani ed a cagionarne la morte, obiettivo questo perseguito dagli imputati; - che, circa il criterio di determinazione della pena per il V., la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere prima alla diminuzione ex art. 442 c.p.p. di un terzo della pena per i delitti come ritenuti in continuazione, quindi alla sommatoria delle pene e, infine, praticarne il contenimento ai termini dell’art. 78 c.p., non rivestendo tale norma natura “sostanziale”, siccome mero criterio moderatore del cumulo materiale, e provvedendosi in fase di esecuzione a siffatta operazione di contenimento per ultimo, sicché l’opposta interpretazione comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio, oltre a tradurre la scelta del rito “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”; - che, in ordine alla ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche per il G., sembrava inadeguatamente motivato il criterio enunciato dalla Corte territoriale di differenziare maggiormente la posizione di tale imputato rispetto al V., al quale era stata inflitta una pena definita dalla stessa Corte troppo mite. 3.2. – Il difensore del G. ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), d) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e manifesta illogicità della motivazione, sviluppando una serie di motivi in punto di: vizio parziale di mente dell’imputato, affetto da disturbo della personalità e destabilizzato dall’interazione col gruppo satanico, sotto il profilo della denegata rinnovazione dell’istruzione mediante perizia psichiatrica collegiale; affermazione di colpevolezza sia per l’omicidio che per il tentato omicidio, in quanto l’imputato non aveva partecipato alla materiale esecuzione, né procurato le armi, né cooperato all’occultamento dei cadaveri, né istigato i correi, né agevolato l’esecuzione dei delitti; insussistenza della premeditazione e delle altre aggravanti; insussistenza del fatto lesivo di cui al capo M per inidoneità della condotta e comunque erronea qualificazione giuridica della stessa come lesioni tentate anziché incendio; riconoscimento, in relazione alla detenzione di sostanza stupefacente (capo N), della diminuente del fatto di lieve entità ex art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/90; eccessivo contenimento della diminuzione operata per le attenuanti generiche ed eccessivo aumento per la continuazione; incongruità del trattamento sanzionatorio, con riguardo alla condotta processuale, all’incensuratezza, alla succubanza rispetto al gruppo satanico, all’impegno risarcitorio e alla sperequazione rispetto al V.; prescrizione delle contravvenzioni di cui al capo I. 4. – Il difensore del Volpe, a sua volta, nel replicare al motivo di ricorso del P.G. concernente i rapporti fra diminuente del rito e criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p., ha osservato che la tesi sostenuta dal P.G. darebbe luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando l’effetto premiale ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale siano superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito speciale, ed ha inoltre rilevato che nessuna comparazione può farsi con la fase esecutiva, dal momento che, nei casi di concorso di reati e di pene, in detta fase vi sono più pene mentre in sede di cognizione ve n’è una sola, e l’art. 442, comma 2 c.p.p. parla di riduzione della pena e non già delle pene. 5. - La Prima Sezione penale, con ordinanza del 30/3 – 25/6/2007, afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione di pena per il giudizio abbreviato dev’essere eseguita dopo che la pena sia stata determinata secondo i criteri stabiliti dalle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell’art. 78 c.p., sul duplice rilievo che il limite assoluto di anni trenta non è assimilabile alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento alle componenti materiali e soggettive del reato, e che nella fase dell’esecuzione l’applicazione del medesimo criterio segue necessariamente la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p., sicché non sembra ipotizzabile una differente soluzione per il giudizio di cognizione. La concreta possibilità dell’insorgere di un contrasto di giurisprudenza nei termini illustrati ha pertanto indotto il Collegio, ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite cui è stato assegnato dal Primo Presidente per l’odierna udienza pubblica. CONSIDERATO IN DIRITTO 6. - Osserva innanzi tutto il Collegio che risultano privi di pregio i profili, meramente fattuali e sprovvisti del requisito di adeguata specificità delle ragioni di diritto, delle censure svolte dalla difesa del G. circa il negato riconoscimento del vizio parziale di mente, il positivo apprezzamento delle prove di responsabilità e l’entità del trattamento sanzionatorio, nonché delle critiche mosse dal ricorrente P.G. alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato di cui al capo M, nonché al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche elargite al G. La Corte d’assise d’appello, nel condividere sostanzialmente il ragionamento probatorio del giudice di primo grado, ha rigettato la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia psichiatrica, rilevando con congrua motivazione che la perizia era stata già effettuata in sede di incidente probatorio da un collegio di periti, i quali avevano escluso la sussistenza del vizio parziale di mente; ha ritenuto che il G. avesse dato un notevole contributo alla commissione del duplice omicidio T e M, scavando, alcuni giorni prima dell’agguato, la fossa destinata ad accoglierne i corpi, così rafforzando il proposito criminoso dei correi; in ordine al tentativo di omicidio di cui al capo M, pur considerando provato che il G. avesse inserito il petardo nel serbatoio della benzina dell’autovettura, al cui interno si trovavano il T. e la M., ha sostenuto, sulla plausibile premessa in fatto che il serbatoio non sarebbe potuto esplodere per deflagrazione della benzina, che l’azione era solo in grado di cagionare un incendio di modestissime proporzioni dell’autovettura, con conseguente rischio di lesioni e non di offesa alla vita delle vittime; ha rilevato che le dichiarazioni accusatorie del V. e del M. costituissero prove sufficienti del coinvolgimento del G. nell’ulteriore tentativo di omicidio della M. mediante la somministrazione di un’overdose di eroina; ha ritenuto la sussistenza delle aggravanti del numero delle persone, dell’essersi avvalso di minori (i coimputati M. e M.), della premeditazione, essendo stati i delitti omicidiari deliberati ben prima della loro commissione, dei motivi abietti e futili, costituiti dal fatto che le due vittime ostacolavano i riti della setta satanica, e di aver agito con crudeltà per le modalità raccapriccianti del duplice omicidio. La Corte territoriale ha, pertanto, efficacemente evidenziato, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, le ragioni del giudizio positivo di colpevolezza dell’imputato in ordine ai delitti contestati e della diversa qualificazione giuridica del tentativo di omicidio di cui al capo M, enunciando analiticamente le fonti probatorie, gli elementi e le circostanze rilevanti a tal fine ed apprezzandone, senza contraddizioni o salti logici, la significativa convergenza: motivazione, questa, coerente con la ricostruzione fattuale degli episodi criminosi e non sindacabile in sede di controllo di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, soprattutto quando i ricorrenti, come nella specie, non criticano la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma si limitano in realtà a sollecitare un non consentito riesame del merito delle vicende criminose attraverso la rilettura del materiale probatorio. Quanto, infine, alle contrapposte doglianze dei ricorrenti riguardanti l’adeguatezza della pena inflitta al G., appare corretto e insindacabile in sede di legittimità l’argomentato giudizio della Corte territoriale che, pur negando l’attenuante della minima importanza del contributo concorsuale dell’imputato e, relativamente all’episodio dell’acquisto di eroina da iniettare alla M., quella della lieve entità del fatto, ha motivatamente ritenuto prevalenti, tuttavia, le attenuanti generiche in considerazione della fragile personalità del G., dell’impegno risarcitorio, della collaborazione processuale e dell’opportunità di differenziarne il trattamento sanzionatorio rispetto a quello del V.. Di talché, le censure dei ricorrenti circa pretese violazioni di legge e carenze motivazionali della sentenza impugnata, relativamente ai punti suindicati, risultano infondate. Deve invece darsi atto dell’erronea conferma da parte dei giudici d’appello della condanna per le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75, contestate agli imputati unitamente all’omicidio T. e M. (capo I), che erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione. Sicché la sentenza impugnata, limitatamente a questo capo d’imputazione, va annullata senza rinvio, eliminandosi la relativa pena di giorni dieci di reclusione (giorni 15 meno un terzo per la diminuente del rito) solo per il G., attesa l’irrilevanza di un’analoga statuizione riduttiva (giorni venti di reclusione: giorni 30 meno un terzo per la diminuente del rito) sulla complessiva misura della pena detentiva inflitta al V. in applicazione del criterio moderatore stabilito dall’art. 78 c.p.. 7. - Merita, a questo punto, di essere preso in considerazione il primo motivo di ricorso con il quale il P.G. deduce che la Corte territoriale ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie di frode processuale di cui al capo D, prima ancora di riconoscere al V. la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso in esame, perché il V. agì per procurasi l’impunità del più grave delitto di omicidio in danno della P.. Secondo l’impostazione accusatoria, accolta dal giudice di primo grado, il reato previsto dagli artt. 374, comma 2 e 61 n. 2 c.p. si sarebbe sostanziato in due condotte, poste in essere dal V. subito dopo l’uccisione della P. e al fine di garantirsi l’impunità di tale delitto: l’essersi adoperato per eliminare le tracce di sangue e l’avere portato il veicolo Fiat Uno e gli effetti personali della vittima in prossimità di un canale, nell’intento di gettarli nel canale e di simulare il suicidio o la volontaria scomparsa della P. (capo D). La Corte d’assise d’appello, per contro, ha osservato che, avendo l’imputato commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore, “la non punibilità della condotta, in presenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 384 c.p., rende superfluo soffermarsi ad esaminare se la condotta dell’imputato presenti, astrattamente, gli estremi del reato previsto dall’art. 374 c.p.” e, di conseguenza, ha assolto il V. “perché non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p.”. Sono ben note le profonde divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell’applicabilità dell’esimente anche con specifico riguardo alla frode processuale, al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo (per essere questa derivata, come nel caso in esame, dalla precedente commissione di un reato da parte dello stesso soggetto), contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione dell’esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto. E però, la quaestio juris sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite, pur articolata dal ricorrente P.G. secondo la prospettazione suindicata, deve ritenersi priva di rilevanza nel caso concreto. Dalla lettura di entrambe le sentenze di merito e dell’atto di appello dell’imputato s’evince che lo stesso giorno dell’omicidio il V. venne fermato e, nel corso dell’immediata ispezione dei luoghi all’interno dello chalet ove il crimine era stato eseguito, furono immediatamente ritrovate sia l’arma del delitto, una pistola Smith & Wesson, che una carabina cal. 22 con i relativi munizionamenti, mentre della Fiat Uno, con a bordo gli indumenti personali della vittima, si riferisce soltanto, senza trarne alcuna significativa inferenza, che essa venne rinvenuta poco lontano, incidentata e posta trasversalmente su un ponte; la consulenza tecnica successivamente espletata dal R.I.S. di Parma accertava a sua volta che, quanto all’attività di ripulitura della scena del delitto emersa nell’ispezione, le tracce di sangue sul pavimento erano state eliminate “in maniera del tutto grossolana” con stracci, spazzoloni e detersivi, recanti visibili tracce di sostanze ematiche, e che a sparare era stato sicuramente il V., alla luce delle particelle di polvere da sparo trovate sulle sue mani e sui suoi indumenti. La necessaria verifica ex actis dei presupposti fattuali – pure pretesa dall’appellante, ma ingiustificatamente pretermessa dalla Corte di merito – consente pertanto di affermare, con valutazione ex ante e in concreto, che difettano ictu oculi, nella specie, i requisiti individuati, da un lato, nella significativa rilevanza della condotta di artificiosa immutazione di luoghi e cose per la ricostruzione dei fatti e per la formazione del convincimento del giudice sul relativo thema probandum e, dall’altro, nell’obiettiva idoneità delle materiali, e tuttavia ictu oculi superficiali, alterazioni del contesto probatorio a trarre in inganno i destinatari delle stesse, cioè il giudice o il perito. Non si dubita che l’astratta fattispecie del reato - di pericolo e a dolo specifico - previsto dall’art. 374, comma 2 c.p. possa astrattamente configurarsi, anche in veste di tentativo, nelle condotte d’immutazione artificiosa di luoghi, cose e persone realizzate anteriormente al procedimento penale, perfino se attuate subito dopo la commissione del reato ed anteriormente all’attività di polizia giudiziaria in relazione agli eventuali e probabili atti di ispezione (cui sono peraltro assimilabili gli accertamenti e i rilievi urgenti della polizia giudiziaria ex art. 354 c.p.p., diretti ad assicurare e conservare le tracce e le prove del reato: Cass., Sez. III, 9/7/1996, Perrotti, rv. 206678), esperimento giudiziale e perizia. In linea di fatto, tuttavia, l’evidente difetto di potenzialità ingannatoria della condotta ne esclude in radice la concreta pericolosità per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, che è costituito dalla genuinità di taluni, specifici mezzi di prova, fonti del convincimento del giudice nel processo penale, in funzione della corretta formazione delle ragioni del decidere (Cass., Sez. III, 24/1/1979, Zarrelli, rv. 141368; Sez. VI, 24/5/1985, Sampò, rv. 170698; Sez. I, 24/10/1985, Franzé, rv. 171911; Sez. VI, 6/4/1988, Pispero, rv. 180874; Sez. VI, 6/11/1998, Scialpi, rv. 213432). D’altra parte, la grossolanità dei concitati e maldestri gesti di ripulitura delle tracce, siccome compiuti dagli autori dell’omicidio, senza apprezzabili soluzioni di continuità, nel medesimo contesto spazio-temporale dell’efferato delitto di sangue, ne svela, insieme con la sostanziale contiguità degli atti, il difetto della pur necessaria alterità, perché si possa attribuire autonomo rilievo alla descritta condotta e configurare il concorso materiale dei reati di omicidio e di frode processuale. A ben vedere, infatti, oggetto dell’attività d’indagine, che giusta l’astratta figura di reato potrebbe essere fuorviata dalla cancellazione delle tracce, è invece, in concreto, la ricostruzione dell’intero contesto della vicenda criminosa, che, anche secondo il senso comune e la diffusa esperienza giudiziale, abbraccia nella sua prospettiva storico-fenomenica anche quei gesti. Considerate le esigenze d’economia processuale sottese alla previsione di cui alla lettera l) dell’art. 620 c.p.p., la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio nei confronti del Volpe relativamente al reato di frode processuale, poiché dal medesimo testo delle decisioni di merito si desume l’impossibilità di rinvenire ed utilizzare ulteriori emergenze processuali e di pervenire altrimenti, neppure sulla base di una rinnovata valutazione dei fatti da parte del giudice di rinvio, a una conclusione diversa dall’assoluzione dell’imputato con l’ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”. 8. - Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito interpretativo “se la riduzione di pena per il giudizio abbreviato debba essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata in applicazione della disciplina del cumulo materiale e, in particolare, della disposizione dell’art. 78 c.p., per la quale non può essere superato il limite di trent’anni”. Il Collegio rimettente afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione della pena per il giudizio abbreviato, risolvendosi in un'operazione puramente aritmetica di natura processuale, logicamente e temporalmente dev’essere eseguita dopo la determinazione della pena effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell'art. 78 c.p. diretta a temperare il principio del cumulo materiale delle pene, per le seguenti ragioni: - la disposizione che stabilisce il limite assoluto di anni trenta, fissato per il concorso delle pene principali, detentive e temporanee, irrogate per i delitti non è assimilabile, sotto alcun profilo, alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento materiale e soggettivo, che non sia il rilievo del dato meramente aritmetico che la somma delle pene a carico della medesima persona ecceda la misura di anni trenta; - nella fase dell’esecuzione il giudice non può che prendere in considerazione, nell’osservanza del canone d’intangibilità del giudicato, la pena concretamente inflitta al condannato e, nel caso di condanna pronunciata in esito al giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo ex art. 442 c.p.p., cui segue l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., sicché non sembra ipotizzabile una discriminata soluzione a seconda che il medesimo criterio trovi applicazione nel giudizio di cognizione piuttosto che in quello di esecuzione. Le Sezioni Unite ritengono, per contro, di riaffermare la soluzione positiva, unanimemente offerta al quesito interpretativo dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. I, 7/4/1994, Pusceddu, rv. 197840; Sez. V, 9/12/2003 n. 18368, Bajtrami, rv. 229229; Sez. I, 10/3/2004 n. 15027, Pasinelli, in Cass. pen., 2005, 2287), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano, alla stregua delle lucide osservazioni critiche dell’ordinanza di rimessione. 9. - Il giudizio abbreviato, nello schema delineato dal vigente regime di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p., si configura come procedura semplificata a definizione anticipata nell’udienza preliminare, subordinata all’opzione negoziale “sul rito”, la cui scelta da parte dell’imputato risulta favorita da una serie di incentivi premiali quale, innanzi tutto, la diminuzione di un terzo della pena per il reato ritenuto in sentenza in caso di condanna: si realizza così una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare, nel sinallagma fra beneficio premiale e disincentivazione del dibattimento, una deflazione e una migliore efficienza del sistema processuale (C. cost., n. 277 e n. 284 del 1990). Una diminuente di natura “processuale”, dunque, le cui caratteristiche (non attiene alla valutazione del fatto-reato ed alla personalità dell’imputato; non contribuisce a determinarne in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa; consiste in un abbattimento fisso e predeterminato, connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice; é applicata dopo la delibazione delle circostanze del reato e della continuazione; si sottrae ontologicamente a qualsiasi apprezzamento di valenza ex art. 69 c.p.) si presentano tuttavia strettamente collegate con effetti di sicuro rilevo dal punto di vista “sostanziale”, risolvendosi comunque in un trattamento penale di favore (Cass., Sez. Un., 21/5/1991, Volpe; Sez. Un., 6/3/1992, P.G. in proc. Piccillo; Sez. Un., 27/10/2004 n. 44711, P.G. in proc. Wajib). 10. - Con riguardo alle concrete modalità di computo della riduzione della pena nel giudizio abbreviato, oltre alla generica previsione della direttiva n. 53 della l. delega n. 81 del 1987 "che nel caso di condanna le pene previste per il reato ritenuto in sentenza siano diminuite di un terzo", si rinvengono nel sistema codicistico taluni, specifici, riferimenti testuali. Dispone l’art. 442, comma 2 c.p.p. che "in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze" è diminuita di un terzo e, nella Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito (p. 106), si legge che “questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stata effettuato il giudizio di comparazione tra le circostanze”. Secondo l’art. 187 disp. att. c.p.p., ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave "anche quando per alcuni reati si è proceduto col giudizio abbreviato", e altrettanto univoche sono sul punto le Osservazioni del Governo al Progetto preliminare del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (in Documenti giustizia, 1990, fasc. 2-3, 179): “la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la pena in concreto era quella precedente rispetto a detta riduzione”. Appare inoltre fortemente significativa la vicenda della disciplina dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Ripristinata dall’art. 30, comma 1 lett. b), l. n. 479 del 1999 l’originaria previsione codicistica dell’art. 442, comma 2 secondo periodo (travolto per eccesso di delega da C. cost., n. 176/91), per cui, per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, "alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta", il legislatore ha ritenuto necessario, da un lato, chiarire con norma di natura interpretativa che l’espressione "pena dell’ergastolo" deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e, dall’altro, laddove la pena sia ai sensi dell’art. 72 c.p. l’ergastolo con l’isolamento diurno, stabilire che "alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo" (art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001). L’esplicita formulazione letterale della disposizione mostra la chiara voluntas legis di fare propria la soluzione interpretativa, per la quale “sarebbero da applicare dapprima le disposizioni sul concorso dei reati e solo successivamente, sulla pena così risultante, andrebbe operata la diminuzione per la scelta del rito” (v., in tal senso, la Relazione ministeriale, accompagnatoria del disegno di legge di conversione del d.l. n. 341 cit.). Sempre muovendo da considerazioni conseguenti all’analisi del testo normativo, merita infine di essere sottolineato che la formula "in caso di condanna, la pena che il giudice determina … è diminuita di un terzo", impiegata nell’art. 442, comma 2 c.p.p., trova agevole riferimento, in caso di pluralità di reati, nel secondo comma del successivo art. 533 (pure richiamato dall’art. 442, comma 1), il quale testualmente recita: "se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione": scansione, questa, da cui si desume che, con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale. Simili rilievi esegetici, che si armonizzano peraltro con le intenzioni del legislatore, orientano già verso la risposta da dare al quesito interpretativo, postulando in definitiva che l’operazione riduttiva per la scelta del rito costituisca un posterius rispetto alle altre, ordinarie, operazioni di dosimetria della pena, che la legge attribuisce al giudice. 11. - Il linguaggio normativo del codice di rito si adegua perfettamente, del resto, alla grammatica delle regole stabilite dagli articoli 71 ss. c.p. per la disciplina sostanziale del concorso di reati e di pene. Il legislatore, pur avendo adottato il principio del “cumulo materiale limitato” (Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, Libro I, p. 127), considera come "pena unica per ogni effetto giuridico" (artt. 73, comma 1, e 76, comma 1), e non come mera somma aritmetica delle pene applicate per ciascun reato, la pena complessiva inflitta in virtù della concorrenza di pene detentive temporanee della stessa specie, irrogate per i singoli reati in concorso: e ciò tanto nel caso in cui più reati siano stati giudicati con unica sentenza o decreto (art. 71), quanto nel caso in cui nei confronti della stessa persona siano intervenute più condanne, pronunciate con distinti sentenze o decreti (art. 80). Il temperamento più rilevante alla regola del cumulo materiale, onde evitare che la sommatoria, nel caso di concorso di pene derivante da un concorso di reati preveduto dall’art. 73, conduca all’irrogazione di pene detentive temporanee eccessive, in pratica “a durata illimitata e quindi in via di fatto perpetua”, come l’ergastolo, rispetto alla “breve vita dell’uomo”, è dettato peraltro, per considerazioni di tipo umanitario, dall’art. 78 c.p., in ordine al quale la citata Relazione ministeriale (p. 130) parla di un doppio limite massimo: il primo, variabile e proporzionale, del quintuplo della pena più grave, come determinata in concreto, fra le pene concorrenti; il secondo, assoluto e fisso, di saturazione delle pene, per il quale la pena da applicare non può comunque eccedere trent’anni per la reclusione e sei anni per l’arresto; l’uno destinato a funzionare per le pene più brevi e i minori reati e l’altro per le più gravi pene e i maggiori reati. E’ certo, in particolare, che il limite dei trent’anni di reclusione opera uniformemente, quale che sia l’eccedenza della pena detentiva, tanto se il cumulo materiale abbia dato come risultato una pena superiore a detto limite solo di qualche anno, quanto se abbia dato come risultato una pena superiore per molti anni. Ma non sembra lecito sostenere (per inferirne – come propongono sia il P.G. ricorrente che il Collegio rimettente – la pregiudizialità della riduzione di pena per il rito abbreviato rispetto al contenimento finale della stessa) che il criterio moderatore del cumulo materiale di cui all’art. 78 c.p., siccome non inerente ai tradizionali indici del concreto disvalore del fatto-reato nelle sue componenti oggettive e della personalità del reo, resti estraneo alla disciplina “sostanziale” della commisurazione della pena. Ed invero, oltre all’effettiva incidenza che ha sulla determinazione complessiva del trattamento sanzionatorio, il suddetto criterio, essendo diretto a temperare il cumulo materiale delle pene nel caso di concorso di reati preveduto dall’art. 73 c.p. ed anche nel caso di aumento della pena base derivante dalla continuazione, costituisce pur sempre, nonostante la sua applicazione sia indifferente all’eccedenza quantitativa, espressione della finalità rieducativa della pena in relazione ad una speranza di vita futura, da libero, del condannato: l’applicazione rigida e automatica dell’addizione aritmetica delle varie pene potrebbe infatti condurre alla esorbitante condanna ad una pena complessiva superiore alla previsione di vita del condannato, frustandosi così il principio rieducativo di cui all’art. 27 Costituzione (Cass., Sez. I, 16/3/2005 n. 16461, P.M. in proc. Coraci, rv. 231580). Che la disposizione dell’art. 78 c.p., segnando il limite dell’esercizio della potestà punitiva statuale nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, appartenga legittimamente all’area delle regole di natura sostanziale del codice penale sul concorso dei reati e delle pene lo si desume altresì dalla disciplina del reato continuato. Il terzo comma dell’art. 81 c.p. pone, infatti, un limite ulteriore rispetto alla previsione del primo comma, nel senso che la pena, pure aumentata fino al triplo di quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, tuttavia "non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti", sicché devono intendersi richiamate, in funzione moderatrice dell’aumento di pena per la continuazione, tutte le disposizioni degli artt. 71 ss. c.p. sul cumulo materiale, col temperamento stabilito dall’art. 78 c.p. (Cass., Sez. I, 11/3/1981, Polelli, rv. 149476; Sez. V, 4/12/1981, Bottari, rv. 151654). Ebbene, va sottolineato in proposito che non si è mai dubitato in dottrina e in giurisprudenza (v., per tutte, Cass., Sez. I, 29/1/1993, El Bakali, rv. 195960) che l’aumento per la continuazione - determinato, come si è visto, anche in ossequio al limite quantitativo fissato ai sensi dell’art. 78 c.p. - debba precedere la riduzione finale di un terzo, che opera sulla pena determinata in concreto per tutti i reati che hanno formato oggetto del giudizio abbreviato e che abbiano dato luogo alla configurazione del reato continuato. Va infine rilevato che la soluzione alternativa condurrebbe all’inaccettabile esito della sterilizzazione del criterio derogatorio di cui all’art. 73, comma 2 c.p., secondo il quale "quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni, si applica la pena dell’ergastolo": la previa riduzione di un terzo della pena della reclusione per il rito abbreviato non consentirebbe mai, in tal caso, di raggiungere la soglia fissata dalla suddetta disposizione per l’applicazione sostitutiva dell’ergastolo. 12. - Le precedenti riflessioni sembrano dunque convergere univocamente nel senso che la riduzione di pena conseguente alla condanna nel giudizio abbreviato debba essere applicata dopo la determinazione del trattamento sanzionatorio, da effettuarsi nel rispetto dei limiti di natura sostanziale posti dalla legge penale a temperamento del principio del cumulo materiale delle pene, e perciò anche in osservanza del disposto dell’art. 78 c.p., con riferimento al limite massimo dei trent’anni di reclusione. L’opposta soluzione ermeneutica darebbe luogo, viceversa, ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando (come nella specie) l’effetto premiale della riduzione di un terzo per la scelta del rito ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale sono superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito abbreviato. Neppure può invocarsi – come argomenta invero inadeguatamente il P.G. ricorrente – che la scelta del rito abbreviato si tradurrebbe in tal modo “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”. Per un verso, proprio l’assolutezza del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., per la sua intrinseca funzione, rende irrilevanti le grandezze eccedenti da contenere e l’ampiezza degli scostamenti tra la misura dell’entità originaria e quella finale, siccome contenuta, della pena. Per altro verso, mette conto di osservare che non sussisteva alcun impedimento, nel caso in esame, per una più rigorosa dosimetria della pena, atteso che i giudici di merito, all’esito di un diverso itinerario valutativo e comparativo delle circostanze, avrebbero potuto irrogare al V., per così efferati delitti omicidiari, pene ben più severe di quelle inflitte in concreto, pervenendo comunque, pur con la diminuente del rito, alla pena della reclusione di anni trenta o dell’ergastolo, in sostituzione dell’ergastolo o rispettivamente dell’ergastolo con isolamento diurno. Di talché, ferma restando de jure condendo la potestà del legislatore di graduare la misura della riduzione di pena per il rito abbreviato secondo la diversa gravità dei delitti e delle pene applicate (con particolare riguardo ai più gravi delitti di sangue), il rilievo del ricorrente P.G. in ordine ad una pretesa spinta criminogena della soluzione avversata sembra piuttosto frutto di un estremo ma tardivo ripensamento in ordine all’inusitata mitezza del trattamento sanzionatorio applicato al V., ormai non più rimediabile in sede di legittimità in difetto di appello prima e di ricorso per cassazione poi, sul punto della “pena giusta”, da parte del rappresentante della pubblica accusa. 13. - L’opposta soluzione interpretativa, circa l’ordine della sequenza logico-temporale di applicazione delle disposizioni degli artt. 78 c.p. e 442, comma 2 c.p.p., troverebbe peraltro conferma, ad avviso del ricorrente P.G. e del Collegio rimettente, nella diversa disciplina che al fenomeno sarebbe riservato in executivis: in questa sede, se ai fini del contenimento del cumulo ai sensi dell’art. 78 c.p. non si può che prendere in considerazione la pena concretamente inflitta e pertanto, nel caso di condanna pronunciata in esito a giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo, risulta evidente che l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p. segue necessariamente la già disposta riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442, comma 2 c.p.p.. Né - si avverte - sarebbe ragionevole ipotizzare una discriminata soluzione in ordine al trattamento sanzionatorio, a seconda che il criterio moderatore operi nel giudizio di cognizione piuttosto che nella fase dell’esecuzione, considerato che la celebrazione del processo unitario e cumulativo a carico del medesimo imputato per più reati, a fronte della separazione dei procedimenti, è un evento condizionato dal concorso di circostanze meramente accidentali. Ritengono le Sezioni Unite che l’argomento critico, pur enfatizzato dall’obiettiva discrasia delle regole applicative nei distinti giudizi di cognizione e di esecuzione, non coglie tuttavia nel segno, attesa la razionalità della diversa disciplina. Ai fini dell’esecuzione di "pene concorrenti", stabilisce l’art. 663, comma 1 c.p.p., in perfetta sintonia con il disposto dell’art. 80 c.p., che "quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze o decreti penali per reati diversi, il pubblico ministero determina la pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene". Di talché, nell’assoluto difetto di previsione derogatoria nelle disposizioni del decimo libro del codice di rito, stante il canone d’intangibilità del giudicato e il carattere eccezionale della potestà del giudice dell’esecuzione, tassativamente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge, in punto di rideterminazione della pena, la diminuente del rito speciale è applicabile dal giudice della cognizione, ma non può mai essere applicata nel procedimento di esecuzione di pene concorrenti, inflitte al medesimo imputato in distinti e autonomi procedimenti (Cass., Sez. I, 11/10/1995, Tasca, rv. 203035). La ratio legis dell’art. 442, comma 2 c.p.p. è, d’altra parte, quella di garantire all’imputato “in ogni singolo processo” un vantaggio conseguente alla scelta strategica del rito alternativo in ordine a tutte le imputazioni contestate in quello specifico processo, e questo vantaggio viene assicurato in ciascuno dei processi celebrati con tale rito e conclusisi con la condanna, all’esito di ognuno dei quali si determina "la pena" applicando la relativa diminuente; quest’ultima opera, dunque, in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale, ma non può, viceversa, per alcun profilo essere duplicata in sede esecutiva, laddove si debba procedere al cumulo materiale o giuridico delle pene inflitte per più reati in distinti procedimenti, nei quali l’imputato ha di volta in volta ritenuto di attivare, o non, la scelta deflativa del rito speciale (v., al riguardo, Cass., Sez. I, 24/2/2006 n. 11108, Guidotto, rv. 233541). Trattasi dunque di disparità di moduli applicativi nelle sequenze procedurali di determinazione della pena, che trova solida e razionale base giustificativa, oltre che nell’oggettiva diversità - non di mero fatto bensì giuridica - delle situazioni processuali (processo unitario e cumulativo o pluralità di processi in tempi diversi, per più reati, contro la stessa persona; giudizio di cognizione o di esecuzione), anche e soprattutto nell’efficacia preclusiva derivante dal principio d’intangibilità del giudicato. D’altra parte, pur essendo indubbio che il limite quantitativo nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, nei termini fissati dall’art. 78 c.p., operi anche nella fase dell’esecuzione, giusta il disposto dell’art. 80 c.p., questa Corte è ripetutamente intervenuta per circoscriverne la portata e il perimetro applicativo, nel senso che l’obbligatorietà della formazione del cumulo nell’esecuzione di pene concorrenti non significa affatto che un soggetto, il quale abbia riportato più condanne a pene detentive temporanee, non possa rimanere detenuto nel corso della sua vita per un periodo eccedente quello massimo indicato in trent’anni, essendo tale limite, per evidenti esigenze di prevenzione speciale, riferibile solo alle pene inflitte per i reati commessi prima dell’inizio della detenzione (ex plurimis, v., da ultimo, Cass., Sez. I, 23/4/2004 n. 26270, Di Bella, rv. 228138; Sez. V, 11/6/2004 n. 39946, Serio, rv. 230135). 14. - A conclusione delle suesposte considerazioni ed alla stregua dell’analisi logico-sistematica della normativa va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto riguardo al quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite: “La riduzione di pena, nella misura prevista dall’art. 442, comma 2 c.p.p. in caso di condanna nel giudizio abbreviato, dev’essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta”. E, poiché occorre riconoscere che la ratio decidendi della sentenza impugnata risulta del tutto coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso del P.G., sul punto, dev’essere rigettato. Il V. va infine condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dai familiari di F. T., costituitisi parti civili, che si liquidano come in dispositivo.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del V. relativamente al delitto di frode processuale di cui al capo D) perché il fatto non sussiste, nonché nei confronti di entrambi gli imputati relativamente alle contravvenzioni di cui al capo I) perché estinte per prescrizione, eliminando la relativa pena di giorni dieci di reclusione per il G.. Rigetta nel resto i ricorsi del G. e del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano. Condanna il V. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, liquidate in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

sabato 19 gennaio 2008

CASSAZIONE SS. UU. PENALI SENTENZA N. 230/2007 SU MISURE CAUTELARI REALI, RIESAME, MODALITA' PRESENTAZIONE ISTANZA

SENTENZA N. 230 UD. 20/12/2007 - DEPOSITO DEL 07/01/2008

MISURE CAUTELARI – REALI – RIESAME – RICHIESTA – PRESENTAZIONE – MODALITA’
Le Sezioni unite, con due decisioni assunte in pari data e in continuità con quanto statuito dalla sentenza 11 maggio 1993 n. 8, Esposito, hanno affermato il principio secondo cui la richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro è validamente proposta anche con telegramma o con trasmissione dell’atto a mezzo di raccomandata alla cancelleria del tribunale competente, che si individua in quello del capoluogo di provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato

Sentenza n. 230 del 20 dicembre 2007 - depositata il 7 gennaio 2008(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Conti)
Fatto
1. Con decreto del 29 gennaio 2007, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pisa disponeva il sequestro a fini probatori dell'autovettura Mercedes tg. *****, formalmente di proprietà di C. N., ritenendo configurabile a carico di questa la ipotesi di reato di cui agli artt. 624 e 625 n. 7 c.p. in danno di G. S., che aveva dichiarato di avere acquisito la proprietà del veicolo a seguito di compravendita. Il decreto veniva notificato all'indagata, a mani proprie, in data 6 febbraio 2007. In data 16 febbraio 2007, il difensore avv. Maurizio Nucci inoltrava per posta raccomandata richiesta di riesame avverso il suddetto decreto. Il plico perveniva al Tribunale di Pisa in data 19 febbraio 2007. 2. Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Pisa, in funzione di giudice del riesame ex art. 324 c.p.p. in relazione all'art. 257 c.p.p., dichiarava inammissibile la richiesta di riesame, in quanto "presentata I/ 19/2/07, e, quindi, oltre il termine dei 10 gg. previsto dall'art. 324 c.p.p. a pena di decadenza", e condannava la N. al pagamento delle spese del procedimento. 3. Ha proposto ricorso per cassazione di persona l'indagata, che denuncia la violazione degli artt. 324 comma 1 e 583 commi 1 e 2 c.p.p., osservando che, come chiarito dalla Sezioni unite, con la sentenza in data 11 maggio 1993, ric. Esposito Mocerino, deve considerarsi applicabile alla richiesta di riesame l'art. 583 c.p.p.; e che nella specie l'atto era stato ritualmente e tempestivamente spedito il 16 febbraio 2007, nel rispetto del termine di dieci giorni decorrente dalla notificazione del provvedimento di sequestro, non rilevando, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la successiva data in cui l'atto era pervenuto nella cancelleria. La ricorrente ha chiesto conclusivamente l'annullamento dell'ordinanza impugnata. 4. La Quinta Sezione della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza resa alla Camera di consiglio del 18 settembre 2007, rilevato un contrasto di giurisprudenza circa la ritualità della proposizione a mezzo posta della richiesta di riesame in tema di provvedimenti di sequestro, ha rimesso il ricorso stesso alle Sezioni unite, a norma dell'art. 618 c.p.p. In particolare nella ordinanza si osserva che pur dopo la sentenza delle Sezioni unite in data 11 maggio 1993, ric. Esposito Nocerino, con la quale era stato affermato che la richiesta di riesame ai sensi vuoi dell'art. 309 vuoi dell'art. 324 c.p.p. poteva essere proposta anche mediante telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata, a norma dell'art. 583 c.p.p., alcune decisioni delle singole sezioni avevano mantenuto la linea interpretativa secondo cui il richiamo fatto dagli artt. 309 comma 4 e 324 comma 2 c.p.p. alle forme dell'art. 582 c.p.p., e non anche a quelle di cui all'art. 583 c.p.p., rendeva inammissibile una richiesta di riesame proposta con l'uso del mezzo postale; e che tale indirizzo dissenziente si è poi consolidato, con riguardo alle sole richieste di riesame avverso provvedimenti di sequestro, dopo che la legge 8 agosto 1995, n. 332, mentre aveva inserito nell'art. 309 comma 4 il richiamo anche alle forme dell'art. 583 c.p.p., aveva lasciato inalterato nell'art. 324 comma 2 c.p.p. il solo richiamo alle forme dell'art. 582 c.p.p. A tale restrittivo indirizzo, si osserva ancora nella ordinanza, continua però ad contrapporsi quello in linea con le indicazioni ermeneutiche segnate dalla sentenza Esposito Mocerino, la cui validità non poteva ritenersi essere intaccata dalle novità recate dalla legge n. 332 del 1995; ed è appunto su questa linea interpretativa che espressamente afferma di collocarsi il Collegio rimettente, richiamando le argomentazioni rese dalle Sezioni unite. Si è peraltro ritenuto che, perdurando e anzi precisandosi su altre basi normative il contrasto, fosse doveroso rimetterne la risoluzione alle Sezioni unite. 5. In data 18 dicembre 2007 il Procuratore della Republica presso il Tribunale di Pisa comunicava a queste Sezioni unite che, con decreto dell'8 ottobre 2007, era stato disposto il dissequestro dell'autovettura di cui al presente ricorso e la sua restituzione, quale avente diritto, a C. N., e che il giorno 9 ottobre successivo era stata data esecuzione al provvedimento. Diritto1. La questione di diritto implicata dal ricorso, a prescindere dalle particolarità della fattispecie concreta, è riassumibile nel seguente quesito: "se la richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro sia validamente proposta, ai sensi dell'art. 583 c.p.p., anche mediante telegramma o con trasmissione dell'atto a mezzo di posta raccomandata alla cancelleria del tribunale competente a norma dell'art. 324 comma 5 c.p.p.". 2. Al quesito deve essere data risposta affermativa. 3. Nella versione originaria del codice di rito, ai fini della presentazione delle richieste di riesame di misure cautelari personali o di provvedimenti di sequestro (non solo cautelari ma anche probatori), si rimandava alle "forme previste dall'articolo 582" (artt. 309 comma 4 e 324 comma 2). L'art. 582 c.p.p. disciplina, in via generale, le formalità della presentazione dell'atto di impugnazione, prevedendo, tra l'altro, che esso debba essere presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Questa ultima specificazione è però espressamente derogata per le richieste di riesame, che si presentano nella cancelleria del tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l'ufficio che ha emesso il provvedimento, se si tratta di richieste avverso provvedimenti di sequestro (art. 324 comma 5) o in quella del tribunale "distrettuale", se si tratta di richieste avverso provvedimenti di coercizione personale (art. 309 comma 7, come novellato dalla legge 8 agosto 1995, n. 332). Il mancato rinvio da parte degli artt. 309 e 324 c.p.p. all'art. 583 c.p.p., che prevede, anch'esso in via generale, che le impugnazioni possano essere proposte con telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata (comma 1), e che in tal caso l'impugnazione si considera proposta dalla data di spedizione della raccomandata o del telegramma (comma 2), aveva fatto sorgere un contrasto interpretativo nell'ambito della Corte di cassazione, con riferimento, in genere, alle richieste di riesame: in alcune decisioni si era affermato che l'esclusivo rinvio alle forme dell'art. 582 c.p.p. rendesse inammissibile la proposizione della richiesta a mezzo di telegramma o con l'invio dell'atto per posta raccomandata, dato che queste forme erano previste dall'art. 583, che però non era richiamato dagli artt. 309 e 324 c.p.p.; secondo un opposto orientamento, il rinvio esplicito all'art. 582 implicava quello, ad esso complementare, all'art. 583. 4. Le Sezioni unite, investite della risoluzione del contrasto, avevano, con la sentenza emessa alla c.c. dell'il maggio 1993, ric. Esposito Mocerino, condiviso l'orientamento estensivo, affermando che: la specificità della procedura di riesame, rispetto alla disciplina generale delle impugnazioni, attiene essenzialmente alla individuazione dell'ufficio giudiziario ove l'atto deve essere presentato (non quello che ha emesso il provvedimento impugnato ma quello competente a decidere), come aveva già puntualizzato Sez. un., c.c. 18 giugno 1991, D'Alfonso; non era decisivo il rinvio operato dagli artt. 309 comma 4 e 324 comma 2 al solo art. 582 c.p.p., sia perché questa disposizione certamente non esaurisce la disciplina sulle impugnazioni in tema di riesame, sia perché il rinvio richiamava le modalità ordinarie della "presentazione" dell'atto di impugnazione, ma non escludeva che questa potesse avvenire con le modalità complementari indicate dall'art. 583 c.p.p., che significativamente si riferisce alla "proposizione" dell'atto di impugnazione, e quindi a una modalità particolare della "presentazione" dell'atto; non vi erano ragioni, neanche attinenti alla esigenza di celerità, per le quali nella procedura di riesame la modalità di spedizione per posta dovesse essere impedita, considerato che ove l'atto sia depositato nella pretura (ora tribunale o giudice di pace) del luogo ove si trovano le parti o i difensori o davanti a un agente consolare all'estero, questi uffici devono poi provvedere a trasmetterlo, per posta, alla cancelleria del tribunale del riesame. 5. Tali argomentazioni, mentre vennero fatte proprie da Sez. c.c. 22 aprile 1994, Sabato, furono consapevolmente contrastate, isolatamente, da una precedente sentenza della medesima Sez. II (c.c. 13 ottobre 1993, ric. Ascione), secondo cui il rinvio fatto dall'art. 309 comma 4 alle forme dell'art. 582 era talmente "preciso e inequivocabile" da non poter essere integrato, a pena di un arbitrario ampliamento della sua portata, in contrasto con i criteri generali dettati dall'art. 12 delle preleggi, con quello all'art. 583, sia pure al fine di emendare, in via interpretativa, una svista del legislatore. Per il vero, anche Sez. I, c.c. 17 maggio 1994, Guerrieri, continua ad affermare che l'art. 583 c.p.p. non trova applicazione nel procedimento di riesame (nella specie, avverso un sequestro preventivo), non facendo però alcun riferimento alla citata pronuncia delle Sezioni unite. 6. Con l'art. 16 comma 2 della legge 8 agosto 1995, n. 332 venne modificato il comma 4 dell'art. 309 c.p.p., prevedendosi che per la richiesta di riesame relativa alle misure coercitive "si osservano le forme previste dagli articoli 582 e 583". L'estensione del richiamo all'art. 583 c.p.p. ha reso dunque testualmente incontrovertibile che l'atto di riesame in materia di coercizione personale possa essere inviato per telegramma o a mezzo di raccomandata. 7. In epoca successiva a tale intervento legislativo, incidente solo sull'art. 309, parte della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto tuttora validi gli approdi della citata sentenza delle Sezioni unite con riferimento anche alle richieste di riesame di provvedimenti di sequestro, essendosi osservato che non appariva interpretativamente corretto desumere dall'esplicita modifica dell'art. 309 una intenzione di segno opposto con riguardo alle richieste di riesame ex art. 324 (v. Sez. n, c.c. 20 giugno 1997, violante; Sez. v, c.c. 9 marzo 2006, Tavecchio). 8. Per contro, altra parte della giurisprudenza, che si compendia in due decisioni della Seconda sezione penale dal contenuto motivazionale identico (c.c. 16 ottobre 2003, Ferrigno; c.c. 31 ottobre 2003, De Gemini), basandosi esclusivamente sulla considerazione che la novella del 1995 non è intervenuta anche sul comma 2 dell'art. 324 c.p.p. - il quale, relativamente alle richieste di riesame di provvedimenti di sequestro, continua a mantenere il solo rinvio alle "forme previste dall'art. 582" -, ha ritenuto di individuare una intenzione differenziatrice del legislatore, razionalmente giustificabile sulla base delle diversità degli interessi in gioco e delle relative procedure, diretta a escludere l'ammissibilità della formalità della spedizione per telegramma o con posta raccomandata dell'atto di riesame dei provvedimenti di sequestro, a differenza di quanto stabilito per il riesame dei provvedimenti applicativi di misure personali coercitive. Questa linea interpretativa non è condivisibile. 9. Occorre partire dalla considerazione che con la giurisprudenza da ultimo richiamata non si contesta l'esattezza degli argomenti esposti nella sentenza delle Sezioni unite Esposito Mocerino, ma, come detto, si trae esclusivamente dalla novità normativa costituita dalla modifica dell'art. 309 comma 4 c.p.p. ad opera della legge n. 332 del 1995 la conseguenza che, non essendo il legislatore intervenuto parallelamente anche sull'art. 324, sì sia inteso escludere, per le sole richieste di riesame avverso provvedimenti di sequestro, l'ammissibilità della proposizione della richiesta a mezzo di telegramma o di plico raccomandato, ex art. 583 c.p.p. 10. Trattandosi di individuare l'intenzione del legislatore, in un contesto interessato da contrasti giurisprudenziali e, insieme, da una produzione legislativa a un tempo caotica e frenetica, sarebbe inappagante fondarsi sul mero rilievo per cui nell'art. 309 la legge "disse" e nell'art. 324 "tacque", in applicazione di un'antica regola interpretativa che è adeguata a epoche di legislazione ideale. 10.1. Occorre dunque contestualizzare il senso di quell'intervento, se possibile facendo riferimento, in primo luogo, ai lavori preparatori e, più precisamente, all'intenzione espressa dal legislatore. Ora, va ricordato che/nel corso dei lavori della Commissione Giustizia della Camera, venne rilevato (seduta del 13 dicembre 1994, on. Marino) che la modifica del comma 4 dell'art. 309 era opportuna in presenza di un contrasto giurisprudenziale sulla proponibilità della richiesta di riesame (in genere) con le modalità dell'art. 583 c.p.p.; contrasto che all'epoca era ancora non risolto, posto che, come prima precisato, alla sentenza delle Sezioni unite non si era del tutto adeguata la giurisprudenza delle singole sezioni, tanto che la riferita sentenza pronunciata su ricorso Ascione aveva argomentatamente dichiarato di dissentirvi e a questa si era affiancata altra decisione (la citata sentenza su ricorso Guerrieri), pur se con apparente non consapevolezza della divergenza dal dictum delle Sezioni unite. Inoltre, non traspare alcuna indicazione dai lavori preparatori nel senso che vi fosse una concorrente volontà di differenziare, quanto a forme di presentazione, l'una e l'altra richiesta di riesame; tanto più, è il caso di rilevare, che l'intervento del legislatore del 1995 aveva come principale obiettivo quello di una rivisitazione della disciplina in materia di misure cautelari personali, sicché è ben immaginabile che fosse fuori della attenzione riformatrice la materia del riesame avverso provvedimenti di natura "reale". 10.2. In secondo luogo, va accertato se, oggettivamente, una differenziazione quanto a modalità di proposizione delle richieste di riesame in materia personale e reale possa essere razionalmente giustificata in base alle caratteristiche dei due rimedi. Nella citata sentenza della Sez. II, ric. Ferrigno, che costituisce il modello dell'altra decisione che ne riproduce la motivazione, e che sostiene la non casualità della differenziata previsione normativa, si evidenziano le ragioni di una simile diversità di disciplina: 1. In materia di libertà personale può giustificarsi un peculiare favore per una maggiore gamma di forme di esercizio del diritto di impugnazione; 2. Il luogo, le cadenze e gli effetti dei due procedimenti di riesame sono non poco differenti; 3. Il ricorso per cassazione ha un ambito diverso a seconda che si verta in materia personale o reale. Ora, quanto al primo punto, va osservato che non si coglie alcuna ragione per escludere per le sole richieste di riesame in materia "reale" forme di presentazione che sono comuni indistintamente a ogni altra impugnazione penale, in base alla disciplina generale, applicabile alle più varie materie, che non distingue affatto tra natura degli interessi in gioco; quanto al secondo, che è irrilevante una diversità di effetti, di cadenze e di luogo di presentazione tra le due procedure, se non si colleghi razionalmente tale indiscutibile dato alla esigenza o anche solo alla opportunità di una diversità di forme di presentazione (ora più variegate, ora meno), esigenza che non solo non è stata messa in luce dalla giurisprudenza di cui si discute, né mai dalla dottrina, ma che non è nemmeno oggettivamente ipotizzabile; quanto al terzo, che la limitazione del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 325 comma 1 c.p.p., al solo caso della "violazione di legge", a differenza di quanto previsto dall'art. 311 c.p.p., non ha evidentemente nulla a che vedere, sia dal punto di vista normativo sia da quello logico, con la disciplina delle formalità di proposizione della precedente impugnazione. L'unico dato di rilievo che potrebbe essere evocabile con riferimento al thema decidendum, in quanto potenzialmente interferente proprio con le modalità di presentazione della richiesta di riesame, è quello della oggettiva maggiore urgenza della decisione in materia di libertà personale, tenuto conto dei valori implicati. Ma proprio questo aspetto avrebbe potuto semmai far propendere il legislatore a escludere dalla materia regolata dall'art. 309 c.p.p., e non da quella dell'art. 324, forme di proposizione della richiesta meno affidabili circa la celerità della loro definizione. Scelta che invece non è stata adottata, non solo perché in via interpretativa ciò doveva ab origine essere ritenuto, stando alle puntuali osservazioni della citata sentenza delle Sezioni unite Esposito Mocerino, ma perché positivamente esclusa dalla ricordata novellazione dell'art. 309 comma 4 c.p.p. ad opera della legge n. 332 del 1995. 10.3. In terzo luogo, anche ove mai sussistessero dubbi interpretativi, occorrerebbe privilegiare il favor impugnationis (v. per il principio, tra le altre, Sez. un., c.c. 31 ottobre 2001, Bonaventura), tanto più che nel senso dell'ammissibilità del ricorso al mezzo postale ai fini della proposizione di atti di impugnazione si indirizzano esigenze di effettività della tutela giurisdizionale che attraversano le più diverse forme di contenzioso, come testimoniato anche dalla giurisprudenza costituzionale (v. sent. n. 98 del 2004, in tema di opposizione a ordinanza-ingiunzione; sent. n. 520 del 2002, in tema di ricorso alla commissione tributaria). Una limitazione delle modalità di presentazione della richiesta di riesame per i soli provvedimenti di sequestro parrebbe anzi sacrificare irragionevolmente le esigenze di tutela giurisdizionale, sol che si consideri che tale genere di provvedimenti sono idonei a incidere sulla posizione soggettiva non solo della persona sottosta a indagini ma anche di quella di ogni altro interessato (v. art. 324 comma 1 c.p.p.). 11. Va dunque affermato il seguente principio di diritto: "La richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro è validamente proposta, ai sensi dell'art. 583 c.p.p., anche con telegramma o con trasmissione dell'atto a mezzo di raccomandata alla cancelleria del tribunale competente a norma dell'art. 324 comma 5 c.p.p.". 12. Occorre peraltro considerare che, come sopra precisato, successivamente alla proposizione del ricorso, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pisa ha disposto la restituzione all'indagata dell'autovettura in sequestro. Tale provvedimento priva dunque di interesse concreto la impugnazione, con la conseguenza che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse

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