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giovedì 21 giugno 2007

CASSAZIONE SSUU N. 21883 DEL 2007 (SU 415BIS E PRESCRIZIONE)

Cassazione Penale SS.UU. 21883/2007
Sentenza n. 21833 del 22 febbraio 2007 - depositata il 5 giugno 2007 (Sezioni Unite Penali, Presidente M. Battisti, Relatore G. Marasca)
L’avviso di conclusione delle indagini preliminari non è un atto con efficacia interruttiva della prescrizione
Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione osservano :1) La sentenza impugnataIl Tribunale di Belluno, in composizione monocratica, con sentenza emessa in data 10 aprile 2006, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di CXXX IYYY, imputato del delitto – commesso il 2 giugno 2000 - di cui all’articolo 495c.p. per avere, in sede di formazione del cartellino fotosegnaletico, dichiarato falsamente agli agenti della Questura di chiamarsi CHHH PIIII, per estinzione del reato per prescrizione.Il Tribunale, premesso che il reato di cui all’articolo 495c.p. è sanzionato con la pena della reclusione fino a tre anni e si prescrive, ai sensi dell’articolo 157c.p., applicabile nel caso di specie nella formulazione antecedente alla modifica introdotta con l’articolo 6 della legge n. 251 del 2005, in cinque anni decorrenti dalla sua consumazione, ha rilevato che il decreto di citazione a giudizio dello IYYY,, che costituisce il primo atto interruttivo della prescrizione, è stato emesso il 23 giugno 2000 ed è, quindi, successivo di ventuno giorni allo spirare del termine utile per l’esercizio dell’azione penale.Ne è, inevitabilmente, conseguita la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.2) Il ricorso del Procuratore della RepubblicaIl Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Belluno ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza deducendo come unico motivo di impugnazione la violazione dell’articolo 160c.p. in relazione all’articolo 415bisc.p.p.. Ha spiegato il ricorrente che l’avviso di conclusione delle indagini preliminari è un atto interruttivo del termine della prescrizione, ancorché non indicato esplicitamente nell’elenco di cui all’articolo 160c.p., perché l’avvertimento che l’indagato ha facoltà di essere sottoposto ad interrogatorio, contenuto nell’avviso ex articolo 415bis c.p.p., altro non è che l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio – articolo 375c.p.p. -, atto al quale l’articolo 160c.p. ricollega l’effetto interruttivo. Il ricorrente ha indicato a sostegno della sua tesi due sentenze della Corte di Cassazione, la n. 305 del 17 febbraio 2005 e la n. 1450 del 16 giugno 2005.In conclusione, essendo stato emesso l’avviso di conclusione delle indagini all’indagato il 4 aprile 2005, notificato tra il 5 ed il 9 aprile dello stesso anno, il corso della prescrizione si sarebbe interrotto con la conseguenza che al momento della pronuncia della sentenza impugnata il reato addebitato allo IYYY non si sarebbe ancora prescritto, maturando il termine prescrizionale, per effetto della interruzione, soltanto il 2 dicembre 2007.3) Il contrasto di giurisprudenza e la questione sottoposta al vaglio delle Sezioni. Unite PenaliIl magistrato addetto allo spoglio presso la V Sezione Penale ha rilevato un contrasto di giurisprudenza, peraltro già segnalato in precedenza dall’ufficio del Massimario, sul problema posto con il ricorso ed ha rimesso la questione al Primo Presidente della Suprema Corte, che ha assegnato la causa alle Sezioni Unite Penali.La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è, pertanto, se l’avviso all’indagato di conclusione delle indagini preliminari ex articolo 415 bis c.p.p. abbia o meno efficacia interruttiva del corso della prescrizione.E’ necessario rilevare che in tempi recenti è effettivamente sorto un contrasto di giurisprudenza sul punto in discussione.Tre sentenze ( Cass., Sez. V penale, 11 novembre 2004, Della Calce ; Cass., Sez. IV penale, 3 maggio 2006, Papaveri e Cass., Sez. IV penale, 29 marzo 2006, Buraschi ) hanno, infatti, escluso che l’avviso ex articolo 415 bis c.p.p. potesse essere ritenuto atto interruttivo a causa, essenzialmente, della tassatività dell’elenco degli atti interruttivi della prescrizione contenuto nell’articolo 160c.p. e del divieto di analogia in malam partem in materia penale.In buona sostanza le tre sentenze citate hanno confermato i principi stabiliti dalla sentenza Brembati, emessa dalle Sezioni Unite Penali in data 11 luglio 2001, che aveva escluso che l’interrogatorio dell’indagato effettuato dalla Polizia Giudiziaria, delegata dal Pubblico Ministero ex articolo 370c.p.p. – atto non compreso nell’elenco di cui all’articolo 160c.p. a differenza dell’interrogatorio effettuato direttamente dal Pubblico Ministero -, fosse atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione.Nonostante la riconosciuta sostanziale equiparabilità dei due atti, infatti, le Sezioni Unite Penali avevano ritenuto che, per il rispetto dovuto ai principi fondanti del diritto penale di certezza del diritto e di legalità, l’interrogatorio delegato dal Pubblico Ministero alla Polizia Giudiziaria non poteva ritenersi atto interruttivo della prescrizione del reato, costituendo l’elenco di cui all’articolo 160c.p. un numerus clausus, integrabile dal solo legislatore, e vigendo in materia penale il divieto di interpretazione analogica in malam partem –articolo 14 delle disposizioni della legge in generale -.Tre altre sentenze ( Cass., Sez. V penale del 17 febbraio 2005, Marocco, in contrasto inconsapevole con la sentenza Brembati ; Cass., Sez. V penale del 16 giugno 2005, Goegan, in contrasto consapevole con la sentenza Brembati e Cass., Sez. II del 10 febbraio 2006, Cameli ) hanno, invece, ritenuto che l’avviso ex articolo 415bisc.p.p. interrompesse il corso del termine prescrizionale.Le tre sentenze citate hanno, in buona sostanza, spiegato che quella operata non era una interpretazione analogica in malam partem perché si trattava semplicemente di constatare, evidenziare, ritenere che in sostanza l’invito del Pubblico Ministero a rendere interrogatorio, atto incluso nell’elenco di cui all’articolo 160c.p., era in effetti contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini ex articolo 415 bis notificato all’indagato, nella parte in cui contiene l’avvertimento che “l’indagato ha facoltà …di chiedere di essere interrogato”.Le tre sentenze citate, pur negando di disattendere i principi espressi dalla sentenza Brembati, e prima ancora dalle sentenze delle Sezioni Unite Penali PM in processo Boschetti ( 28 ottobre 1998, rv 211904 ) e PM in processo Munaro (16 marzo 1994, rv 196575), e di fare, quindi, ricorso ad una interpretazione analogica o al concetto di atto equipollente, hanno comunque proceduto, seppure per via di evidenziazione e di constatazione che l’invito a rendere interrogatorio era contenuto nell’avviso di deposito ex articolo 415 bis c.p.p., ad un aggiornamento del catalogo degli atti interruttivi di cui all’articolo 160c.p., invocando, in buona sostanza, la necessità di un coordinamento dell’articolo 160c.p. a seguito di una sopravvenuta modifica normativa del processo penale.4) I motivi della decisionePer risolvere la questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è necessario ricordare che, come è stato efficacemente rilevato dalla giurisprudenza ( vedi sentenza delle Sezioni Unite Penali Brembati già citata ) e dalla dottrina, l’istituto della prescrizione trova il suo fondamento razionale nell’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno o notevolmente attenuare l’allarme della coscienza comune e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale.In questa ottica la prolungata inerzia dei pubblici poteri rende manifesta la volontà dello Stato di non avere più interesse a perseguire penalmente un determinato fatto – reato, con la inevitabile conseguenza della estinzione del reato sancita dall’articolo 157c.p..Per altro verso le norme sulla prescrizione dei reati costituiscono l’espediente di carattere formale escogitato dal nostro legislatore per realizzare quella finalità di carattere sostanziale, costituita dalla durata ragionevole del processo penale, che è tutelata dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nonché oggi, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge costituzionale 14 marzo 2001 n. 89, anche dall’articolo 111 della Costituzione e che è da tali norme riconosciuta all’imputato, quale suo diritto soggettivo perfetto ( così, con riferimento al solo articolo 6 del CEDU Cass. Pen., 2 aprile 1986, Colussi, in CP, 87, 1339 ).Il legislatore ha ritenuto, però, che fosse opportuno interrompere il corso della prescrizione, con un sostanziale aumento dei termini prescrizionali secondo lo schema previsto dall’ultimo comma dell’articolo 157c.p., quando fossero stati posti in essere atti fondamentali del procedimento penale che rendessero manifesto il persistere, nonostante il tempo trascorso dalla commissione del fatto, dell’interesse statuale alla attuazione della pretesa punitiva.E’ interessante notare che il testo del progetto preliminare del nuovo codice penale prevedeva al comma I dell’articolo 161c.p. che il corso della prescrizione è interrotto da qualsiasi atto del procedimento, perché, sosteneva il guardasigilli nella sua relazione, ognuno di essi manifesta l’interesse dello Stato alla attuazione della legge penale.La rigorosa impostazione originaria fu abbandonata proprio perché anche il compimento di un semplice atto del procedimento, quale ad esempio la formazione materiale del fascicolo processuale da parte del cancelliere, avrebbe finito con il vanificare un vero e proprio diritto dell’imputato.Si ritenne opportuno, perciò, contemperando diverse e spesso opposte esigenze, di restringere la cerchia degli atti del procedimento penale idonei ad interrompere la prescrizione a quelli veramente fondamentali del procedimento stesso, che, in considerazione del loro carattere obiettivo, per sé, dimostra(va)no la persistenza dell’interesse dello Stato a punire.In base a tale impostazione, ed alla considerazione che la giurisprudenza sotto la vigenza del codice penale precedente aveva smisuratamente allargato la cerchia di tali atti, il legislatore ritenne di dovere individuare ed indicare specificamente, in base ad un razionale uso della discrezionalità legislativa, gli atti fondamentali del processo ai quali si sarebbe dovuto riconoscere effetto interruttivo del corso del termine prescrizionale.Il legislatore del 1930 introdusse, inoltre, una altra novità rilevante ; mentre, infatti, il codice precedente prevedeva che l’inutile decorso del tempo comportasse la prescrizione dell’azione penale, quello attualmente vigente prevede all’articolo 157c.p. la estinzione del reato.E’ del tutto evidente allora il passaggio da un istituto di diritto processuale ad uno di diritto sostanziale.Del resto anche gli Autori che sostenevano la natura processuale dell’istituto della prescrizione attribuivano, poi, rilievo sostanzialistico al suo effetto estintivo, con la conseguenza che in tale argomento prevale(va) sempre ciò che più torna(va) in favore dell’accusato.La valenza sostanziale attribuita dal legislatore all’istituto della prescrizione ha fatto, quindi, ritenere applicabile in tale materia anche l’articolo 2 comma III c.p. ( vedi Cass. Pen., Sez. II, 26 novembre 1992, Barbagallo, rv. 193159 ).La genesi dell’articolo 160c.p., ed in particolare la predisposizione di un minuzioso catalogo delle cause interruttive della prescrizione, dimostra chiaramente come il legislatore ritenesse detto elenco come tassativo, proprio perché una delle finalità dichiarate, come si è rilevato, era proprio quella di evitare, a garanzia dell’imputato, che la giurisprudenza allargasse a dismisura la cerchia degli atti capaci di interrompere il corso della prescrizione.Scelta, peraltro, resa necessaria anche dalla dichiarata natura di diritto sostanziale dell’istituto della prescrizione, rispondendo ad un evidente criterio di legalità individuare con precisione gli atti ai quali veniva riconosciuta la capacità di evitare che l’inutile passaggio del tempo determinasse la estinzione del reato.L’esame del testo originario dell’articolo 160c.p. del 1931, ed in particolare del catalogo, dimostra che effettivamente tale norma abbia in concreto costituito manifestazione di discrezionalità legislativa sorretta da razionalità perché l’elenco comprende davvero atti fondamentali del processo in quanto adempimenti necessari, in quel contesto processuale, per la progressione del processo stesso verso il momento conclusivo.L’originario articolo 160c.p. è stato, come è noto, modificato dall’articolo 239 del decreto legislativo n. 271 del 1989 recante norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, perché era necessario modificare il catalogo degli atti interruttivi in conseguenza del radicale mutamento del contesto processuale di riferimento, dovuto alla adozione nel 1989 del nuovo processo penale.La ratio fondante la nuova elencazione degli atti interruttivi della prescrizione, secondo molti Autori, risulta coincidere con quella sottesa, e di cui si è già detto, alla originaria formulazione dell’articolo 160c.p..Ciò è certamente vero non solo perché nella prospettiva del legislatore delegato del nuovo testo della disposizione si doveva assicurare il necessario coordinamento fra gli istituti cui il codice abrogato attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione e i corrispondenti istituti del nuovo codice processuale rispettando lo spirito della precedente disciplina, ma anche perché l’analisi del nuovo testo dimostra che effettivamente, al di là di alcune omissioni, di cui si dirà, il legislatore ha individuato gli atti fondamentali del processo, ovvero quegli atti che manifestano in modo chiaro l’interesse dello Stato alla attuazione della legge penale.Gli atti interruttivi della prescrizione, come è stato efficacemente precisato dalla dottrina, si distinguono, invero, in quattro categorie a seconda che abbiano natura decisoria, come la sentenza di condanna, cui viene assimilato il decreto penale di condanna, coercitiva, come l’applicazione di misure cautelari, probatoria, come l’interrogatorio dell’imputato, propulsiva, come il decreto di citazione a giudizio.Ora se si esamina il catalogo previsto dall’articolo 160c.p. nella sua nuova formulazione, non vi è dubbio che tutti gli atti processuali indicati rientrino nello schema classificatorio richiamato e possano essere ritenuti atti fondamentali del processo, dai quali è possibile desumere il perdurare dell’interesse dello Stato alla celebrazione del processo.Parte della dottrina ha, però, rilevato che alcuni atti indicati nell’elenco pongono dei problemi di compatibilità tra la scelta operata dal legislatore e le ragioni poste a fondamento dell’opzione del 1930, perché con difficoltà gli stessi potrebbero essere considerati atti fondamentali del processo, tanto che si potrebbe affermare che il loro inserimento nell’elenco sarebbe il frutto di un mancato approfondimento legislativo sui caratteri di fondo della classe atti veramente fondamentali.Ciò dimostrerebbe la non assoluta razionalità delle scelte operate dal legislatore e, sembra di comprendere, la conseguente necessità di correggere ed integrare l’elenco stesso.La tesi non è fondata.In effetti a ben vedere come esempio di non razionalità delle scelte operate dal legislatore si cita la inclusione tra gli atti interruttivi della prescrizione della convalida del fermo e dell’interrogatorio reso al pubblico ministero su richiesta dell’indagato.Ora è certamente vero che la convalida del fermo di indiziato di delitto, così come disciplinata dagli articoli 384 e ss c.p.p., è ininfluente ai fini del legittimo avanzamento del procedimento penale, qualunque sia il rito attivato, ma ciò dimostra soltanto che l’ordinanza di convalida non può essere inquadrata tra gli atti interruttivi c.d. propulsivi, ma deve essere valutata alla stregua di un atto di natura coercitiva, che rende manifesta la volontà punitiva dello Stato.Quanto all’interrogatorio reso dinanzi all’Autorità Giudiziaria è certo vero che specie allorquando il ricorso a tale strumento venga sollecitato dalla parte privata al fine di esporre quanto utile per la propria difesa – articolo 65 comma II c.p.p. – esso si caratterizza essenzialmente come strumento di difesa, ma è pure vero che l’Autorità Giudiziaria prima di raccogliere le dichiarazioni dell’indagato deve, a norma del primo comma dell’articolo 65c.p.p., contestare allo stesso il fatto che gli è attribuito rendendogli noti gli elementi di prova esistenti contro di lui e, ai sensi del secondo comma dell’articolo citato, gli pone direttamente domande.Pur non volendo disconoscere che l’interrogatorio dell’indagato, specialmente quando sia richiesto dalla parte, abbia importanti finalità difensive, non vi può essere dubbio che si tratti anche di uno strumento che consente all’Autorità Giudiziaria di contestare i fatti e di porre domande all’indagato al fine di accertare la verità, che è il fine principale del processo penale.Si tratta senz’altro, quindi, di un atto da annoverare tra quelli fondamentali del processo, perché rende manifesta la volontà degli organi dello Stato di perseguire l’illecito.Infine si tratta di un atto che, se pure a richiesta di parte, viene compiuto dal pubblico ministero o dal giudice, ovvero da soggetti dell’atto interruttivo, che, secondo autorevole dottrina, non possono che essere gli organi statali che hanno il potere di far valere la pretesa punitiva dello Stato, dal momento che ciò che si perde per prescrizione del reato sono i pubblici poteri di far valere la pretesa punitiva.Il legislatore ha, inoltre, conferito capacità interruttiva del corso della prescrizione anche al decreto di fissazione dell’udienza in camera di consiglio a seguito di richiesta di archiviazione del pubblico ministero.E’ in verità un po’ difficile ritenere che tale provvedimento possa essere sintomatico della persistenza dell’interesse statuale alla irrogazione della sanzione, che nel caso di specie sembrerebbe addirittura negata in radice.Bisogna però anche considerare che, evidentemente, il legislatore ha tenuto conto che in ipotesi siffatte il Giudice per le indagini preliminari non adotta un provvedimento di archiviazione de plano accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ma crea, con la fissazione dell’udienza in camera di consiglio, i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di cui ai commi IV e V dell’articolo 409c.p.p. – formulazione di imputazione coatta o richiesta di nuove specifiche indagini -.Certo desta perplessità, come molti Autori non hanno mancato di rilevare, il fatto che nell’elenco di cui all’articolo 160c.p. non risultino indicati come atti interruttivi della prescrizione la richiesta di giudizio immediato e la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, perché appare innegabile che tali atti integrino altrettante forme di esercizio dell’azione penale al pari della richiesta di rinvio a giudizio, del decreto di citazione a giudizio e della presentazione o citazione per il giudizio direttissimo, atti questi ultimi espressamente richiamati dall’articolo 160c.p..Trattasi di una evidente incompletezza dell’elenco che i giudici ordinari hanno tentato di colmare sollecitando una pronuncia additiva della Corte Costituzionale, che, però, in numerose pronunce concernenti proprio il problema della mancata inclusione nell’elenco della richiesta di emissione del decreto penale di condanna ha ripetutamente osservato che la richiesta di una pronuncia additiva in materia penale volta ad integrare la serie degli atti che tassativamente l’articolo 160c.p. enumera come i soli idonei a produrre l’effetto di interrompere il corso della prescrizione doveva essere dichiarata inammissibile ostandovi il principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione e fuoriuscendo una tale pronuncia dai poteri spettanti alla Corte ( da ultimo vedi CC n.315/96 ).E’ appena il caso di notare che, però, non basta segnalare una incompletezza dell’elenco o una sua incongruenza per ritenere la scelta del legislatore non caratterizzata dalla dovuta razionalità.Infatti si può anche ritenere che l’elencazione di cui all’articolo 160c.p. sia per alcuni versi incompleta e per altri versi eccessiva e sovrabbondante e che mentre vi sia menzionato qualche atto processuale che con molta difficoltà è possibile classificare come atto fondamentale del processo, ne sia stata omessa la indicazione di alcuni che tale qualifica certamente meritavano, ma è innegabile, però, che l’esame complessivo del catalogo dimostra una sostanziale coerenza del legislatore che ha rispettato l’opzione del 1930 e si è limitato a realizzare il necessario coordinamento fra gli istituti cui il codice abrogato attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione ed i corrispondenti istituti del nuovo codice processuale.La scelta legislativa è, perciò, connotata da sicura razionalità e non consente interventi correttivi ed integrativi da parte del giudice.Ma le sentenze che si sono discostate, consapevolmente o meno, dagli indirizzi della sentenza delle Sezioni Unite Brembati, già richiamata, hanno rilevato che l’elenco non potrebbe ritenersi completo anche perché l’articolo 160c.p. non è stato integrato in seguito alle modifiche, talvolta anche rilevanti, al nuovo processo penale introdotte con numerose leggi approvate successivamente alla sua entrata in vigore nel 1989.La mancata inclusione nel catalogo dell’avviso di deposito degli atti ex articolo 415 bis sarebbe, quindi, frutto non di una razionale scelta legislativa, ma di un imperfetto coordinamento legislativo, cosicché, sembra di comprendere, la interpretazione adeguatrice dell’articolo 160c.p., sostanzialmente effettuata dalle citate sentenze, sarebbe secundum costitutionem.Anche siffatta impostazione non è fondata perché, come ha già rilevato la citata sentenza Brembati, in assenza di alcun indizio ermeneutico, è davvero difficile ritenere che l’omesso aggiornamento del catalogo di cui al secondo comma dell’articolo 160c.p. sia frutto di imperfetto coordinamento e non già di consapevole scelta da parte del legislatore, tenuto conto del fatto che alcune leggi successive al 1989 ( vedi ad esempio il d.l. n. 306 del 1992 convertito in legge n. 356 del 1992 ), oltre a rilevanti modifiche al nuovo codice di procedura penale, ha apportato anche sul terreno del diritto penale sostanziale incisive modifiche al codice penale.Inoltre non è vero che il legislatore non abbia mai ampliato il catalogo degli atti interruttivi a seguito di modifiche procedurali, tanto è vero che il corso della prescrizione risulta interrotto anche dalla citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria e dal decreto di convocazione delle parti emesso dal Giudice di pace per effetto dell’articolo 61 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274, nonché dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle violazioni relative ai delitti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto per effetto dell’articolo 17 del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74.Anzi la introduzione di queste due norme costituisce una prova ulteriore del fatto che la individuazione degli atti interruttivi è di esclusiva competenza legislativa e che l’elenco di cui all’articolo 160c.p. costituisca un numerus clausus.Infine è necessario ricordare che recentemente il legislatore è intervenuto con la legge 5 dicembre 2001 n. 251, che, pur apportando rilevanti modifiche all’istituto della prescrizione, ha lasciato inalterato il catalogo degli atti di cui all’articolo 160 comma II c.p..Da tutto quanto detto risulta evidente che sia l’interpretazione letterale della norma in discussione – articolo 160c.p. - con la sua analitica elencazione della cause interruttive, sia l’interpretazione logico – sistematica degli istituti della prescrizione e della interruzione della stessa, sia la individuazione della intentio legis consentono di affermare, conformemente all’orientamento nettamente maggioritario della giurisprudenza e della dottrina, che la prescrizione del reato è un istituto di diritto penale sostanziale, fondato sull’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno l’allarme sociale e con esso ogni istanza di prevenzione generale e speciale ( così SS. UU. Penali, Brembati, citata, e Cass. Pen., Sez. II, 26 novembre 1992, Barbagallo, già citata, che ha specificamente ritenuto applicabile alla prescrizione l’articolo 2 comma III c.p. ).Soltanto gli atti veramente fondamentali del processo, secondo la definizione del Guardasigilli contenuta nella relazione al codice penale del 1930, specificamente indicati dall’articolo 160c.p., o da altre leggi penali che ab externo abbiano integrato tale norma, possono interrompere la prescrizione perché denotano il persistere dell’interesse dello Stato a perseguire l’illecito.Tali atti costituiscono senz’altro un numerus clausus, non solo perché ciò si desume dai lavori preparatori del codice penale, ma principalmente perché il venir meno della tassatività dell’elenco comporterebbe, con la violazione della riserva di legge in materia penale, la negazione del principio di legalità e la garanzia di determinatezza della fattispecie penale di cui all’articolo 25 capoverso della Costituzione.Infine l’elenco di cui all’articolo 160c.p. non può essere ampliato per effetto di una interpretazione analogica perché evidentemente si tratterebbe di una analogia in malam partem non consentita dall’articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale.Sul punto la giurisprudenza costituzionale, come già rilevato, ha costantemente affermato che il principio di legalità preclude di pronunciare sentenze additive in malam partem del tipo di quelle volte ad integrare la serie di atti che producono effetti interruttivi o sospensivi del corso della prescrizione ed ha dichiarato inammissibili le relative questioni per il semplice fatto che il loro accoglimento condurrebbe ad esiti incompatibili con la riserva di legge in materia penale ( sulla introduzione di nuove ipotesi di sospensione della prescrizione vedi sentenza n. 114 del 1994 e sulla introduzione di nuove ipotesi di interruzione del corso del termine prescrizionale ex plurimis ordinanze nn.245 e 337 del 1999 ; n.412 del 1998 ; n.178 del 1997 - sull’interrogatorio della polizia giudiziaria - ; n.315 del 1996 ; n.144 del 1994 - sulla richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto penale di condanna, già citata - ; nn.193,188, 391 e 489 del 1993 ; n.315 del 1996 ; n.7 del 1990 ; n.114 del 1983 - sulla richiesta del pubblico ministero di citazione a giudizio - ).Non solo al giudice delle leggi ma anche, ed anzi a maggior ragione, come già rilevato dalla sentenza Brembati, al giudice di legittimità deve intendersi, pertanto, preclusa ogni operazione diretta comunque ad integrare in malam partem la serie di quegli atti che incidono direttamente in modo sfavorevole nei confronti dell’imputato, siccome inerenti ai tempi ed ai limiti e per ciò alla effettività dell’esercizio del diritto punitivo dello Stato.Ma le tre sentenze che si sono poste in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale delineato ritenendo la efficacia interruttiva del deposito degli atti di cui all’articolo 415 bis c.p.p. hanno precisato che non si tratterebbe di interpretazione analogica o estensiva e nemmeno, per la sentenza Cameli, di difetto di aggiornamento del catalogo da parte del legislatore.Si tratterebbe, invece, di evidenziare per la sentenza Goegan, di constatare per la sentenza Cameli che un atto nominato dall’articolo 160c.p., quale quello previsto dall’articolo 375c.p.p., è ontologicamente, in sostanza contenuto anche nell’avviso di cui all’articolo 415 bis c.p.p., quindi, anche in un atto diverso e non menzionato dal predetto articolo 160c.p..Cosicché sarebbe necessario un coordinamento dell’articolo 160c.p. a seguito della introduzione del nuovo istituto non previsto al momento della revisione dell’articolo 160c.p..L’indirizzo in questione nega anche di avere fatto ricorso al concetto, costantemente ripudiato dalla quasi unanime dottrina, di atto equipollente, nel senso cioè che l’avviso di deposito degli atti sarebbe riconducibile alla eadem ratio di quelli analiticamente enumerati dall’articolo 160c.p., e precisa che nell’articolo 415 bis c.p.p. sarebbe individuabile quell’invito a presentarsi per rendere interrogatorio previsto dall’articolo 160c.p., che originariamente era disciplinato soltanto dall’articolo 375c.p.p..Gli argomenti posti dall’indirizzo giurisprudenziale in contrasto con i principi enunciati dalla sentenza Brembati però non sono in grado di mettere in difficoltà le conclusioni alle quali si è pervenuti, perché alla fine, sia pure per via di evidenziazione e di constatazione, finiscono per compiere una operazione additiva e manipolatoria in malam partem del catalogo di cui all’articolo 160c.p. violando, per quel che si è detto in precedenza, i principi di legalità e di riserva di legge in materia penale nonché il divieto di analogia in malam partem delle norme penali.In effetti l’indirizzo minoritario, che ha dato luogo al contrasto in esame, ripropone argomenti e censure già esaminati e superati con la decisione Brembati e, quindi, non è idoneo a mettere in discussione il dictum delle Sezioni Unite espresso con la sentenza Brembat, che deve, invece, come chiarito in precedenza, essere confermato.Infine va detto che l’indirizzo minoritario deve essere disatteso non solo per le ragioni generali esposte, ma anche perché il ritenere l’avviso ex articolo 415 bis c.p.p. atto equipollente o analogo ad altri atti processuali contenuti nell’articolo 160c.p. è frutto di errore.E’ in primo luogo davvero difficile ricondurre l’avviso di deposito degli atti ex articolo 415 bis c.p.p. tra gli atti aventi efficacia interruttiva se si tiene presente la classificazione degli stessi dinanzi menzionata.Escluso infatti che si tratti di un atto avente natura decisoria, coercitiva o probatoria, esso dovrebbe avere natura propulsiva del procedimento, come ad esempio il decreto di citazione a giudizio.Non è così perché il deposito degli atti segnala soltanto la fine della attività investigativa del pubblico ministero e serve essenzialmente a verificare il grado di resistenza del materiale investigativo dell’accusa rispetto alle sollecitazioni –deposito di memorie e documenti, richieste al pubblico ministero di compimento di atti di indagine, deposito di documentazione relativa ad indagini difensive - in senso opposto formalizzate dalla difesa.Proprio per tale ragione l’avviso predetto ha un contenuto meramente informativo, del resto in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione, secondo il quale la persona accusata di un reato deve nel più breve tempo possibile, essere informata …della natura e dei motivi dell’accusa, e svolge la essenziale funzione di porre l’indagato in condizione di prospettare, nell’ambito della sua strategia difensiva, le proprie posizioni difensive, prima che un atto davvero propulsivo del procedimento – ad esempio richiesta di rinvio a giudizio -,questo sì avente natura interruttiva del corso della prescrizione del reato ai sensi dell’articolo 160c.p., possa essere adottato dal pubblico ministero.E’ anche errato equiparare l’invito a rendere interrogatorio previsto dall’articolo 375c.p.p. alla facoltà di presentarsi al pubblico ministero per rendere dichiarazioni o per essere sottoposto ad interrogatorio previsto dall’articolo 415 bis c.p.p..Si tratta, invero, di due istituti assai diversi.Nel primo caso è il pubblico ministero che invita l’indagato a presentarsi, con possibilità anche di accompagnamento coattivo per l’indagato che non ottemperi all’invito, quando è necessario procedere ad atti di indagine che richiedono la presenza della persona sottoposta alle indagini.Si tratta all’evidenza di un atto che è funzionale allo svolgimento delle indagini, che lo stesso organo dell’accusa ritenga indispensabile, e che rientra tra gli atti processuali aventi natura probatoria ai quali correttamente viene riconosciuta capacità interruttiva della prescrizione perché testimoniano la volontà dello Stato di perseguire l’illecito.Nell’articolo 415 bis è, invece, prevista la facoltà dell’indagato di chiedere di presentarsi per rilasciare dichiarazioni o rendere interrogatorio.Si tratta di atto, pertanto, non provocato da una iniziativa del pubblico ministero, ma ricondotto ad una volontà dell’indagato che ritenga attraverso quello strumento di poter far valere le proprie ragioni.E’ un atto che si inserisce, perciò, nella strategia difensiva dell’indagato e che proprio per tale ragione non può assumere alcun rilievo ai fini della volontà dello Stato di perseguire l’illecito.Le brevi considerazioni che precedono dimostrano che anche i presupposti argomentativi sui quali si fonda la pretesa necessità di una integrazione e di un aggiornamento dell’elenco di cui all’articolo 160c.p. e, quindi, di una revisione dei consolidati principi in materia enunciati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità non sono fondati.5) ConclusioniIn conclusione per tutte le ragioni illustrate deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale l’avviso di conclusione delle indagini di cui all’articolo 415 bis c.p.p. non costituisce atto interruttivo della prescrizione del reato ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 160c.p..La sentenza impugnata ha fatto, quindi, corretta applicazione di tale principio dichiarando non doversi procedere nei confronti di Codrut Iordache per estinzione del reato contestatogli per prescrizione e disconoscendo, sia pure implicitamente, efficacia interruttiva della prescrizione all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.Ne consegue che il ricorso del Pubblico Ministero, fondato, come già rilevato, su un unico motivo di impugnazione, è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.Per questi motiviLa Corte rigetta il ricorso.

sabato 9 giugno 2007

CASSAZIONE PENALE SS. UU. N. 16568/2007

Corte di Cassazione Sezioni Unite Penali – Sentenza n. 16568/2007
(su art. 316 ter cp)

Cassazione – Sezioni unite penali – sentenza 19 – 27 aprile 2007, n. 16568 Presidente Lattanzi – Relatore Nappi Ricorrente G. C.
Motivi della decisione

1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Catanzaro ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di G. C. in ordine al delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, per avere ottenuto dal comune di Isola Capo Rizzuto, tra l'ottobre del 1998 e il marzo del 2000, la complessiva somma di £. 21.795.000 quale reddito minimo di inserimento, dissimulando a tal fine l'ostativa disponibilità di beni immobili diversi da quello di abitazione. Ricorre per cassazione Giuseppe C. e deduce violazione di legge, sostenendo che il delitto previsto dall'art. 316 ter c.p. è applicabile solo all'indebita percezione di contributi economico-finanziari, non anche alla percezione di erogazioni pubbliche assistenziali, qual è il reddito minimo di inserimento, come riconosciuto dalla giurisprudenza più recente. Esclude altresì la configurabilità del delitto di truffa, sostenendo che il semplice mendacio non è sufficiente a integrarne l'estremo degli artifizi o raggiri. Conclude che comunque l'intestazione di beni di cui non aveva la disponibilità materiale non era ostativa all'erogazione del controverso sussidio.
2. La sesta sezione penale di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, ha rilevato un contrasto di giurisprudenza sulla configurabilità del delitto di cui all'art. 316 ter c.p. anche con riferimento all'indebita percezione del reddito minimo di inserimento previsto dal decreto legislativo n. 237 del 1998. E ne ha pertanto rimesso la decisione alle Sezioni unite. In realtà, secondo una parte della giurisprudenza “non è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.), né quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.), nella condotta dell'agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l'erogazione dell'indennità da "reddito minimo di inserimento", in quanto si tratta di un tipo di contributo che rientra nell'ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, che come tali non sono prese in considerazione dalle norme incriminatrici sopra citate, che si riferiscono esclusivamente ai casi di illecita o fraudolenta percezione di contributi pubblici di carattere economico - finanziario a sostegno dell'economia e delle attività produttive” (Cass., sez. VI, 11 maggio 2005, Belcastro, m. 231865, Cass., sez. VI, 16 febbraio 2006, Liva, m. 233852, Cass., sez. VI, 2 marzo 2006, Pantorno, m. 234587). Si rileva in particolare che gli art. 316 ter e 640 bis c.p., laddove definiscono le "erogazioni pubbliche" rilevanti come “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”, recepiscono la terminologia propria della sola legislazione di sostegno alle attività economiche e produttive. E si sostiene che le severe sanzioni previste dagli art. 316 ter e 640 bis c.p. appaiono specificamente destinate a reprimere solo la devianza economico finanziaria, certamente più grave e sofisticata. Per l'opposto orientamento giurisprudenziale, invece, “è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.) nella condotta dell'agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l'erogazione di indennità di natura assistenziale (nella specie, il trasferimento monetario integrativo del reddito, ai sensi dell'art. 8 d.lgs. 18 giugno 1998 n. 237, c.d. "reddito minimo di inserimento")” (Cass., sez. VI, 12 giugno 2006, Russo, m. 234873, Cass., sez. VI, 10 ottobre 2003, Riillo, m. 228191). Si sostiene che il termine "contributo" è riferibile anche alle erogazioni pubbliche assistenziali, come confermato dal secondo comma dello stesso art. 316 ter c.p., laddove impone quale condizione di rilevanza penale del fatto una soglia minima di quattromila euro, certamente non giustificabile se la fattispecie si riferisse alle sole erogazioni di sostegno alle attività economico produttive. E' l'art. 316 bis c.p., si aggiunge, che si riferisce esplicitamente solo a “contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse”. Mentre sarebbe irragionevole ritenere che proprio le attività illecite di minore gravità, come quelle destinate all'indebita percezione di erogazioni assistenziali, debbano in definitiva essere sanzionate più gravemente, posto che, ove escluse dall'ambito di applicazione dell'art. 316 ter c.p., esse risulterebbero riconducibili alle concorrenti fattispecie della truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 comma 2 n. 1 c.p.) e del falso ideologico in atto pubblico commesso dal privato (art. 483 c.p.).
3. Dei due opposti orientamenti giurisprudenziali risulta fondato il secondo. Il riferimento sia dell'art. 316 ter sia dell'art. 640 bis c.p. a “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” è infatti tanto deliberatamente generico da escludere che nella definizione delle fattispecie penali si sia inteso recepire un improbabile linguaggio tecnico, peraltro certamente non desumibile dalla ricchissima legislazione premiale di cui si avvale da decenni l'intervento pubblico, anche europeo, allo scopo di orientare o sostenere le più diverse attività economiche e sociali. Allo scopo di definire l'ambito di applicazione delle fattispecie in discussione, dunque, occorre piuttosto fare specifico riferimento alla legislazione penale di settore, in particolare alle leggi n. 55 del 1990, n. 86 del 1990 e n. 300 del 2000, che hanno introdotto nel codice penale gli art. 316 bis, 316 ter, 640 bis, destinati a reprimere appunto gli abusi e le frodi connessi a tali erogazioni pubbliche.
4. Come queste Sezioni unite hanno già avuto modo di chiarire, l'art. 640 bis c.p. prevede in particolare una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all'art. 640 comma 2 n. 1 c.p. (Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, m. 221663). Infatti, se si raffrontano le due norme, risulta immediatamente evidente come sia concentrico l'ambito di applicazione delle circostanze aggravanti da esse previste. La circostanza prevista dall'art. 640 comma 2 n. 1 c.p. si applica a qualsiasi truffa commessa “a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare”. La circostanza prevista dall'art. 640 bis c.p. si applica solo quando la truffa abbia comportato l'indebita erogazione di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”. Sicché l'atto di disposizione patrimoniale necessario a integrare la truffa (Cass., sez. V, 14 gennaio 2004, Bongioanini, m. 228075) può derivare nel primo caso anche da un rapporto contrattuale bilaterale con lo Stato; presuppone invece nel secondo caso un'erogazione giustificata dal mero riconoscimento dei suoi presupposti di legge. E che la differenza tra le due circostanze sia nel titolo, piuttosto che nel contenuto, della disposizione patrimoniale è dimostrato dall'art. 316 bis c.p., che al contrario si riferisce appunto al contenuto della prestazione, quando punisce “chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità”. E' evidente infatti che l'art. 316 bis c.p., essendo inteso a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali erano stati erogati, non può che riferirsi a contributi connotati appunto da un tale vincolo di destinazione. Mentre gli art. 316 ter e 640 bis c.p., essendo entrambi destinati a reprimere la percezione di per sé indebita dei contributi, indipendentemente dalla loro successiva destinazione, sono applicabili anche a erogazioni non condizionate da particolari destinazioni funzionali, come sono appunto i contributi assistenziali. Si può pertanto concludere che il diverso ambito di applicazione dell'art. 316 bis c.p. rispetto al comune ambito di applicazione degli art. 316 ter e 640 bis c.p. giustifica il riferimento di queste ultime fattispecie anche a erogazioni a destinazione non vincolata, come quelle assistenziali.
5. Rimane da chiarire tuttavia il rapporto tra le fattispecie previste dagli art. 316 ter e 640 bis c.p., giacché esse non possono distinguersi in ragione della natura delle erogazioni, che invece, come s'è visto, le distingue entrambe dalla fattispecie prevista dall'art. 316 bis c.p. L'introduzione nel codice penale dell'art. 316 ter ha in realtà messo in discussione una risalente giurisprudenza, che ha sempre riconosciuto il falso come idoneo a integrare gli artifici o raggiri costitutivi della truffa. Infatti l'art. 316 ter c.p., che pure fa salva l'applicazione dell'art. 640 bis c.p., prevede come punibile l'indebita erogazione di contributi pubblici ottenuta non solo con la mera “omissione di informazioni dovute”, che potrebbe riconoscersi talora inidonea a integrare da sola gli estremi della frode, bensì anche “mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere”, vale a dire per mezzo di condotte comunemente riconosciute idonee a integrare gli artifici e i raggiri propri del delitto di truffa. Sicché quella prevista dall'art. 316 ter c.p. risulterebbe così un'ipotesi speciale di truffa, perché, pur essendo insita nel falso un'idoneità all'inganno, non ogni inganno presuppone un falso e la realizzazione dell'inganno mediante un falso è una mera eventualità (Cass., sez. V, 13 giugno 2000, Casano, m. 218018). E tuttavia la costruzione del delitto di cui all'art. 316 ter c.p. come un'ipotesi speciale di truffa finirebbe per vanificare l'intento del legislatore che, anche in adempimento di obblighi comunitari, aveva perseguito l'obiettivo di espandere ed aggravare la responsabilità per le condotte decettive consumate ai danni dello Stato o dell'Unione europea; mentre proprio tali condotte risulterebbero invece punite meno severamente a norma dell'art. 316 ter comma 1 c.p. o addirittura sottratte alla sanzione penale a norma dell'art. 316 ter comma 2 c.p. nei casi di minore gravità. Ora non v'è dubbio che il legislatore del 2000, quando ha inserito nel codice penale l'art. 316 ter, ha ritenuto appunto di estendere la punibilità a condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, esattamente come già il legislatore del 1986, che aveva previsto un'analoga fattispecie criminosa (art. 2 della legge 23 dicembre 1986 n. 898). E questa possibile diversità della fattispecie di truffa rispetto a quelle introdotte nel 1986 e nel 2000 è stata più volte riconosciuta sia dalla Corte costituzionale sia da queste stesse Sezioni unite, sebbene con un affidamento all'interprete del compito di verificare caso per caso se sia configurabile il delitto di truffa aggravata (art. 640 bis c.p.) ovvero quello residuale previsto appunto dall'art. 316 ter c.p. (C. cost., n. 25/1994, C. cost., n. 433/1998, C. cost., n. 95/2004; Cass., sez. un., 24 gennaio 1996, Panigoni, m. 203969). Sicché all'interprete si sono offerte due sole possibilità di risoluzione di questo problema: o ridurre l'ambito di applicazione dell'art. 316 ter c.p. in termini di radicale marginalità o ridurre considerevolmente l'ambito di applicazione della truffa. E su tali opposte soluzioni si è in effetti divisa anche la giurisprudenza di questa Corte. Una parte della giurisprudenza ha ritenuto infatti di poter restringere l'ambito di applicazione della fattispecie di truffa, escludendo che la mera presentazione di documentazione falsa integri gli estremi degli artifici o raggiri, in modo da riservare così all'art. 316 ter un effettivo ambito di applicazione (Cass., sez. II, 22 marzo 2002, Morandell, m. 221838, Cass., sez. VI, 10 ottobre 2003, Riillo, m. 228191, Cass., sez. II, 28 ottobre 2005, Maiorana, m. 232785). Altra parte della giurisprudenza tende invece a mantenere fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, ritenendo che siano riconducibili all'art. 316 ter c.p. solo o comunque soprattutto quelle condotte cui non consegua un'induzione in errore o un danno per l'ente erogatore (Cass., sez. II, 10 febbraio 2006, Fasolo, m. 233449, Cass., sez. II, 8 giugno 2006, Corsinovi, m. 234996, Cass., sez. II, 6 luglio 2006, Carere, m. 234848, Cass., sez. VI, 24 settembre 2001, Tammerle, m. 220200).
Il primo di questi due orientamenti finisce però per tradursi in una mera finzione interpretativa ad hoc, perché, quando non venga in discussione l'applicabilità dell'art. 316 ter c.p. o di altre fattispecie speciali di frode, la giurisprudenza continua correttamente a ritenere che il falso sia di per sé uno strumento di raggiro idoneo a integrare gli estremi della truffa (Cass., sez. I, 31 gennaio 2000, Petrarca, m. 215516, Cass., sez. V, 27 marzo 1999, Longarini, m. 214868, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2003, Di Rosa Donatella, m. 224495), anche se si tratti della truffa aggravata prevista dall'art. 640 bis c.p. (Cass., sez. V, 14 aprile 2004, Ballesio, m. 229203). Sicché questo orientamento interpretativo varrebbe solo a dissimulare, ma certo non a scongiurare, un risultato repressivo opposto a quello perseguito dal legislatore; oltre a legittimare inaccettabili disparità di trattamento di situazioni del tutto simili.
Non rimane quindi che privilegiare il secondo orientamento interpretativo, con la consapevolezza tuttavia che, in conformità del resto ai dichiarati intenti del legislatore, l'ambito di applicabilità dell'art. 316 ter c.p. si riduce così a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale. In molti casi, invero, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l'effettivo accertamento da parte dell'erogatore dei presupposti del singolo contributo. Ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche. Sicché in questi casi l'erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale dichiarazione del richiedente. D'altro canto l'effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell'erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto. E quindi l'accertamento dell'esistenza di un'induzione in errore, quale elemento costitutivo del delitto di truffa, ovvero la sua mancanza, con la conseguente configurazione del delitto previsto dall'art. 316 ter c.p., è questione di fatto, che risulta riservata al giudice del merito.
Questa conclusione restituisce peraltro ragionevolezza al sistema anche nella prospettiva del rapporto dei reati in discussione con quelli di falso. Secondo una plausibile e prevalente giurisprudenza infatti “il reato di cui all'art. 316 ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall'art. 483 c.p., in quanto l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscano elemento essenziale per la sua configurazione” (Cass., sez. VI, 19 settembre 2006, Cristodaro, m. 234765, Cass., sez. VI, 31 maggio 2006, Raccioppo, m. 235091, Cass., sez. VI, 31 maggio 2006, Magnolia, m. 234840). Si rinviene certo un precedente secondo il quale “il delitto di tentata frode comunitaria e quello di falso ideologico commesso da soggetto privato in atto pubblico concorrono per la diversità del bene giuridico offeso” (Cass., sez. III, 2 ottobre 1998, Carone, m. 212164). Tuttavia, una volta riconosciuto un rapporto di parziale identità tra le fattispecie, il riferimento anche all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell'amministrazione della giustizia. E' invece ragionevolmente indiscusso in giurisprudenza che la truffa concorre con i delitti di falso destinati a integrarne l'estremo degli artifici e raggiri, perché, come s'è detto, il falso è solo uno dei possibili strumenti di frode (Cass., sez. V, 13 giugno 2000, Casano, m. 218018, Cass., sez. II, 16 dicembre 1988, Piazza, m. 180937, Cass., sez. V, 18 gennaio 1984, Arenare, m. 163439). Sicché, ove non si ritagliasse per l'art. 316 ter c.p. un ambito di applicazione estraneo a quello della truffa, si avrebbe l'ulteriore conseguenza discriminante di escludere solo per queste frodi il concorso con il falso.
Vale piuttosto chiarire che solo la falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell'art. 483 c.p. ovvero l'uso di un atto falso costituiscono modalità tipiche di consumazione del delitto di cui all'art. 316 ter c.p., mentre è solo eventuale che l'utilizzatore degli atti o documenti falsi sia anche autore della falsificazione. Deve perciò ritenersi che solo i delitti di cui all'art. 483 c.p. e all'art. 489 c.p. rimangono assorbiti ai sensi dell'art. 84 c.p. nel delitto previsto dall'art. 316 ter c.p., che concorre invece con gli altri delitti di falso eventualmente commessi al fine di ottenere le indebite erogazioni.
6. Si può pertanto enunciare il seguente principio di diritto: I delitti di cui agli art. 316 ter e 640 bis c.p., configurabili entrambi, diversamente dal delitto previsto dall'art. 316 bis c.p., anche nel caso di indebita erogazione di contributi di natura assistenziale, sono in rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Sicché il residuale e meno grave delitto di cui all'art. 316 ter, che diversamente da quello di cui all'art. 640 bis c.p. assorbe anche i delitti di falso ideologico previsto dall'art. 483 c.p. e di uso di atto falso previsto dall'art. 489 c.p., è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa.
E in applicazione di tale principio il ricorso risulta infondato, essendo incensurabile in questa sede il convincimento espresso dai giudici del merito circa la disponibilità da parte dell'imputato di beni immobili ostativi al riconoscimento del contributo erogatogli.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

CASSAZIONE PENALE SEZ. I N. 34468/2006

Cassazione Penale sez. I, Sentenza n. 34468 del 21 giugno 2006
(depositata il 16 ottobre 2006)

(Sezione Prima Penale, Presidente M. Sossi, Relatore G. Silvestri

TERMINI PROCESSUALI – SENTENZA CONTUMACIALE - APPELLO DEL DIFENSORE DI UFFICIO – PRECLUSIONE DEL DIRITTO DI IMPUGNAZIONE DELL’IMPUTATO – INSUSSISTENZA – RESTITUZIONE NEI TERMINI – AMMISSIBILITA’

La disciplina della restituzione nei termini per impugnare la sentenza contumaciale prevista dall’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., come modificata dalla legge n. 60 del 2006, è di natura speciale rispetto alle regole generali sulle impugnazioni, sicché ad essa non è applicabile il principio di unicità del diritto di impugnazione, per effetto del quale l’esercizio di tale diritto da parte del difensore d’ufficio preclude all’interessato, una volta scaduti i termini, di attivare il medesimo mezzo di impugnazione. Ne consegue che, una volta provata la non conoscenza del processo e dei provvedimenti, l’imputato contumace ha diritto di ottenere la restituzione nei termini per proporre appello, anche se la sentenza di primo grado sia stata appellata dal difensore d’ufficio, non potendosi sostenere che la legge abbia voluto introdurre una preclusione dipendente, non da una sua condotta, ma da quella del difensore d’ufficio che abbia agito a sua insaputa.

CASSAZIONE PENALE SS. UU. N. 35358/2003


Cass. Pen. – Sezioni unite – Sentenza 9 luglio - 9 settembre 2003, n. 35358
(in tema di notifica dell’avviso dell’udienza preliminare)
Con sentenza 1 marzo 2000 il Tribunale di Roma dichiarava F. G. responsabile, quale direttore del quotidiano “xx xxxxxx”, del reato di cui agli articoli 57, 595 Cp per avere omesso il controllo necessario al fine di impedire che con gli articoli pubblicati il 19 giugno 1997 ed il 20 giugno 1997 sul citato giornale, si offendesse, anche mediante l’attribuzione di fatti determinati, la reputazione di D. P., sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano; concesse le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, condannava il medesimo a pena ritenuta di giustizia, al versamento di una somma ai sensi dell’articolo 12 legge 47/1948 ed al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile, con una provvisionale.Tale decisione veniva confermata dalla Corte di appello con pronuncia 1 marzo 2000 avverso la quale ha ora proposto ricorso per cassazione l’imputato, deducendo, quale unico motivo, la nullità assoluta dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare e pertanto dell’udienza stessa nonché di tutti gli atti successivi.In particolare ha denunciato: che detto avviso, nonostante egli avesse eletto domicilio presso lo studio del difensore, era stato notificato nel luogo di residenza, non a mani proprie, che la Corte territoriale aveva ritenuto che si vertesse in ipotesi di nullità a cosiddetto regime intermedio, respingendo l’eccezione difensiva siccome tardiva, sollevata solo con l’atto di appello; che al contrario si trattava di nullità assoluta ed insanabile al sensi dell’articolo 179 Cpp perché la irrituale notifica aveva determinato la di lui omessa citazione.L’impugnante, riconoscendo l’esistenza di contrasto giurisprudenziale sulla questione prospettata, chiedeva eventualmente la remissione degli atti alle Sezioni unite e la quinta sezione penale della Cassazione, alla quale il ricorso veniva assegnato, a tanto provvedeva.

Motivi della decisione
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite è la seguente: se la omessa notifica all’imputato dell’avviso relativo all’udienza preliminare determini una nullità assoluta ed insanabile ex articolo 179 Cpp oppure una nullità a regime intermedio al sensi dell’articolo 180 Cpp che non può essere rilevata o dedotta dopo la deliberazione della sentenza di primo grado.La risposta al quesito assume portata decisiva nel caso concreto poiché risulta agli atti (il controllo dei quali, finalizzato all’accertamento di un contesto processuale, è consentito anche in questa sede) che in realtà l’imputato aveva eletto domicilio presso il difensore e che l’avviso de quo fu notificato nel luogo di residenza, a mani del portiere: situazione non dedotta dal difensore all’udienza preliminare né nel corso del giudizio di primo grado, ma solamente in appello, non essendo comparso l’imputato in detta udienza ed essendo rimasto contumace in entrambi i gradi del giudizio.Quando l’imputato abbia eletto domicilio al sensi dell’articolo 161 Cpp le notifiche che lo riguardano devono essere ivi effettuate, non potendo altrimenti ritenersi verificata la conoscenza di quanto notificato; al proposito, è stato più volte ribadito che la notifica non operata a mani proprie, in luogo diverso da quello indicato al momento dell’elezione. è affetta da nullità anche se avvenuta al domicilio reale e di effettiva abitazione dell’interessato: invero solo quella eseguita personalmente al destinatario, in quanto rappresenta la forma più sicura per renderlo edotto dell’atto, è idonea a superare l’elezione ed è valida in qualunque luogo venga effettuata. (Cassazione 1167/97 rv 208114; 1988/98 rv 209847; 6675/00 rv 216226). La menzionata nullità investe e compromette la funzione tipica ‑ di strumento indefettibile di conoscenza ‑ della notifica e di conseguenza, qualora questa abbia ad oggetto una citazione o un avviso, si traduce in omissione dei medesimi.Nella presente fattispecie si è dunque realizzata un’ipotesi di omesso avviso all’imputato per l’udienza preliminare e sulla natura della invalidità determinatasi, dalla quale dipende la conclusione circa l’ammissibilità o meno dell’eccezione formulata per la prima volta in appello, sussiste netto contrasto tra i precedenti delle sezioni semplici di questa Corte.Un orientamento giurisprudenziale più risalente nel tempo, considerato che l’omissione, de qua comporta una carenza di valida instaurazione del rapporto processuale, ha ravvisato la sussistenza di una nullità assoluta ed insanabile. A sostegno di siffatta conclusione si è evidenziato che l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, al di là della denominazione usata, ha carattere di vocatio in ludicium in quanto la sua comunicazione insieme alla richiesta di rinvio a giudizio del Pm, che implica l’esercizio dell’azione penale, apre la fase giurisdizionale in senso proprio del procedimento; si è richiamata altresì la relazione al progetto preliminare ove, a commento dell’articolo 179 Cpp, si legge che «la omessa citazione va intesa come riferita non solo al dibattimento, ma anche a momenti diversi, come ad esempio l’udienza preliminare». (Cassazione 2431/93 rv 195037; 8321/94 rv 198693).In altre pronunce, più recenti, è stato invece affermato che l’avviso per l’udienza preliminare, pur rientrando tra gli atti che determinano l’intervento dell’imputato, non costituisce una citazione, termine per lo più inteso come chiamata in sede dibattimentale e che l’udienza suddetta ha funzione di filtro del rinvio a giudizio, mentre il passaggio processuale della presentazione dell’imputato al dibattimento segue al decreto che dispone il giudizio: pertanto l’articolo 179 Cpp, quando parla di omessa citazione dell’imputato non può che avere riguardo alla notifica di questo decreto (Cassazione 9389/98 rv 211445; 7523/00 rv 216537).Le Sezioni unite ritengono di aderire alla soluzione adottata dal primo indirizzo giurisprudenziale, condividendone le argomentazioni.È principio consolidato che le nullità speciali, previste da singole disposizioni di legge, senza indicazione specifica della loro natura (assoluta, intermedia o relativa), sono riconducibili all’una o all’altra categoria delle nullità generali, con applicazione della relativa disciplina se ontologicamente e strutturalmente inquadrabili in ciascuna notifica, fornisce spiegazione della circostanza che tra i requisiti essenziali dell’avviso non compaia, come per il decreto che dispone il giudizio (articolo 429 Cpp), l’enunciazione del fatto e segnala sul punto l’effettiva equivalenza dei due atti; il ragionamento vale anche per l’ulteriore requisito, pur non essenziale, della indicazione dei mezzi di prova.A dimostrazione della correttezza di tali rilievi v’è da considerare che quando fu modificato, con la legge 479/99, l’articolo 429 lettera c) Cpp aggiungendosi, dopo le parole “l’enunciazione del fatto” l’espressione “in forma chiara e precisa”, identico intervento venne operato per l’articolo 417 Cpp relativo alla richiesta di rinvio a giudizio.
Inoltre il comma 4, ultima parte, del citato articolo 419 Cpp contempla «la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria» e pare impensabile, in quanto sarebbe privo di qualsiasi giustificazione, che si sia voluto distinguere tra la posizione di questi soggetti e quella dell’imputato, che verrebbe semplicemente notiziato: in realtà il termine citazione non è stato formalmente impiegato con riferimento all’imputato perché implicito negli adempimenti che devono essere posti n essere nel suoi confronti.L’articolo 420 comma 2 Cpp stabilisce che all’udienza preliminare «il giudice procede agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti » ed è innegabile che il concetto di costituzione sia consequenziale a quello di citazione che rappresenta il suo antecedente storico e logico. La stessa nonna al comma 4, già nel testo originario vigente al momento del compimento dell’atto per cui si discute, prevedeva che la mancata comparizione dell’imputato rendesse operanti le verifiche e le garanzie postulate per la fase dibattimentale ed in particolare affermava: «quando l’imputato non si presenta e ricorrono le condizioni previste dall’articolo 485 comma 1 e 486 comma 1 e 2 Cpp, il giudice fissa la data della nuova udienza e dispone che sia dato avviso all’imputato a norma dell’articolo 419 comma 1»; orbene le condizioni richiamate di cui all’articolo 485 Cpp sono quelle relative alla incolpevole non conoscenza della “citazione a giudizio”, il che a sua volta convalida la tesi della sussumibilità dell’avviso per l’udienza preliminare e delle sue modalità attuative nella nozione di citazione. Del resto anche in materia di misure cautelari, in relazione all’udienza per il riesame, non si parla di “citazione” bensì di “avviso” (articoli 309 comma 8, 324 comma 8 Cpp) e ciò nonostante è stato costantemente ritenuto che l’omissione della notifica di tale informativa all’imputato o all’indagato comportasse nullità assoluta; proprio le Sezioni unite ‑ chiamate a pronunciarsi su una fattispecie di omessa traduzione dell’indagato che aveva chiesto di essere sentito ‑ ebbero a esprimersi in conformità osservando che la funzione tipica dell’avviso è quella della vocatio in iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio e che le nullità previste dall’articolo 127 comma 5 Cpp applicate alla procedura del riesame per il richiamo delle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’articolo 309 comma 8 Cpp, qualora si concretino nell’omissione di un atto indefettibile della procedura diretta alla costituzione del contraddittorio quale l’avviso, la notifica, l’ordine di traduzione e la sua esecuzione ‑ sono assolute ex articolo 179 Cpp (Cassazione Sezioni unite, 40/1996 rv 203771 e successivamente: Cassazione 1520/96 rv 204216; Cassazione 2020/96 rv 204536; 29/2000 rv 216960). Analoga è la situazione per quanto attiene al procedimento di esecuzione: il comma 3 dell’articolo 666 Cpp dispone che l’avviso dell’udienza fissata venga notificato all’interessato e la relativa omissione, secondo costante insegnamento dì legittimità, determina una nullità al sensi dell’articolo 179 Cpp (Cassazione 272/94 rv 196672; 6168/97 rv 209134; 1730/98 rv 211550; 5495/00 rv 216349).Alle suddette valutazioni si è giunti attribuendo alla citazione di cui all’articolo 179 Cpp il significato non già di formale ed espresso invito a comparire, ma di atto o meglio di insieme degli adempimenti a carico dell’ufficio con i quali l’imputato, l’indagato o il condannato vengono posti in condizione di partecipare ad una fase processuale che sì conclude con una decisione, fase anche antecedente, successiva e diversa rispetto al giudizio in senso stretto, come pure incidentale rispetto al procedimento principale‑, intendendosi per “partecipare” l’essere parte in contraddittorio con il Pm (e con altre eventuali parti private) dinnanzi ad un giudice terzo.
All’uopo va considerato che l’imputato con riguardo all’udienza preliminare non solo è parte necessaria, ma altresì titolare ‑ sin dal momento dell’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale ‑ di diritti che devono essere esercitati personalmente: la rinuncia alla stessa con istanza di giudizio immediato da effettuarsi almeno tre giorni prima dell’udienza e la scelta del rito abbreviato che, ai sensi dell’articolo 439 Cpp, va realizzata prima che siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 Cpp; identico sbarramento è ora previsto dall’articolo 446 Cpp, quale modificato dalla legge 479/99 per il patteggiamento, la cui richiesta costituisce anch’essa atto personale.E non è indifferente che l’impostazione illustrata trovi conferma, nella relazione al progetto preliminare la quale, affermando che l’omessa citazione sanzionata dall’articolo 179 Cpp concerne anche l’udienza preliminare, espressamente individua nell’avviso e nella sua notifica una citazione, così fornendo un’interpretazione autentica della intenzione del legislatore la quale a norma dell’articolo 12 delle preleggi costituisce, insieme al significato proprio delle parole usate, criterio fondamentale per l’interpretazione della legge.Inoltre è opportuno ricordare che la citata legge 479/99 ha sostanzialmente trasferito la disciplina in precedenza dettata dagli articoli 485 e segg. Cpp nelle attuali disposizioni degli articoli 420bis e segg. Cpp che prevedono anche per l’udienza preliminare la dichiarazione di contumacia dell’imputato in assenza di legittime cause di mancata comparizione o di nullità degli avvisi, disponendo poi l’applicabilità per il dibattimento, in quanto compatibili, dei citati articoli 420bis, ter, quater, quinquies Cpp.È pur vero che la novella è intervenuta successivamente all’atto in questione ed allo svolgimento dell’udienza preliminare nel presente procedimento, peraltro è indubbio che essa trova il suo presupposto nella sostanziale natura di citazione da attribuirsi già in precedenza all’avviso, tant’è che la sua introduzione non ha comportato l’esigenza di mutare la terminologia concernente l’incombente informativo; comunque si è detto come il testo originario dell’articolo 420 Cpp estendesse all’udienza preliminare, in tema di costituzione delle parti, i meccanismi di tutela del contraddittorio tipici del dibattimento.Gli sviluppati argomenti rendono quindi palese la non idoneità del dato lessicale a sorreggere la tesi che vorrebbe negare la riconducibilità all’articolo 179 Cpp delle violazioni comportanti nullità per omessa notifica all’imputato dell’avviso per l’udienza preliminare; ciò posto, diventa inconsistente anche il richiamo, operato a tal fine dall’orientamento che si disattende, alla funzione dell’udienza preliminare, destinata a costituire “filtro” della richiesta di dibattimento avanzata dal Pm. Invero ciò che rileva è che la segnalata ed indiscutibile funzione si attua in una fase avente natura giurisdizionale, al contempo dovendosi considerare che, sebbene l’udienza preliminare non possa concludersi con una condanna, sussiste pur sempre l’interesse dell’imputato ad ottenere una sentenza di non doversi procedere. A sottolineare la portata di questo interesse v’è la previsione (articolo 420 comma 1 Cpp) della necessaria presenza del difensore nonché il rilievo che la pronuncia emessa ex articolo 425 Cpp, anche se non è ricompresa tra quelle di cui agli articoli 648, 649 Cpp le quali sono formalmente preclusive di un secondo giudizio, impedisce ugualmente l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona ove in concreto manchino le condizioni per la sua revocabilità; quando poi essa sia stata emessa per estinzione del reato l’effetto preclusivo è irreversibile al pari di quello di cui all’articolo 649 Cpp non essendo configurabile neppure in astratto la sopravvenienza di presupposti per un nuovo esercizio dell’azione penale (Cassazione 459/97 rv 207728; 2455/99 rv 214905; 8855/02 rv 216901).Nella suddetta visione ed a sua conferma si collocano le modifiche legislative, invocate dalla difesa, che hanno determinato sotto il profilo delle garanzie processuali una progressiva equiparazione dell’udienza preliminare a quella dibattimentale ed hanno reso più pregnante il controllo del giudice sulla consistenza dell’accusa: decreto legislativo 51/1998 che ha introdotto l’incompatibilità tra il giudice delle indagini preliminari ed il giudice dell’udienza preliminare (articolo 34 comma 2bis Cpp); citata legge 479/99 in tema di rinnovazione dell’avviso, di impedimento a comparire dell’imputato o del suo difensore, di contumacia (articoli 420bis, 420ter, 420quater Cpp), di poteri istruttori del giudice (articoli 421bis-422 Cpp), di possibile riconoscimento di circostanze attenuanti con correlativo giudizio di comparazione ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere (articoli 425 Cpp); legge 144/00 la quale ha disposto che con l’avviso per l’udienza preliminare sia dato all’imputato l’avvertimento che non comparendo si procederà in contumacia (articolo 419 comma 1 ultima parte); legge 248/02 che in tema di remissione ha sancito che gli effetti della richiesta comportino anche per il Gup l’impossibilità di emettere il decreto che dispone il giudizio o la sentenza.(articoli 45, 47 comma 2 Cpp). Per effetto di tali novelle, come avvertito e ribadito dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione a Sezioni unite, l’udienza preliminare ha perso la sua iniziale connotazione di mero momento processuale e le valutazioni affidate al giudice sul merito dell’accusa sono orinai prive di quella sommarietà tipica di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo stato degli atti (sentenze 224/01; 335/02 della Corte costituzionale; Cassazione, Sezioni unite, 31312/02 rv 222044; 39915/02 rv 222602).Nè può dimenticarsi che i poteri di controllo giurisdizionale sulla richiesta del Pm furono accentuati già con la legge 105/93 che modificò l’articolo 425 Cpp, rendendo possibile una sentenza di non doversi procedere anche in situazione di non evidenza delle cause liberatorie cosiddette di merito, ossia diverse da quelle comportanti estinzione del reato o improcedibilità. Inoltre la legge 356/92 e varie decisioni della Corte costituzionale (Corte costituzionale 254/92; 255/92; 361/98), mirando a conservare in vista dell’accertamento della verità le conoscenze acquisite, ebbero a consentire il travaso nel dibattimento e la valutazione quali dati probatori di atti istruttori (esame di testimoni, dell’imputato, delle persone indicate nell’articolo 210 Cpp) assunti nell’udienza preliminare, a prescindere dalla loro irripetibilità e dall’accordo delle parti; la legge 267/97, modificando l’articolo 421 e sostituendo l’articolo 514 Cpp, introdusse poi lapossibilità di procedere ad esami incrociati nella fase de qua, ammettendone la lettura in dibattimento con piena e diretta utilizzabilità al fini della prova; l’attuale articolo 111 Costituzione, quale modificato dalla legge costituzionale 2/1999 ‑ nel sancire al comma 4 il principio che «la colpevolezza non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre sottratto all’ interrogatorio da partedell’imputato o del suo difensore» ‑ non distingue in relazione al postulato momento di confronto tra dibattimento, incidente probatorio ed udienza preliminare.I suddetti interventi sono stati richiamati in quanto hanno posto in luce, ripetutamente e sotto diversi aspetti, l’importanza dell’udienza preliminare nei suoi esiti immediati e nell’economia del processo: tale importanza, che ha imposto adozione iniziale e via via accresciuta ‑in attuazione dei principi di terzietà nonché di imparzialità del giudice e di rispetto del contraddittorio ‑ di garanzie in favore dell’imputato nello svolgimento della fase, non può non incidere sulla natura e sulla disciplina dell’atto introduttivo finalizzato, come si è visto, alla di lui “costituzione” (articolo 420 Cpp).A quanto sopra aggiungasi che le violazioni concernenti l’intervento dell’imputato contemplate dall’articolo 178 lettera c) Cpp sono residuali rispetto a quelle comportanti la mancanza della citazione di cui all’articolo 179 Cpp: le prime derivano quindi da inosservanze che, pur investendo la chiamata in giudizio, non si concretano nella sua omissione (es: inosservanza dei termini, articoli 429 comma 3; 419 comma 4; 309 comma 8 Cpp) oppure attengono a singole attività (dichiarazioni spontanee. articoli 421; 494 Cpp; esame: articolo 503 Cpp; intervento nella discussione finale: articolo 523 Cpp) con le quali si esplicano facoltà e diritti al medesimo attribuiti nel coordinare le due nonne e nell’individuare il loro rispettivo ambito di applicazione si palesa logico riportare nella previsione della seconda ogni ipotesi di omessa convocazione iniziale dell’imputato in vista di una determinata fase la quale presupponga instaurazione di un rapporto processuale tra le parti.D’altro canto se il legislatore avesse inteso limitare la sanzione dell’articolo 179 Cpp alla sola citazione dell’imputato per il giudizio in senso stretto gli sarebbe stato facile precisarlo, mentre sarebbe stato molto difficile stilare l’elenco di tutte le ipotesi di convocazione del predetto (per l’udienza dibattimentale e per quelle camerali) da inserire nella previsione: di conseguenza il riferimento operato nell’articolo 179 Cpp alla “omessa citazione” senza alcuna ulteriore specificazione non può ritenersi rivelatore della volontà di escludere le ipotesi di vocatio diverse da quella per il giudizio, ma piuttosto di un proposito volto a ricomprenderle. Nella delineata ottica assume ancora significatività il raffronto con l’articolo 178 lettera c) Cpp che in tema di nullità generali, a proposito della persona offesa, usa l’espressione “citazione per il giudizio”: la necessità di esplicitare la limitazione dimostra che altrimenti l’avviso per l’udienza preliminare sarebbe rientrato nella fattispecie e l’abbandono della locuzione riduttiva nell’articolo immediatamente successivo, con riguardo all’imputato, induce ad escludere la possibilità di interpretare restrittivamente il termine “citazione”.
Concludendo, deve affermarsi che l’omissione della notifica all’imputato dell’avviso per l’udienza preliminare comporta una nullità assoluta, rilevabile d’ufficio e deducibile in ogni stato e grado del procedimento, sorgendo preclusione solo con la formazione del giudicato. In relazione alla possibilità che la nullità venga rilevata d’ufficio è opportuno sottolineare che, poiché il verbale dell’udienza preliminare viene inserito nel fascicolo del Pm, il giudice del dibattimento sarà comunque abilitato a chiedere in visione e ad esaminare gli atti introduttivi della medesima, la conoscenza dei quali ‑ che si verificherebbe del resto anche nell’ipotesi in cui sia la parte a sollevare l’eccezione ‑ non incide, stante la loro natura puramente processuale, sulla terzietà ed imparzialità di detto giudice.
Nella fattispecie concreta, secondo quanto esposto in premessa, si è dunque verificata una siffatta invalidità che si è propagata all’intera udienza ed a tutti gli atti successivi, sino alla sentenza di appello: erroneamente dunque la Corte territoriale ha ritenuto la stessa sanata per mancata tempestiva deduzione.La sentenza impugnata nonché quella di primo grado ed il decreto che ha disposto il giudizio devono pertanto essere annullati senza rinvio con trasmissione degli atti al Tribunale di Roma, affinché il Gup provveda a rinnovare l’udienza preliminare alla quale, in base al principio del tempus regit actum, sarà introdotta e si svolgerà orinai nell’osservanza delle disposizioni del codice di rito, così come modificate dalla sopravvenuta normativa (leggi 512/99 e 144/00).
PQM

La Corte, a Sezioni unite, annulla l’impugnata sentenza nonché quella di primo grado ed il decreto che ha disposto il giudizio; ordina trasmettersi gli atti al Tribunale di Roma per l’ulteriore corso.

CASSAZIONE PENALE SS. UU. N. 37483/2006

Cass. Pen., SS. UU. n. 37483/2006 (Sent. 19 gennaio-14 novembre 2006, n. 37483)

Contumacia: la detenzione dell’imputato, anche se per altra causa costituisce legittimo impedimento, anche nel caso in cui questi non ha tempestivamente comunicato la variazione del suo status. Il giudice deve in ogni caso accertare la mancanza di una sua dichiarazione di volontà che il processo si svolga in sua assenza.

Presidente Lattanzi – Relatore MarzanoPm Palombarini – Ricorrente F. A.
Osserva1. Il 10 dicembre 2004 la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza in data 19 gennaio 1996 del Tribunale di Vicenza che aveva condannato F. A. a pena ritenuta di giustizia per imputazione di cui agli articoli 110, 453, n. 4, 458 Cp , riqualificava il reato ai sensi degli articoli 455 e 458 Cp, ritenendo non comprovato il previo concerto con gli autori della falsificazione, riduceva, conseguentemente, la pena inflitta dal primo giudice e confermava nel resto.
Nel pervenire alla resa statuizione, i giudici dell’appello rigettavano, tra l’altro, una eccezione difensiva con la quale si era dedotta la nullità dell’ordinanza resa in primo grado all’udienza del 19 gennaio 1996, reiettiva della istanza di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento dell’imputato, detenuto per altra causa e per il quale non era stata disposta la traduzione in udienza. Rilevavano che l’imputato era stato presente in precedenti udienze; che il 6 ottobre 1995 la sua posizione era stata stralciata ed il processo rinviato all’udienza del 19 gennaio 1996; che nel frattempo era stata disposta la sua carcerazione per altro titolo di reato ed il 23 dicembre 1995 era stata disposta la detenzione in semilibertà, con fine pena al 15 febbraio 1996; che “quanto meno a partire dal 23 dicembre 1995 l’Arena sapeva che in occasione dell’udienza fissata per il 19.1.96 egli si sarebbe trovato in stato detentivo”; che “solo il giorno 10 gennaio 1996, ben 18 giorni dopo e solo 8 giorni prima dell’udienza”, egli aveva richiesto al magistrato di sorveglianza la “concessione del permesso?premio al fine di presenziare alla suddetta udienz&’, omettendo di “far pervenire con qualche anticipo comunicazione della sua attuale detenzione al Tribunale di Vicenza” e limitandosi “a comunicare tale circostanza ? tramite il suo difensore ? il giorno stesso dell’udienza 19 gennaio 1996”.Riteneva la Corte territoriale - richiamando arresti giurisprudenziali di questa S. C. - che “esiste una sorta di onere a carico dell’imputato-detenuto di attivarsi al fine di essere presente all’udienza che lo riguarda: la mancata concessione del permesso premio da parte del magistrato di sorveglianza competente, investito della questione solo otto giorni prima dell’udienza, e, oltretutto, la mancata comunicazione della detenzione dell’imputato al Tribunale di Vicenza con un qualche anticipo rispetto all’udienza in questione, dimostrano l’insufficienza dell’attività posta in essere dallo stesso imputato.2. Avverso tale sentenza ha proposto personalmente ricorso l’imputato, con un unico motivo di doglianza deducendo che illegittimamente il primo giudice ne aveva dichiarato la contumacia, “nonostante la tempestiva eccezione difensiva finalizzata alla traduzione dell’imputato detenuto per altra causa ovvero al rinvio del giudizio”. Rileva che egli certamente versava in una situazione di legittimo impedimento e che “solo la mancata conoscenza dello stato di detenzione può giustificare il giudizio contumaciale” essendo stato assolto da parte sua “l’obbligo... di allegazione e di eccezione”.3. Il ricorso veniva assegnato alla quinta Sezione penale, la quale, con ordinanza resa all’udienza del 6 aprile 2006, ne disponeva la rimessione a queste Su, ai sensi dell’articolo 618 Cpp.Rilevava la Sezione remittente che sul punto era insorto un contrasto nella giurisprudenza di questa Sc: un primo orientamento ha, infatti, ritenuto che, salva l’ipotesi di carcerazione (ovviamente in diverso procedimento) avvenuta a ridosso immediato dell’udienza, l’imputato ha l’onere di segnalare tempestivamente il suo stato di detenzione e la sua volontà di partecipare al processo, sicché in difetto di tempestiva segnalazione non sussiste per il giudice, venuto poi a conoscenza dell’impedimento, l’obbligo di rinviare la trattazione del processo al fine di disporre la traduzione dell’imputato medesimo. L’opposto indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto, invece, la insussistenza di un siffatto onere a carico dell’imputato, rilevando solo l’accertato assoluto impedimento dello stesso a comparire.4. Il Primo Presidente ha fissata l’odierna udienza per la trattazione del ricorso.5. La questione sottoposta all’esame di queste Su può così sintetizzarsi: “se la detenzione per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integri un legittimo impedimento a comparire dell’imputato (preclusivo del giudizio contumaciale), anche nel caso in cui egli avrebbe potuto comunicare al giudice il sopravvenuto stato di detenzione, in tempo utile per consentirne la traduzione”.5.1 Come richiama l’ordinanza della sezione remittente, si è al riguardo determinato un contrasto nella giurisprudenza di questa Sc, insorto già sotto il vigore del previgente Cpp del 1930, protrattosi poi pur dopo l’entrata in vigore dell’attuale codice di rito.Un primo indirizzo, infatti, sotto il vigore del previgente testo normativo del 1930 ha ritenuto legittima la declaratoria di contumacia dell’imputato detenuto per altra causa quando l’impedimento a comparire sia imputabile a sua condotta che non abbia reso possibile la tempestiva traduzione in udienza (Cassazione, Sezione seconda, 11 luglio 1988, 4682/90), chiarendosi che quando il giudice non ha conoscenza dello stato detentivo dell’imputato, e non ha perciò potuto provvedere alla sua tempestiva traduzione, l’imputato medesimo ha l’onere di informarlo, e se a tanto non adempie non può addurre l’esistenza di un assoluto impedimento (Cassazione, Sezione prima, 7064/89). S’è ulteriormente chiarito che “un tale onere non risulta legislativamente imposto ma rientra certamente fra i principi intesi ad un sollecito svolgimento del processo...” (Cassazione, Sezione sesta, 5299/87).Tale indirizzo è stato confermato nel vigore dell’attuale disciplina codicistica (Sezione quarta, 36916/05; 46001/03; Sezione sesta, 5689/00; Sezione terza, 7161/00; Sezione prima, 12927/01; 4230/98; Sezione quarta, 2119/97). In particolare, la prima di tali decisioni, ribadendo, consapevole del contrasto, che “esiste un onere dell’imputato di segnalare tempestivamente lo stato di detenzione (ovviamente quando si tratti di diverso procedimento) e la sua volontà di partecipazione al processo”, rileva che il diverso orientamento “fa leva sul dato formale dell’esistenza di un onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento per il solo difensore... per dedurne l’inesistenza di un analogo onere a carico dell’imputato”; laddove, “trattandosi, se esistente,non di nullità assoluta (perché non riguarda l’omessa citazione ma l’intervento dell’imputato) bensì dì nullità a regime intermedio risulta ... applicabile la disciplina di carattere generale sulla deducibilità delle nullità (articolo 182, comma 1 Cpp) che esclude che le nullità possano essere dedotte da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa; nella specie con la mancata tempestiva segnalazione dell’impedimento sopravvenuto in altro procedimento”.Tale principio è temperato dall’assunto che “solo se la detenzione sopravviene a ridosso immediato dell’udienza può ammettersi che la comunicazione avvenga direttamente in udienza anche attraverso il difensore, purché risulti circostanziata e riferisca la volontà dell’imputato di essere presente al dibattimento. L’inosservanza di tale obbligo di diligenza rende legittima l’ordinanza contumaciale” (Sezione terza, 7161/00, cit.).5.2 L’opposto indirizzo è stato pur esso ripetutamente espresso sotto il vigore del previgente codice del 1930, affermandosi che il sopravvenuto stato di detenzione per altra causa dell’imputato, cui sia stato ritualmente notificato in stato di libertà il decreto di citazione a giudizio, non seguito dall’ordine di traduzione in udienza, è causa di legittimo impedimento preclusivo della dichiarazione di contumacia, quando lo stato di detenzione sia stato portato a conoscenza del giudice prima della sentenza (Sezione quinta, 12075/80; Sezione prima, 312/81; 3634/83; 10810/84). S’è chiarito che non può ritenersi sussistente a carico dell’imputato, regolarmente citato a comparire in stato di libertà, l’onere di richiedere la sua traduzione in udienza qualora, successivamente alla notifica del decreto di citazione a giudizio ma prima dell’udienza fissata per il dibattimento, venga posto in stato di detenzione per altra causa, sicché in tale ipotesi il giudice non può legittimamente dichiararne la contumacia, deve disporne la traduzione in udienza (Sezione prima, 6994/85; 13074/87, Sezione quinta, 2622/79).Tale orientamento è stato ribadito sotto il vigore della vigente disciplina codicistica (Sezione seconda, 6490/03; 41252/02; Sezione prima, 13593/01; Sezione sesta, 5776/00; 9446/99; Sezione prima, 738/1998; 5989/97; 11193/94; Sezione sesta, 10413/93; Sezione prima, 9721/92; Sezione quarta, 5834/91; 13715/90). Si è, in tale contesto, affermato che “solo la mancata conoscenza dello stato dì detenzione dell’imputato, con la conseguente impossibilità di disporne la traduzione, può legittimare un giudizio contumaciale”, “né (l’imputato), avendolo fatto il suo difensore, ha l’onere di comunicare tempestivamente il suo stato onde consentire una tempestiva sua traduzione all’udienza fissata, in quanto ciò non è previsto da alcuna norma” (Sezione sesta, 5989/97). S’è specificato che l’articolo 486.5 Cpp “conferisce rilievo al legittimo impedimento del difensore solo se tempestivamente comunicato, mentre nessun onere di preventiva e sollecita comunicazione è imposto all’imputato dalle disposizioni dei commi 1 e 3 dello stesso articolo, le quali subordinano la rilevanza dell’assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento alla sola condizione che questo risulti obiettivamente accertato”; e s’è soggiunto che “alla valenza interpretativa di tale argumentum a contrario si aggiunge il chiaro disposto dell’articolo 587 (rectius: 487), IV comma, Cpp, secondo cui l’ordinanza dichiarativa della contumacia è nulla se al momento della pronuncia vi è la prova che l’assenza dell’imputato è dovuta... ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore od altro legittimo impedimento, dal che deve trarsi che la nullità della dichiarazione di contumacia è determinata dalla coevaesistenza della prova, comunque acquisita, dell’impedimento dell’imputato, ancorché non da costui tempestivamente comunicato”, e la omessa comunicazione da parte dell’imputato all’autorità giudiziaria del suo sopravvenuto stato detentivo costituendo una “facoltà, ma non... obbligo od onere di fare” (Sezione prima, 738/97, cit.).6. Alla proposta questione, come sopra riassunta, queste Su ritengono di dover dare risposta affermativa, per le ragioni normative e sistematiche di seguito indicate.7. Giova, invero, premettere, sotto un profilo dì ordine generale, che la contumacia (dal più verosimile etimo contemnere: “non tenere in conto, non curarsi, disprezzare»), ora disciplinata dall’articolo 420quater Cpp,connota una situazione processuale caratterizzata dalla condotta dell’imputato che, sebbene regolarmente citato in giudizio, non vi compaia, senza giustificare un legittimo impedimento. Gli elementi costitutivi di tale situazione processuale sono stati tradizionalmente individuati in: a) un fatto giuridico positivo, la sussistenza di una regolare vocatio in iudicium; b) un atto giuridico negativo, la mancata comparizione; c) un atto giuridico negativo (la mancata prova), che si ricollega ad un fatto negativo (mancanzadell’impedimento).Vieppiù nell’ottica di un processo a carattere accusatorio, la partecipazione dell’imputato al “suo” processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione; essa afferisce al fondamentale diritto di difesa (autodifesa) e non è perciò confiscabile, nulla, peraltro, ostando a che, come altri diritti, anche questo possa essere semmai oggetto di rinuncia da parte del titolare dello stesso, in presenza di non equivoca manifestazione di volontà abdicativa in tal senso. Il processo contumaciale si caratterizza, quindi, come situazione eccezionalmente derogatoria alla regola generale, che in tanto può legittimamente determinarsi in quanto il giudice accerti la sussistenza di quegli elementi costitutivi suindicati. Ne consegue, tra l’altro, che le relative norme sono di stretta interpretazione e non possono diversamente trovare analogica applicazione in situazioni non normativamente prefigurate.7.1 La dottrina ha da tempo posto in rilievo le connotazioni innovative dell’istituto rispetto alla sua disciplina originaria dettata nel previgente codice di rito (emblematicamente evocando, tra l’altro, il disposto degli articoli 497.3, 498.3 Cpp del 1930) e ricordato come anche la legge 22/1989 (di poco posteriore alla promulgazione del nuovo codice, avvenuta con Dpr 447/88, Gu 24 ottobre 1988, suppl. ord.), contenesse rilevanti novità in riferimento alla regolamentazione dell’istituto, le cui origini devono ritenersi collegate anche ai vincolanti contenuti di accordi pattizi internazionali, che, per vero, assumono rilevanza decisiva nella questione che occupa, come di seguito si chiarirà.L’articolo 111 Costituzione, come novellato dall’articolo 1 legge costituzionale 2/1999, ha ora costituzionalizzato il principio del “giusto processo”, tra l’altro statuendo che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti” e la legge assicura che la persona accusata “abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”. È del tuttoevidente che l’esercizio di tali facoltà postula la piena espansione del diritto di autodifesa, che solo la presenza della parte nel processo è in grado di assicurare; diritto che può essere oggetto di volontaria rinuncia, mediante un prestato assenso al giudizio in absentia, giammai di atti confiscatori in mancanza di quest’ultimo.L’articolo 175.2 Cpp, in tema di restituzione nel termine, come novellato dalla legge 60/2005, di conversione del Dl 17/2005, reca ora che, “se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione”. Ed ancora, quindi, ciò che rileva, ai fini di tale istituto, è la circostanza che l’imputato, pur avendo avuto effettiva conoscenza del procedimento, abbia o meno “volontariamente rinunciato a comparire”.Il giudizio in absentia, dunque, per poter esplicare appieno i suoi effetti processuali, impone che venga preservato il diritto dell’imputato ad essere presente in udienza, salvo un suo espresso o non equivoco atto di rinuncia in tal senso.8. Ma è anche sul versante delle norme pattizie internazionali che il principio trova indefettibile affermazione.La legge delega 81/1987 (replicando quanto già contenuto nell’articolo 2 della legge delega 108/74), stabiliva, all’articolo 2, che il Cpp deve... adeguarsi alle norme all’articolo 2, che “il Cpp deve... adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale ......”.Le Su civili di questa Sc, nel prendere in esame l’efficacia nell’ordinamento interno delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, hanno riconosciuto la natura immediatamente precettiva e la posizione sovraordinata delle norme convenzionali, così sancendo anche l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna che sia in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (cfr. Cassazione, Su, 28508/05, e la giurisprudenza ivi richiamata). Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte sottolineato che, con lo strumento convenzionale, le parti non si sono limitate ad assumere reciprocamente una serie di obblighi, ma hanno istituito un sistema di garanzia collettiva di alcuni diritti e libertà fondamentali (CEDU, 7 luglio 1989, Socring c. Regno Unito, 87; id., 25 marzo 1995, Loizidou c. Turchia, 70), costituito da norme che hanno “vocazione” a spiegare i propri effetti negli ordinamenti interni dei singoli Stati e ? come si annota in dottrina ? “raggiungono direttamente gli individui..., divenendo effettive ed operanti nel momento della loro formazione”, quindi “senza l’intervento dei sistemi giuridici interni”.È vero che, nonostante l’autorevole decisione delle Su, sul potere del giudice di disapplicare le norme interne in conflitto con quelle della Convenzione, la giurisprudenza continua ad essere contrastante (v. Cassazione civ., 12810/06, 11887/06), e però nel caso in esame l’articolo 6.3 della Convenzione europea viene in rilievo non per disapplicare la legge interna, ma solo per interpretarla e a questo scopo non è dubbio che la norma convenzionale costituisca un riferimento decisivo.8.1 L’articolo 6.3, lettera e), d) ed e), della testé citata Convenzione prescrive, tra l’altro, che “ogni accusato ha più specialmente diritto... a e) difendersi da sé o avere l’assistenza di un difensore di propria scelta...”; d) “interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”; e) “farsi assistere gmtuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata in udienza”.Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo con legge 881/77, ed entrato in vigore per l’Italia il 15 dicembre 1978) reca, nel suo articolo 14.3, lettera d), e) ed f) che “ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza.. d) ad essere presente al processo ed a difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta...”; “ e) a interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ad ottenere la citazione e l’interrogatorio dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”; “f) a farsi assistere gratuitamente da un interprete, nel caso in cui egli non comprenda o non parli la lingua usata in udienza”.Possono, in tale contesto, ricordarsi anche le nove “regole minime” raccomandate ai governi dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la Risoluzione n. 11 del 21 maggio 1975, che prescrivono garanzie per l’imputato assente nel processo, “salvo che si sia accertato che egli si è sottratto volontariamente alla giustizia”.8.2 Nel delibare il contenuto e la portata dell’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il Giudice di Strasburgo ha avuto modo di rilevare (sentenzaanche sentenza 12 febbraio 1985, Colozza e. Italia, Serie A, n. 89; n. 67972/01, Sornogyi; 10.11.2004, 56581/00, Seydovic; in tale contesto può ricordarsi anche il parere 27.7.1999 del Comitato dei diritti ‘umani dell’Onu, Malaki ) che 1a facoltà per l’accusato di prendere parte all’udienza discende dall’oggetto e dalla ratio dell’insieme dell’articolo. Del resto, gli alinea e), d) ed e) del paragrafo 3 riconoscono ad ‘ogni persona accusata’ il diritto dì ‘difendersi personalmente’, ‘esaminare o far esaminare i testimoni’ e ‘farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza’, cose che non si concepiscono senza la sua presenza”. Ha, quindi, rilevato che “né la lettera né la ratio dell’articolo 6 della Convenzione impediscono ad una persona di rinunciare volontariamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita, ma tale rinuncia deve essere non equivoca e non deve porsi in conflitto con alcun interesse pubblico significativo”, e nel caso preso in esame ha considerato: “anche a supporre che il ricorrente fosse indirettamente al corrente dell’apertura di un processo penale a suo carico, non è possibile concludere che egli ha rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto a comparire all’udienza”.8.3 Dall’esame delle norme interne e pattizie testé richiamate, anche alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza interna ed europea, si deve, dunque, inferire che il sistema, in sostanza, è improntato al principio ?che va qui affermato ai sensi dell’articolo 173 disp, att. Cpp ? che:a) la conoscenza di un legittimo impedimento preclude la dichiarazione di contumacia, e solo ove l’imputato impedito esplicitamente consenta che l’udienza avvenga in sua assenza, o, se detenuto, rifiuti di assistervi, trova applicazione l’istituto dell’assenza, ai sensi dell’articolo 420quinquies Cpp;b) costituisce legittimo impedimento la detenzione dell’imputato per altra causa anche nel caso in cui questi avrebbe potuto comunicare al giudice la sua condizione in tempo utile per consentirne la traduzione.E dunque, la accertata presenza di un legittimo impedimento, del quale il giudice sia comunque cognito, in mancanza di qualsivoglia dichiarazione di rinuncia, non sortisce, evidentemente, alcun effetto abdicativa, ed in mancanza di un atto di tal genere la dichiarazione di contumacia è illegittimamente resa.8.4 Posto, quindi, che, ove il giudice accerti la sussistenza di un legittimo impedimento dell’imputato a comparire, e la mancanza di una sua dichiarazione di volontà che il processo si svolga in sua assenza, tanto dà di per sé contezza della mancanza di un atto di rinuncia dell’imputato medesimo al suo diritto di autodifesa, che preclude la dichiarazione di contumacia ai sensi dell’articolo 420quater Cpp, in tale contesto non è ravvisabile, né proponibile, alcun onere (normativamente non previsto affatto) di previa comunicazione da parte dell’imputato del suo legittimo impedimento’ ciò che decisivamente rileva, infatti, è solo che questo sussista come tale conosciuto dal giudice e che manchi una manifestazione di’volontà abdicativa di quel diritto da parte del suo titolare, dovendo a quel punto il giudice prendere atto della insussistenza delle condizioni legittimanti una dichiarazione di contumacia. D’altronde, espressamente reca il quarto comma del precitato articolo 420quater Cpp che l’ordinanza dichiarativa di contumacia è nulla “se al momento della pronuncia” (quali che, quindi, siano le pregresse evenienze) risulti l’impossibilità dell’imputato di comparire per caso fortuito, forza maggiore od altro legittimo impedimento. Un onere di “prontamente” comunicare il proprio impedimento è imposto solo al difensore (articolo 420ter 5 Cpp), ma è di tutta evidenza come la norma riguardi tutt’altra materia, quella della difesa tecnica nel processo (che può comunque essere assicurata con la nomina di un difensore di ufficio), non quella della autodifesa, indelegabile e non confiscabile,9. Nel caso di specie, il giudice del merito era stato reso edotto del legittimo impedimento dell’imputato a comparire e della mancanza di una dichiarazione di volontà di procedersi in sua assenza; ed a quel punto, a quel momento, avrebbe dovuto ritenere la insussistenza di condizioni legittimatrici della dichiarazione di contumacia, perciò illegittimamente resa.Il giudice dell’appello, a sua volta, avrebbe dovuto rilevare quella nullità, verificatasi nel giudizio di primo grado e, dichiaratala con sentenza, rinviare gli atti al giudice che procedeva quando si era verificata quella nullità, ai sensi dell’articolo 604.4 Cpp.10. Deve, quindi, disporsi l’annullamento della sentenza impugnata e di quella di primo grado, resa il 19 gennaio 1996 dal Tribunale di Vicenza, con rinvio a quest’ultimo per nuovo giudizio.

PQM

La Corte annulla la sentenza impugnata e quella del Tribunale di Vicenza in data 19 gennaio 1996, con rinvio al Tribunale di Vicenza per nuovo giudizio.

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