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ALTALEX NEWS


sabato 9 giugno 2007

Cassazione SS UU n. 28/1999 (su art. 483 c.p.)

Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, 15 dicembre 1999, n. 28
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 5 marzo 1999, ha confermato quella del Pretore di Viareggio che aveva dichiarano F.G. colpevole del reato di cui all'art. 483 c.p. per avere attestato falsamente, in una denuncia presentata ai Carabinieri di Lido di Camaiore il 31 marzo 1992, di aver smarrito quattro assegni del suo conto corrente bancario acceso presso la Cassa Rurale di Pietrasanta.Col ricorso avverso la sentenza di appello la difesa deduce l'erronea applicazione della legge penale censurando la decisione dei giudici del merito che si sono discostati dall'orientamento giurisprudenziale accolto dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 17-2-1999 Lucarotti) che, giudicando un caso identico, hanno ritenuto insussistente il reato in questione, poiché la falsa dichiarazione del privato al pubblico ufficiale, relativa a fatti trasfusi in un atto pubblico destinato a provarne la verità, costituisce falsità ideologica soltanto se una norma imponga di dichiarare il vero, collegando l'obbligo giuridico all'efficacia probatoria dell'atto che l'attestazione contiene, in quanto l'ordinamento non prevede un generale dovere di veridicità del privato.La V Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, ha rilevato che, dopo la decisione delle Sezioni Unite, si è rinnovato il contrasto con la sentenza emessa dalla stessa Sezione in data 16 giugno 1999 n. 1323 Monti, con la quale in un caso identico si è ritenuto che la falsa attestazione di smarrimento di un assegno bancario resa ai Carabinieri è idonea a configurare il reato previsto dall'art. 483 cit., poiché il documento redatto dal pubblico ufficiale in cui sono trasfuse le attestazioni del privato acquista rilevanza probatoria "de veritate" a causa della destinazione data dal dichiarante, sicché il mendacio costituisce lesione del bene della fede pubblica, stante la generale aspettativa di conformità del contenuto dell'atto medesime al vero.Essendosi delineato, dunque, un nuovo contrasto, la Sezione suindicata, con ordinanza del 28 settembre 1999, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite criticando l'argomento posto a fondamento della sentenza Lucarotti, vale a dire la necessità che vi sia una norma di legge che imponga al privato di dire il vero al pubblico ufficiale che trasfonde la dichiarazione in un atto pubblico destinato a provare la verità dei fatti attestati, escludendolo la lettera dell'art. 483 c.p..Sostengono, invece, i rimettenti la possibilità della destinazione soggettiva del documento, valorizzando la denuncia come atto diretto a provare la verità del fatto attestato, per la sua concreta utilizzabilità probatoria ai fini del "fermo" dell'assegno e delle garanzie offerte al cittadino in direzione dell'impulso delle ricerche e del blocco della somma rappresentata dal titolo.Viene così esaltata la funzione probatoria che l'atto svolge per sua natura e per la rilevanza "inter homines" sicché il mendacio, costituendo lesione della fede pubblica per la generale aspettativa di conformità del contenuto dell'atto medesimo al vero, è idoneo a configurare il reato di cui all'art. 483 c.p.. Senza che possa aver rilievo l'elemento negativo e pregiuridico, del tutto estraneo alla fattispecie, dell'omessa denuncia del privato alla banca trattaria prevista dalla speciale procedura di ammortamento (art. 69 R.D. n. 1736/33).Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la discussione l'odierna pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. - I termini del contrasto risultano dalla stessa ordinanza di rimessione e dalla sentenza di queste Sezioni Unite del 17 febbraio 1999, Lucarotti. - In esso, in buona sostanza, si contrappongono, rispettivamente, gli assunti della teoria "sostanzialistica", recepita nei termini anzidetti dall'ordinanza di rimessione e dalla sentenza della quinta sezioni Monti, che ha riproposto il contrasto, e di quella più restrittiva o "formale", accolta dalla sentenza delle Sezioni Unite Lucarotti, secondo cui la destinazione dell'atto a provare la verità dei fatti attestati dal privato deve risultare, esplicitamente o implicitamente, da una specifica previsione normativa.
2. - Le Sezioni Unite ritengono di dover ribadire l'indirizzo accolto nella sentenza Lucarotti.Questa, pur nella essenzialità della sua argomentazione ha il pregio di aver rispettato il testo legislativo valorizzandone innanzitutto la sua portata di linguaggio tecnico e ha dato al termine "provare" (o "prova") cui la norma fa riferimento il suo corretto significato, presumendolo usato dal legislatore in maniera appropriata e non già in conformità del linguaggio parlato o del valore che esso assume nella prassi o nel variegato contesto delle relazioni umane.Ma la essenzialità del percorso argomentativo della cennata sentenza non intacca la correttezza della conclusione raggiunta né dà (nuovo) vigore all'opzione esegetica contraria, delle cui principali obiezioni converrà, in questa sede, farsi carico.
3. - L'indagine esegetica sul testo normativo richiederà che si dia innanzitutto senso ai termini usati dal legislatore utilizzando, ove occorra, le indicazioni provenienti da altri rami dell'ordinamento e dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato per approdare, così, alla ricostruzione di un modello legale il più possibile preciso e non variabile ad arbitrio dell'interprete, nel rispetto dei principi costituzionali di legalità (cfr. infra sub 7) e di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali (Corte Cost. sent. n. 34 del 6-13 febbraio 1995).L'art. 483 c.p. punisce la falsa attestazione di un fatto "di cui l'atto è destinato a provare la verità" ond'è che non può prescindersi dal significato dei termini "prova" e "documento - prova del fatto documentato" e dal collegamento che la norma stessa pone tra il falso e la prova.Il concetto di prova che deve accogliersi è quello di fatto, segno o mezzo rappresentativo, veicolo di conoscenza della proposizione fattuale da sottoporre a controllo giudiziale (il "quid probandum", ignoto). E sulla base di questa funzione della prova non vi è dubbio che il verbale di denuncia di smarrimento, poiché non documenta il fatto dello smarrimento, designa unicamente - e prova - la dichiarazione con cui il denunciante rende noto al verbalizzante il verificarsi di quel fatto. Il documento enuncia e rappresenta il racconto del dichiarante senza rapportarsi al fatto dichiarato, rispetto al quale costituisce una rappresentazione, per così dire, di secondo grado e, quindi, non la prova di esso, qualunque sia il valore che poi la prassi burocratica o contrattuale assegna alla denuncia, come presupposto per "mettere in moto" attività successive (Cass. Sez. V n. 1323/99, Monti). Ed, invero, né la prassi successiva alla denuncia né la potenzialità di "messa in moto" hanno a che vedere con il concetto di prova del fatto (smarrimento) atteso che, dal punto di vista strettamente tecnico - giuridico, non esiste differenza (di efficacia probatoria) tra la denunzia di smarrimento e la dichiarazione di smarrimento altrimenti resa, nel caso di assegni, alla banca o a quant'altri (con una lettera raccomandata, un fax o anche soltanto oralmente). Il fatto dichiarato dal portatore del titolo non diventa più o meno vero - o storicamente certo, nel senso di "adprobatum" - a seconda che sia stato denunciato alla P.G. ovvero altrimenti rappresentato: il valore probatorio sarà sempre e solo quello assegnato alla dichiarazione proveniente dall'interessato, anch'essa intesa - se si vuole - come dato rappresentativo il cui valore, però, non sarà tecnicamente accresciuto dalla circostanza che essa è stata ricevuta da un Pubblico Ufficiale al cui atto verrà attribuita fede (privilegiata) solo in relazione alle circostanze che la dichiarazione è stata resa con quelle forme, in quei tempi e con quelle modalità e che essa proviene dal soggetto denunciante.
4. - L'art. 483 c.p. esige, invece, una relazione di attitudine probatoria non tra il documento ed il soggetto né tra il documento e l'attività dichiarativa del soggetto bensì tra il documento ed il fatto (dichiarato). Con la locuzione "fatto di cui l'atto è destinato a provare la verità" la norma incriminatrice stabilisce proprio questo legame tra l'efficacia probatoria del documento e l'accadimento (fatto) attestato dal dichiarante e richiede che il giudizio di verità - falsità si incentri sulla rappresentazione (prova) che del fatto (non della sua esternazione) dovrà fornire il documento.Ciò che conta, insomma, è la qualità impressa all'atto dalla sua destinazione probatoria (mezzo di prova) rispetto al fatto attestato (oggetto di prova), il che implica che il documento deve assumere valore dimostrativo diretto ed immediato del fatto attestato attribuendogli il crisma di realtà storicamente certa.
5. - L'efficacia probatoria dell'atto pubblico è stabilita dalla legge che, nell'art. 2700 c.c., ne definisce anche gli ambiti: esso fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato nonché delle dichiarazioni delle parti e "degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".Se, dunque, l'atto pubblico non fa prova dei fatti meramente dichiarati al pubblico ufficiale, non può diversamente sostenersi per la dichiarazione (attestazione) di smarrimento contenuta nelle denuncia alla P.G.. E se, ancora, l'atto pubblico fa, di norma, prova delle dichiarazioni delle parti e non della verità delle stesse, è anche chiaro che, quando questa destinazione probatoria esiste, essa non può essere impressa dalla parte ma deve esserlo dalla legge, unica fonte da cui può derivare l'ampliamento dell'efficacia fidefaciente dell'atto, già stabilita in via generale nell'art. 2700 c.c., con la estensione a fatti ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. In definitiva, può ben dirsi che l'attitudine probatoria dei documenti, come oggetti rappresentativi, è stabilita dalla legge e non può l'interprete assegnare allo scritto proveniente dal pubblico ufficiale una efficacia e destinazione probatoria diversa e più ampia di quella che la legge gli assegna ed affermare che esso è destinato a provare - se non ne ha normativamente l'attitudine - il (la verità del) fatto attestato dal dichiarante.Nell'ipotesi dell'art. 483 l'uso del participio passato "destinato" non può significare una designazione generica o una designabilità (destinabilità) eventuale e futura ma implica, chiaramente, una designazione specifica ed originaria dell'atto come prova della verità del fatto dichiarato: non, quindi, dell'enunciato rappresentativo di esso, che è sempre vero, ma del fatto che ne è oggetto, che può anche essere falso, senza che ciò intacchi l'autonoma genuinità del documento.La destinazione probatoria è cosa diversa dalla destinabilità o utilizzabilità probatoria poiché ogni oggetto naturale o artificiale, ogni entità - non solo ogni documento - ha una sua destinabilità alla prova purché designi e ricostruisca come conforme al vero (provato) il fatto che rappresenta. Ma si tratta di una destinazione probatoria che non può essere materia del falso ideologico previsto dall'art. 483 c.p. poiché detta norma, letteralmente, attiene alla rappresentazione di un fatto per mezzo dell'atto pubblico in cui esso è (falsamente) enunciato.Insomma, la denuncia di smarrimento dell'assegno non prova né può provare (e, quindi, non può essere destinata a provare) il (la verità del) fatto (smarrimento) e, per conseguenza, la preesistenza del documento asseritamente smarrito.
6. - Diventa, così, chiara la ragione per la quale l'art. 483 è stato collocato tra le falsità documentali anziché tra le falsità personali: l'ordinamento considera il valore di prova e la destinazione probatoria del documento rispetto al fatto attestato e rafforza la tutela del documento - prova del fatto.Il falso ideologico commesso dal privato è punito eccezionalmente e solo in virtù di una specifica disposizione di legge, anche quando l'attestazione sia inserita in un atto pubblico in cui il pubblico ufficiale riporta quanto riferito dal dichiarante. La denuncia orale raccolta in un processo verbale redatto dalla Polizia Giudiziaria non si differenzia, quanto all'efficacia probatoria, neppure dalla denuncia scritta presentata dal privato alla stessa autorità. Detto verbale, in quanto assertivo di fatti rilevanti idonei a produrre determinati effetti, non può ritenersi destinato a provare la verità per il solo fatto che il dichiarante, pur non essendogli riconosciuta alcuna facoltà di operare in tal senso, intenda a ciò destinare l'atto in cui le attestazioni sono trasfuse dal Pubblico Ufficiale redigente che, a sua volta, attesta che quelle dichiarazioni sono state fatte davanti a lui, non che le stesse corrispondono al vero.
7. - Non è, dunque, possibile ritenere che può essere anche il soggetto dichiarante ad imprimere all'atto la destinazione probatoria "per l'uso che intende farne".Dal principio di stretta legalità (art. 25 Cost., 1 c.p. e 14 Preleggi) deriva l'inesistenza di una autonomia normativa del privato, neppure inserita con efficacia secondaria nella gerarchia delle fonti del diritto penale. La riserva di legge da parte dello Stato, connessa al suindicato principio, è tendenzialmente assoluta a tutela della funzione garantiste, tesa, nei moderni ordinamenti democratici, a stabilire, con rigorosa predeterminazione non suscettibile di interpretazione estensiva ed analogica, le condotte penalmente sanzionate. Elementi "estranei" possono caratterizzare una norma incriminatrice temperando l'assolutezza della riserva statuale, con la previsione del completamento con elementi oggetto di norme di altri rami del diritto o d'integrazioni sub-legislative dei precetti operate dall'Autorità amministrativa (ordinanze, decreti) che qualificano la fattispecie concorrendo a determinarne contenuti e condizioni ("norme dal precetto incompleto").Ancor più marcato è nella previsione di "norme penali in bianco" il rinvio operato dal legislatore ad atti normativi di grado inferiore per contrassegnare un fatto che la legge considera penalmente illecito.Non vanno trascurate le decisioni della Corte Costituzionale c.d. "manipolative" o "additive" dei contenuti normativi, ammissibili, secondo la dottrina e la giurisprudenza in larga parte concordi, in aree coperte da riserve alla condizione che l'intervento corrisponda all'unica soluzione imposta dalla Costituzione.Ed anche le norme comunitarie possono avere effetti mediati per una loro indiretta rilevanza su norme penali incriminatrici.Dunque, mentre è previsto il rinvio, espresso o tacito, operato da una norma penale ad altre regole per connotare il fatto tipico, non è previsto nell'ordinamento il concorso del privato nella definizione legale della fattispecie criminosa a protezione di beni giuridici la cui tutela derivi la sua fonte dalla libera scelta del medesimo soggetto che verrebbe, così, a sostituire la propria valutazione, circa l'offensività delle condotte individuali, a quella riservata al legislatore cui è demandato, in via esclusiva, il potere di determinare la soglia di punibilità ed i confini della norma penale, tipizzando il perimetro dell'attacco al bene giuridico protetto e le relative difese (arg. anche da Corte Cost. sent. n. 26/66).La tesi contraria, che si rivela errata alla luce del principio di legalità, è tale anche in base ai principi che reggono il sistema probatorio vigente. Questo, infatti, non consente la precostituzione di prove (documentali) favorevoli da parte dello stesso soggetto che dovrà avvalersene ed ove eccezionalmente lo ammette lo dice espressamente ed assegna al documento una precisa e limitata efficacia probatoria, in genere contraria allo stesso dichiarante (ad esempio i documenti di cui agli artt. 2162, 2709 e 2710 c.c.; le dichiarazioni confessorie di cui agli artt. 2730, 2733 e 2735 c.c.; la fattura e gli altri documenti previsti nell'art. 634 c.p.c. fanno prova a favore dell'imprenditore commerciale ai soli fini della pronuncia del decreto di ingiunzione e, quindi, in via eccezionale e provvisoria).La precostituzione soggettiva del documento quale atto pubblico diretto a provare il fatto rappresentato appare come una opzione contraddittoria ed estranea al sistema atteso che la efficacia probatoria dell'atto non può fondarsi sulla volontà della parte dichiarante che intende precostituirsi la prova di verità sui fatti dichiarati. L'intero ordinamento delle prove - e soprattutto delle prove scritte - resterebbe, invero, vulnerato e sconvolto se si ritenesse che il fatto dichiarato da una parte è provato (probatoriamente certo) solo perché la dichiarazione è stata versata in un atto pubblico.Diventa, perciò, perfettamente comprensibile (contrariamente a quanto si ritiene dai fautori della tesi sostanzialistica) e tutt'altro che incoerente col sistema probatorio vigente la esclusione dei privati cittadini dal novero dei soggetti abilitati a destinare una loro personale dichiarazione, sia pure fatta ad un pubblico ufficiale, alla prova di fatti (costitutivi di situazioni o rapporti) per essi stessi favorevoli.La premessa argomentativa basata sulla possibilità di destinazione soggettiva alla prova, è, quindi, discutibile, se non errata.Ma anche a voler accettare, per mera ipotesi dialettica, la possibilità della destinazione soggettiva dell'atto alla prova, non se ne potrebbero comunque accogliere le conclusioni, e precisamente: a) quella che fa derivare da essa un obbligo di verità (che giustifica l'incriminazione); b) la non derivazione di tale obbligo da alcuna disposizione di legge "poiché esso discende dalle norme incriminatrici del falso".La prima conclusione (obbligo di verità) non ha nessun legame logico con l'antecedente premessa (destinazione soggettiva dell'atto alla prova) ed, in ogni caso, si tratterrebbe di un obbligo non oggettivo ma autofondato, nel senso che colui che destina il documento alla prova si impone anche l'obbligo di verità. La seconda deriva da un ragionamento palesemente illogico che procede sostenendo che il falso (l'incriminazione di falso) si ravvisa poiché vi è l'obbligo di dire la verità e che l'obbligo di dire la verità sussiste perché vi è la incriminazione di falso: si tratta di uno schema che contravviene alla linearità dell'argomentazione logica ed integra il classico esempio del circolo vizioso (Zirkelbeweis).L'obbligo di verità non può farsi neppure discendere da non meglio precisati principi generali poiché la genericità e l'indistinta ampiezza della fonte non la rendono idonea alla dimostrazione di un qualsivoglia diverso assunto che sia doverosamente coerente col principio di tassatività del modello legale.E, del resto, l'ordinamento non prevede un generale obbligo del privato di dire la verità. Non ogni attestazione fatta dal privato al pubblico ufficiale richiama la pubblica fede ma ciò avviene solo quando una norma specifica, ricollegando determinati effetti al documento che l'attestazione contiene, lo stabilisca, precostituendo quel determinato atto pubblico a provare la verità.Il delitto di cui all'art. 483 è un reato di pericolo ed è in potere del solo legislatore selezionare, con specifiche previsioni, i limiti di offensività di una condotta ritenendola idonea a ledere un determinato bene giuridico e non va sottaciuto che, in materia di falso ideologico commesso dal privato, la punibilità della condotta rappresenta l'eccezione, non la regola.Né l'art. 483 può essere considerato norma residuale applicabile in mancanza di altra norma che imponga al privato di dire la verità. Se questa fosse stata l'intenzione del legislatore, sarebbe stata prevista la punizione della falsa attestazione di fatti resa al pubblico ufficiale, senza la delimitazione dell'area della fattispecie incriminatrice con la previsione del requisito della destinazione del documento a provare la verità del fatto attestato dal soggetto dichiarante.Se il legislatore ha menzionato la finalità dell'atto ciò significa che non ha dato rilevanza alla sola verità (o non verità) del fatto (smarrimento) dichiarato ma ha dato valore all'aggressione patita dal mezzo di prova (documento) e non ha inteso identificare la lesione semplicemente e direttamente nel falso come, ad esempio, è avvenuto nell'art. 495 c.p., norma in cui, pur non potendosi ipotizzare una scelta di parte ed a prescindere dalla destinazione dell'atto (peraltro non idoneo a provare la identità, lo stato e le altre qualità del soggetto), si è ravvisata, comunque, la lesione dell'obbligo di verità e della aspettativa di verità.Vero è, allora, che nel caso dell'art. 483 c.p. l'obbligo di verità nasce dalla qualità (destinazione) di "strumento istruttorio" che al documento viene oggettivamente e concretamente impressa da una qualsiasi regola ordinamentale (penale, civile, amministrativa o processuale civile, come è affermato nella sentenza Lucarotti) che gli assegna la detta specifica destinazione.Si tratta, al fondo, di un obbligo strumentale finalisticamente inteso, cioè qualificato dal fine ordinamentale - e, perciò, oggettivo - dell'atto.
7. - Il legislatore, dunque, non ha inteso punire qualsiasi dichiarazione o falsa attestazione del privato ancorandosi al concetto di lesione di un qualsiasi bene vago ed indeterminato ma si è attenuto al valore tipico (di prova) assegnato al documento dall'ordinamento giuridico in relazione al fatto attestato dal privato. Non ha considerato né ha protetto un qualsivoglia valore etico di verità o un interesse sociale genericamente inteso e, di fatto, consegnato alla determinazione dell'interprete, ma, più chiaramente, ha disegnato un interesse connesso alla funzione probatoria specifica che al documento viene assegnata dalle norme giuridiche di qualsiasi natura a prescindere dall'uso concreto dall'atto, uso che non fa parte della struttura normativa né è richiesto per la incriminazione.In definitiva, il legislatore ha collegato l'interesse protetto alla destinazione probatoria dell'atto ed ha inteso punire la condotta di chi, attestando falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, attenta allo specifico interesse probatorio documentale.Con la previsione penale è stata rafforzata la tutela probatoria accordata all'atto di natura pubblica dall'art. 2700 c.c. e si è voluto garantire "il bene giuridico della pubblica fede documentale riconosciuta agli atti pubblici" (così SS.UU., Lucarotti).La individuazione di questa "ratio specifica" della norma consente di circoscrivere in termini precisi la fattispecie nelle sue componenti di condotta, di evento e di bene giuridico protetto dall'aggressione della condotta incriminata e rafforza l'opzione esegetica qui accolta che ritiene più congruo rinvenire nella legge la fonte della destinazione dell'atto a provare la verità piuttosto che basarla sulla prassi o anche su improbabili obblighi genericamente etici, su "aspettative sociali di conformità dei fatti alle attestazioni" ovvero sulla "libera scelta del cittadino" ...Soltanto la destinazione a provare il fatto attestato è un dato sicuro nella previsione normativa, mentre gli altri valori non sono neppure lontanamente menzionati o presupposti.
8. - L'opposta tesi trae anche argomento dalla mancata previsione della destinazione normativa dell'atto nella lettera della legge: si afferma che "in materia così specifica e rilevante, analiticamente disciplinata, il legislatore non avrebbe potuto non menzionare, se questa fosse stata la voluntas legis, quale elemento di rilevanza penale del falso ideologico, la destinazione ex lege dell'atto a provare la verità del fatto attestato" (cfr. ord. di rimessione).Ebbene gli stessi sostenitori della avversa tesi, che ritengono estranea alla fattispecie legale la destinazione normativa dell'atto a provare la verità del fatto attestato, vi includono, poi, contraddittoriamente, l'obbligo di verità nascente dalle fonti più svariate (scelta della parte, sistema, destinazione soggettiva dell'atto alla prova, aspettative sociali, responsabilizzazione dei cittadini ecc...).In proposito viene fatto di osservare come, al contrario, ciò che esplicitamente e sicuramente è incluso tra gli elementi caratterizzanti della fattispecie è proprio la descrizione dell'atto come documento probatorio o avente efficacia probatoria, cui si ricollega l'aspettativa di verità che giustifica la tutela penale. Ma in ogni caso, ed a tutto concedere, se il legislatore non ha menzionato la necessità di una destinazione "ex lege" dell'atto a provare la verità non ha neppure menzionato la destinazione "ex homine" sicché l'argomento sotteso dell"'ubi lex non dixit, noluit" non è utilizzabile a dimostrazione dell'assunto contrario a quello recepito nella sentenza Lucarotti che in questa sede si intende ribadire.Se così è, conviene allora ritenere che è più consono al testo ed alla "ratio" della legge riaffermare il carattere oggettivo ed ordinamentale della destinazione probatoria dell'atto e ricercare, quindi, nella legge la fonte dell'obbligo di verità piuttosto che ancorarlo a fonti soggettive o, in ogni caso, imprecise, mutevoli e vaghe, di volta in volta - ed "a posteriori" - individuate dall'interprete.
9. - Dai sostenitori della tesi contraria si ritiene anche che nella "nozione penalistica" degli atti pubblici rientrano anche "quelli redatti per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede". Ebbene, se così fosse, occorrerebbe innanzitutto individuare questa diversa (e, per la verità, oscura) categoria di atti (pubblici) per poi, necessariamente, convenire che l'esistenza di essa sarebbe la prova "a contrario" dell'esistenza dell'altra categoria: gli atti, cioè, destinati a provare la verità dei fatti e che sono proprio quelli cui letteralmente si riferisce l'art. 483 c.p., individuandoli come gli atti pubblici che il legislatore considera mezzi di prova (destinati a provare) di fatti determinati.Ed, ancora, per riaffermare la possibilità della c.d. prospettazione soggettiva di destinazione alla prova si parte anche dalla premessa che "non si richiede che l'atto sia previsto da una determinata norma né che determinati effetti siano normativamente ricollegati alla dichiarazione di verità, essendo sufficiente da tutte le regole ricavate dall'organico sistema di norme incriminatrici del falso una qualsiasi rilevanza fattuale e giuridica dell'atto nella sua realtà fenomenica dei rapporti inter homines".Ebbene, in questo caso la premessa non è tale da giustificare la conclusione poiché essa stessa costituisce il "quid demonstrandum". Essa sposta il problema sugli effetti dell'atto in cui è trasfusa la dichiarazione del privato, connaturata alla dinamica dello sviluppo successivo, senza soffermarsi adeguatamente sulla sua rilevanza penale ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 483 c.p. e tralasciando di considerare come, secondo il dettato normativo, non basta che l'atto (o, addirittura, il fatto dichiarato dal privato: Cass. Sez. V, Monti) abbia una rilevanza qualsiasi - dal momento che la norma incriminatrice assegna all'atto una rilevanza probatoria - e, così, trascurando, ancora una volta i principi cardine della riserva di legge e di stretta legalità e quelli connessi di tipicità e determinatezza della fattispecie penale.Ogni fatto umano e naturale (la nascita, la morte, l'accessio, l'avulsio, l'insula in flumine nata) può avere rilevanza giuridica o ... fattuale e, quindi, anche la dichiarazione resa al P.U. dal privato e la stessa attività materiale di formazione dell'atto che la contiene hanno rilevanza giuridica, ma ciò non basta ad integrare l'ipotesi tipica del reato che ne occupa nella quale si prevede espressamente la destinazione probatoria dell'atto, non tanto in generale quanto in relazione al fatto attestato dal privato.Ed, allora, quando si assume la sufficienza di una qualsiasi rilevanza del fatto (come l'utilizzazione della denuncia per impedire il pagamento dell'assegno), non solo si dice cosa giuridicamente inesatta ma, come ha sottolineato anche la sentenza Lucarotti, si finisce anche per confondere le conseguenze effettuali (confuse, in fondo, nel concetto di rilevanza) della enunciazione del fatto (nella specie: l'asserito smarrimento dell'assegno) con la prova del fatto (rilevante), prova che potrà dirsi sussistente non in base alla mera affermazione di esso contenuta nella denuncia ma quando la res scripta in cui esso è descritto ed enunciato "è coessenziale all'esistenza giuridica del fatto" stesso, siccome predicato dal documento in termini di esistenza e di conformità al vero, nella misura voluta dal legislatore.
10. - La denuncia, non obbligatoria, dello smarrimento di un assegno bancario fatta alla Polizia Giudiziaria non produce particolari effetti - come meglio si vedrà in seguito - nella procedura di ammortamento ma non vanifica neppure l'effetto liberatorio del pagamento fatto dal debitore al detentore del titolo prima della notifica del decreto di ammortamento atteso che essa, come avvertenza della possibilità di una circolazione irregolare del titolo, comporta solo l'uso da parte della banca trattaria di maggiori cautele suggerite dalla normale prudenza (Cass. Civ. Sez. I 15.7.1965 n. 1549; sull'onere di richiedere l'ammortamento del titolo, unico strumento che garantisce il traente dall'esposizione alla richiesta di pagamento: Cass. Civ. Sez. III 15.3.1995 n. 3027).E, se, allora, è da escludersi che la denuncia di smarrimento possa provare lo smarrimento (e, quindi, la preesistenza e la titolarità della cosa smarrita che dovrebbero a rigore abilitare alle azioni cambiarie) non potrà "a fortiori" neppure sostenersi una (possibile e da chiunque proveniente) destinazione della denuncia a provare il fatto attestato e non sarà, quindi, alla luce del dettato normativo, ipotizzabile la falsità prevista dall'art. 483 c.p..Le stesse osservazioni possono farsi allorché i sostenitori della opposta tesi fanno ricorso al concetto di prova precostituita al fine di garantirsi dalle conseguenze negative (eventuali) dello smarrimento. - Al di là della generica e mera affermazione di principio racchiusa nell'enunciato, non si riesce ad intravvedere quale diritto, azione od eccezione possano fondarsi (che è questa la finalità propria della prova) sulla semplice denunzia di smarrimento, se il denunciante non sarà in grado di provare (per rimanere nell'ambito dei titoli di credito) non solo la titolarità del diritto incorporato nel titolo smarrito ma anche il legittimo possesso di esso, essendo noto che, neppure dopo aver ottenuto l'ammortamento del titolo ed anche se elasso il termine per l'opposizione al relativo decreto, egli potrà sottrarsi alle azioni dell'effettivo titolare e possessore in buona fede.Parlare, poi, di "destinabilità probatoria anche solo potenziale secondo la funzione propria del documento" che è mezzo di prova "pregiuridico nell'ambito dei rapporti economici e sociali" significa non solo svincolarsi dal dato testuale riesumando, per sostituirlo a quello di "destinazione", l'estraneo concetto di "destinabilità" (soggettiva) ma anche affidarsi, nell'attività di interpretazione, ad espressioni semanticamente labili ed assolutamente vaghe che finiscono per assumere a valore protetto dall'ordinamento un generico e diffuso danno sociale (proprio di qualunque tipo di reato) oppure un concetto di lesione e di danno indeterminati e meramente potenziali per approdare, così, ad una tipologia sanzionatoria ricollegata al c.d. diritto vivente e giustificata dalla "lesione e dalla messa in pericolo" di "rapporti di aspettativa e fiducia" del tutto evanescenti.In tal guisa si finisce ancora una volta per vanificare il principio di legalità teorizzando un vuoto normativo che, in realtà, non esiste in quanto il dato testuale non si arresta alla parola "fatti" ma aggiunge i termini "dei quali l'atto è destinato a provare la verità" così attribuendo all'atto non una rilevanza pratica qualsiasi ma una specifica rilevanza giuridica che risiede nella sua destinazione "ab initio" a provare la verità del fatto attestato e, quindi, nella sua natura di prova: il fatto (falsamente) denunciato non ha rilevanza giuridica in quanto tale ma in quanto oggetto di prova precostituita a mezzo dell'atto pubblico.
11. - La tesi contraria ritiene di poter rinvenire la fonte dell'obbligo anche nella "comune aspettativa di verità" e fa ricorso al concetto poco chiaro di mezzo di prova "pregiuridico" oppure al "contesto che, definendo la rilevanza giuridica di alcuni fatti, li individua come quelli rispetto ai quali si determina una aspettativa di verità".Può obiettarsi che, non solo nei rapporti sociali ma anche secondo le regole della buona fede, che sono parte notevole del sistema positivo vigente, vi è aspettativa di conformità al vero di attestazioni, dichiarazioni, manifestazioni ma non sempre, però, la delusione di questa aspettativa assume rilevanza penale poiché "i valori non sono per sé stessi norme né principi di deduzione delle norme", mentre parlare di "contesto", di generica "rilevanza giuridica" o di "incidenza della denunzia" significa non uscire dal vago o dal circolo vizioso e riconoscere, ancora una volta, valore normativo ai fatti confondendo gli effetti della denuncia, come mezzo di segnalazione del fatto, con la prova del fatto.Certamente anche l'elemento della fiducia è presente nella mens legis ma, nel caso di specie, esso è correlato alla particolare qualità (atto pubblico) del mezzo probatorio, se ed in quanto esso attribuisca valore di verità al fatto rappresentato dal dichiarante.Nessun "salto logico" né arbitraria integrazione sono, perciò, ravvisabili (al contrario di quel che sostiene la sezione rimettente) allorché si ritiene che la destinazione a provare la verità debba trovare la sua fonte necessariamente in una disposizione normativa.
12. - Neppure il richiamo all'art. 367 c.p. conforta l'assunto secondo cui la libera scelta della denuncia è fonte dell'obbligo di verità, la cui violazione giustifica l'incriminazione ex art. 483 c.p.. - Ed, invero, nel caso dell'art. 367 c.p. l'obbligo di denunciare il vero è sancito dalla stessa norma incriminatrice che punisce la falsa denuncia di reato (che è già cosa ben diversa dalla denuncia di smarrimento) prescindendo totalmente dal valore probatorio del documento che la contiene e prescindendo persino - nella simulazione c.d. reale - dalla stessa esistenza di una denuncia documentata. La diversità degli scopi, dell'interesse protetto e delle forme della condotta non autorizza a trarre dall'art. 367 c.p. argomenti a favore del c.d. obbligo di verità nascente dalla libera scelta di denunciare (il reato) da parte di chi ne è facultato.Né è possibile trarre valido argomento dalla "impossibilità per la Polizia Giudiziaria di rifiutare la denuncia". A parte il rilievo che tale impossibilità, piuttosto che dimostrata, viene data semplicemente per scontata - sì che essa più che funzionare da premessa logica innesta un tipico paralogismo - non si riesce a scorgere quale sia il canone di inferenza che consenta di giungere dall'assunta premessa (obbligo del P.U. di raccogliere la denuncia) alla conclusione (dovere del dichiarante di attestare la verità sui fatti narrati). Infatti, non ogni volta che un pubblico ufficiale è tenuto a riceversi un atto, l'atto stesso prova (o è destinato a provare) la verità dei fatti dichiarati e non ogni volta vi è obbligo di chi é parte nell'atto di dichiarare fatti veri.
13. - A fronte della varietà delle ragioni, dei valori non sistematicamente ordinati e della sostanziale incoerenza degli argomenti che sostengono la posizione contraria, l'interpretazione accolta dalla sentenza Lucarotti - che ora si conferma - ha il pregio della linearità e della chiarezza.La destinazione probatoria dell'atto va rinvenuta principalmente nelle norme del codice civile (artt. 2699 e 2700) ovvero in altre norme che assegnano all'atto pubblico funzione probatoria del fatto attestato dal privato, facendo nascere dalla combinazione tra atto e fatto in esso attestato situazioni giuridiche di vantaggio o di svantaggio suscettibili di accertamento e/o di tutela.Occorre in buona sostanza, ad avviso delle Sezioni Unite, rifiutare come dirimente della "quaestio iuris" il concetto di rilevanza - tanto più se fattuale - attribuita al documento - denunzia dai singoli o dalla prassi, non potendosi accogliere una interpretazione pragmatica che travalica i limiti del testo normativo mentre si deve, al contrario, privilegiare, nell'ambito di un discorso di certezza delle fattispecie giuridiche, il concetto di fiducia nei mezzi di prova che trova la sua ragione giustificativa e la sua garanzia nell'ordinamento giuridico positivo poiché legato al processo e, prima ancora, alla certezza dei rapporti giuridici sia pubblici che privati.La consumazione del reato richiede, dunque, la concreta aggressione dell'interesse probatorio connesso al documento quando questo sia destinato, preventivamente, a far prova (della certezza storica) del fatto manifestato dal privato e quando dal fatto, provato in forza del documento, derivino non mere conseguenze pratiche ma il sorgere e il possibile esplicarsi di poteri, di potestà, di status, di diritti assoluti, di situazioni e di rapporti suscettibili di accertamento e di tutela sia erga omnes che tra (e nei confronti di) singoli soggetti pubblici o privati.E deve trattarsi di situazioni tipiche cioè "conformi alle previsioni dell'ordinamento ed alle regole in esso stabilite" non di mere situazioni di fatto, sia pure produttive di taluni effetti, che si configurano nella prassi e che comunque non si generano né dipendono dalla prova del fatto attestato.
14. - Neppure nell'unico caso in cui lo smarrimento assume rilievo di elemento tipico che legittima il ricorso al giudice (l'ammortamento), la denuncia fatta alla Polizia Giudiziaria ha valore di prova del fatto costituente il presupposto per la emissione del provvedimento richiesto: il Giudice competente è, infatti, tenuto ad accertare la verità del fatto (smarrimento) ed il diritto del portatore. Ed, inoltre, anche il complesso delle disposizioni legislative e regolamentari, che concernono l'ammortamento dei titoli rappresentativi di depositi bancari o buoni fruttiferi (L. 30.7.1951 n. 948) e lo smarrimento di titoli del debito pubblico al portatore e dei B.O.T. (D.P.R. 14.2.1963 n. 1343 e succ. modif. e D.M. 16.2.1996 n. 312) prevede, per la salvaguardia del diritto vantato, unicamente la denuncia (senza forme) dello smarrimento del titolo da farsi all'Istituto emittente o al Ministero del Tesoro.Ciò dimostra non solo la perfetta equiparazione di questa alla denunzia fatta alla Polizia Giudiziaria ma, addirittura, la assoluta irrilevanza (o inefficacia o inopponibilità) di quest'ultima sul piano del diritto sostanziale.
15. - Ed è, alla fine, la stessa giurisprudenza di avviso contrario ad assegnare alla denuncia di smarrimento il valore di una dichiarazione ricettizia (si afferma che "la denuncia si concreta in un ordine di non pagare": Cass. 1263/73, Morandi: che "la denuncia aveva unicamente lo scopo di togliere efficacia al titolo": Cass. n. 1217/95, Pellecchia; che con la denuncia si intende "avvisare la banca di non aver dato alcun ordine di pagamento": Cass. Morandi cit.).Se, quindi, la denuncia altro non vuol essere che una dichiarazione a carattere negoziale occorre trarre da questa corretta premessa la necessaria conclusione della impossibilità di configurare il reato di cui all'art. 483 c.p. nel caso di false dichiarazioni negoziali alle quali non si attaglia il termine di "attestazione" (dottrina uniforme e giurisprudenza costante. - Cfr., per tutte, Cass. Sez. V 12.2.1976, De Riccardis e, sia pure in obiter, Cass. Sez. V 16.6.1999, Monti).
16. - In conclusione, solo una specifica norma giuridica può predestinare l'atto pubblico alla prova di fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale che li inserisce nell'atto pubblico, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto stesso al dovere del dichiarante di affermare il vero.Ne sono esempi l'art. 3 L. 15.5. 1997 n. 127 e l'art. 21 L. 7.8.1990 n. 241, in materia di dichiarazioni sostitutive e di semplificazione dell'azione amministrativa; gli artt. 2 e 4 L. 4.1.1968 n. 15 e gli artt. 1 e 2 D.P.R. 20.10.1998 n. 403, in materia di documentazione amministrativa e di dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà; e, in riferimento all'ipotesi aggravata di cui al secondo comma dell'art. 483 c.p., l'art. 451 c. 2° cod. civ..Tutti casi in cui, al di là dei generici doveri di correttezza e di collaborazione che tendenzialmente caratterizzano lo Stato moderno e gli enti pubblici, da un lato, e i cittadini, dall'altro, si responsabilizza il privato sanzionando penalmente il dovere impostogli di dichiarare il vero al fine di concorrere a snellire il procedimento amministrativo in vista dell'atto finale della pubblica amministrazione.
17. - Allo scopo di prevenire future obiezioni è bene precisare che i termini "destinato a provare" consentono di ritenere che il reato si configura anche senza l'utilizzazione del documento ed a prescindere dall'ingresso del documento nella sede processuale (o in una fase procedimentale) in cui può avere rilevanza decisiva il "factum probandum".Ma ciò non cambia il significato della locuzione poiché, come è stato autorevolmente affermato, le prove - tanto più se trattasi di prove scritte - non servono solo nel processo per la formazione del convincimento del giudice ma anche "per rendere inutile il processo" e per disciplinare, al di fuori e prima di esso, i rapporti giuridici rendendoli certi in base alle risultanze documentali.Pertanto, pur rilevando l'intervenuta prescrizione del delitto alla data del 30 settembre 1999 (artt. 157 co. 1 e 160 u. co. c.p.), l'impugnata sentenza va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste, risultando evidente a norma del secondo comma dell'art. 129 c.p.p. la non configurabilità del reato di cui all'art. 483 c.p..
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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