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ALTALEX NEWS


giovedì 14 febbraio 2013

LA TIRANNIDE DELL'ECONOMIA POLITICA. L’analisi di Dani Rodrik

LA TIRANNIDE DELL'ECONOMIA POLITICA. L’analisi di Dani Rodrik, Professore di Economia Politica Internazionale presso l'Università di Harvard

13 Febbraio 2013 - Autore: Redazione (estratto da http://www.finanzaediritto.it/articoli/la-tirannide-dell%E2%80%99economia-politica-l%E2%80%99analisi-di-dani-rodrik-professore-di-economia-politica-internazionale-presso-l%E2%80%99universit%C3%A0-di-harvard-12056.html)


CAMBRIDGE – C'è stato un tempo in cui gli economisti si tenevano alla larga dalla politica, poiché pensavano che il proprio lavoro consistesse nel descrivere il funzionamento, così come il malfunzionamento, delle economie di mercato, e nel sottolineare come delle buone politiche potessero aumentare l'efficienza. Analizzavano le forme di compromesso tra obiettivi concorrenti (ad esempio, equità contro efficienza), e prescrivevamo ricette politiche volte all'ottenimento dei risultati economici auspicati, come la ridistribuzione. Compito dei politici era seguire (o meno) il loro consiglio, e dei burocrati metterlo in atto.
A un certo punto, però, alcuni di loro sono diventati più ambiziosi. Frustrati dal fatto che, nella maggior parte dei casi, il consiglio dato restava inascoltato (sono così tante le soluzioni per il libero mercato ancora in attesa di essere considerate!), hanno tarato i propri strumenti di analisi sul comportamento degli stessi politici e burocrati, e cominciato a esaminarlo in base allo stesso sistema concettuale utilizzato per le decisioni riguardanti consumatori e produttori nell’ambito di un'economia di mercato. I politici sono, così, diventati dei fornitori di favori politici tesi alla massimizzazione del profitto, i cittadini dei gruppi d'interesse a caccia di rendite, e i sistemi politici una sorta di mercati in cui si barattano sostegno politico e voti con vantaggi economici.
Questa è stata la genesi dell'economia politica basata sulla scelta razionale e di uno stile improntato alla teorizzazione, che molti scienziati della politica si sono affrettati a emulare. L'apparente tornaconto era che ora si riusciva a spiegare il motivo per cui i politici hanno così spesso agito contro la razionalità economica. In realtà, non vi era alcun malfunzionamento economico che l'espressione "interessi di parte" non fosse in grado di spiegare.
Perché così tante industrie appaiono blindate nei confronti della concorrenza reale? Perché nelle tasche di chi miete profitti vi sono i politici. Perché i governi innalzano barriere al commercio internazionale? Poiché i beneficiari della protezione commerciale sono raggruppati e politicamente influenti, mentre i consumatori sono sparsi e disorganizzati. Perché le élite politiche bloccano riforme in grado di stimolare la crescita e lo sviluppo economico? Poiché crescita e sviluppo indebolirebbero la loro presa sul potere politico. Infine, perché esistono le crisi finanziarie? Poiché le banche assumono il controllo del processo di definizione delle politiche in modo da potersi assumere rischi maggiori a spese dei cittadini.
Per cambiare il mondo, bisogna capirlo, e questa modalità di analisi sembrava offrire agli economisti l’accesso a una migliore comprensione dei risultati economici e politici.
Ma in tutto questo si annidava un paradosso profondo. Più loro sostenevano di fornire spiegazioni, meno margine di miglioramento c’era. Se il comportamento dei politici è determinato dagli interessi acquisiti verso cui sono debitori, la difesa delle riforme politiche da parte degli economisti è destinata a cadere nel vuoto. Più è completa la scienza sociale degli economisti, più diventa irrilevante la loro analisi politica.
Qui è dove l'analogia tra scienze umane e scienze naturali s'interrompe. Consideriamo il rapporto tra scienza e ingegneria. Man mano che la comprensione delle leggi fisiche da parte degli scienziati si fa più sofisticata, gli ingegneri sono in grado di costruire ponti ed edifici sempre più solidi. I progressi nell'ambito della scienza naturale rafforzano, anziché ostacolare, la nostra capacità di plasmare l'ambiente fisico circostante.
Il rapporto tra economia politica e analisi politica non è affatto così. Rendendo endogeno il comportamento dei politici, l'economia politica indebolisce gli analisti politici. È come se dei fisici avanzassero teorie che non solo spiegano i fenomeni naturali, ma stabiliscono anche che tipo di ponti e di edifici gli ingegneri debbano costruire. Se così fosse, le facoltà d’ingegneria diventerebbero pressoché superflue.
Se sentite che in questa situazione c'è qualcosa che non va, allora siete sulla buona strada. In realtà, gli attuali quadri di riferimento della politica economica sono zeppi di congetture inespresse sul sistema d’idee alla base del funzionamento dei sistemi politici. Dando voce a queste congetture, verrebbe meno il ruolo decisivo degli interessi di parte. E l'elaborazione delle politiche, la leadership politica e l'agenticità umana riprenderebbero vita.
Sono tre i modi in cui le idee influenzano gli interessi. In primo luogo, le idee determinano il modo in cui le élite politiche definiscono se stesse e i propri obiettivi: il denaro, l'onore, lo status, la longevità al potere, o semplicemente un posto nella storia. Queste domande d’identità sono fondamentali nel determinare la modalità secondo cui scelgono di agire.
In secondo luogo, le idee determinano la visione del mondo da parte degli attori della politica. Potenti interessi economici spingeranno per politiche diverse nel momento in cui credono che lo stimolo fiscale produca solo inflazione, anziché generare una domanda aggregata più elevata. D'altro canto, governi affamati di entrate imporranno tasse più basse se pensano che vi sia un rischio di evasione rispetto a quando pensano il contrario.
Ma ancora più importante dal punto di vista dell'analisi politica è che le idee determinano le strategie che gli attori della politica credono di poter perseguire. Ad esempio, un modo per le élite di restare al potere è sopprimere qualunque attività economica. Un’alternativa, però, consiste nel sostenere lo sviluppo economico diversificando la propria base economica, creare coalizioni, favorire un'industrializzazione a controllo statale, o perseguire una gamma di altre strategie limitata solo dall'immaginazione delle élite. Ampliando la gamma di strategie realizzabili (che è ciò che una buona programmazione politica e una buona leadership fanno), comportamenti e risultati subiscono una radicale trasformazione.  
In effetti, questo spiega alcune delle performance economiche più sorprendenti degli ultimi decenni, come la rapida crescita della Corea del Sud e della Cina (rispettivamente negli anni '60 e verso la fine degli anni '70). In entrambi i casi, i maggiori vincitori sono stati gli "interessi acquisiti" (l'establishment industriale coreano e il Partito comunista cinese). Ciò che, in questi casi, ha reso possibili le riforme non è stata una nuova configurazione del potere politico, ma l'emergere di nuove strategie. Il cambiamento economico spesso ha luogo non quando gli interessi acquisiti sono sconfitti, ma quando si ricorre a strategie alternative per perseguirli.
L'economia politica resta senza dubbio un ambito importante. Senza una chiara comprensione di chi guadagna e chi perde dallo status quo, è difficile dare un senso alle nostre politiche attuali. Tuttavia, un’eccessiva concentrazione sugli interessi acquisiti può facilmente distoglierci dal contributo critico che l'analisi e l'imprenditoria politica possono offrire. Le possibilità di cambiamento economico sono limitate non solo dalla realtà del potere politico, ma anche dalla povertà delle nostre idee.
 
 
Traduzione di Federica Frasca

martedì 12 febbraio 2013

Diagnosi preimpianto va consentita anche a coppie fertili. Cedu boccia Legge 40

Diagnosi preimpianto va consentita anche a coppie fertili. Cedu boccia Legge 40
Corte Europea Diritti dell'Uomo , sezione grande, decisione 11.02.2013 (Gianni Baldini)
La Grande Chambre EDU conferma la sua precedente decisione sulla Legge 40/04. Questa volta la pronuncia è inappellabile incidendo in maniera definitiva su un altro aspetto essenziale della legge (che finora era stato affrontato solo con una isolata ordinanza dal Tribunale dei Salerno nel 2010): la questione dei requisiti per l'accesso alla PMA. Infatti se dopo le numerose ordinanze dei tribunali di merito (trib. Cagliari e trib. Firenze 2007 e TAR Lazio 2008) e infine della Corte costituzionale 2009, non vi sono più, almeno in punto di diritto, dubbi sulla legittimità della diagnosi genetica per impianto (PGD per le coppie sterili/infertili), la questione rimaneva ancora controversa per le coppie che sterili non sono posto che, all'art. 5 la L. 40/04 statuisce come inderogabile la presenza di uno stato di sterilità/infertilità come condizione che la coppia deve avere per l'accesso alla tecnica.
Accogliendo le ragioni dei Sig.ri Pavan e delle Associazioni di pazienti, secondo i Giudici europei tale limite viola il "il diritto al rispetto della vita privata e familiare" (art. 8Convenzione) in quanto incide su una scelta personalissima dell'individuo che lo Stato non si può arrogare il diritto di compiere. La censura della Corte che ricordiamo rilevava la violazione del principio di uguaglianza (art. 14 CEDU "divieto di discriminazione") posto che un'altra legge, la 194/78 sull'interruzione di gravidanza, consente l'aborto terapeutico (in caso di patologie del feto, tra cui la stessa fibrosi cistica, accertate mediante diagnosi prenatali quali amniocentesi/villocentesi) determinandosi un'ingiustificata discriminazione tra queste coppie e quelle cui precludendosi la possibilità di PGD viene di fatto impedito di operare preventivamente e con minori danni (alla salute della madre e del concepito in dipendenza del suo stadio di sviluppo) una scelta che comunque con oneri morali e materiali ben maggiori la coppia è legittimata a compiere successivamente.
Non c’è chi non veda in tutto ciò un evidente violazione di elementari principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Altro elemento da sottolineare è che si tratta della prima volta in assoluto che la Legge 40/04 viene espressamente censurata per contrasto con la legge 194/78 che ricordiamo essere norma ordinaria ma a "contenuto costituzionalmente necessario oltre che vincolato".
Con il rigetto del ricorso presentato dal governo italiano, si apre sul fronte interno un nuovo capitolo di scontro che, è facile prevedere, analogamente a quanto avvenuto con riguardo alla PMA eterologa, approderà ben presto anche nelle nostre aule di tribunale che verosimilmente investiranno del problema ancora una volta la Corte Costituzionalechiamata a pronunciarsi sulla conformità agli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. del divieto di accesso alle tecniche per i soggetti fertili ma affetti da patologia genetica trasmissibile alla prole, cui la Legge 40/04, allo stato, in maniera del tutto irragionevole, lascia solo la 'crudele' scelta di concepire un figlio malato salvo poi la possibilità di optare per l'aborto terapeutico.
Ma vi anche un ‘altra possibilità che si presenta ai giudici: dato il valore sub costituzionali delle pronuncie della Corte EDU e la loro efficacia diretta sugli ordinamenti interni, i tribunali nazionali potrebbero, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, applicare direttamente la sentenza.
Non da oggi avevamo sostenuto con forza tale argomento nei vari ricorsi presentati a partire dal 2005. Solo oggi però con tutta la sua autorevolezza la CEDU riprende la questione e la pone al centro del proprio ragionamento di censura della Legge 40/04 con ogni effetto conseguenziale su altre questioni che rimangono aperte: eterologa, divieto assoluto di sperimentazione sull'embrione, irrevocabilità del consenso, tutte questioni pendenti alla Corte Costituzionale dopo l’ordinanza del tribunale di Firenze del 7 dicembre scorso).
(Altalex, 12 febbraio 2013. Nota di Gianni Baldini)


Procreazione: Tribunale Firenze rinvia di nuovo Legge 40 a Consulta
Tribunale Firenze, ordinanza 07.12.2012
(ASCA) - Firenze, 12 dic - Il Tribunale di Firenze ha rinviato la Legge 40/04 sulla procreazione assistita alla Consulta. Lo comunica l'avvocato Gianni Baldini, legale di una coppia fiorentina, spiegando che la questione di costituzionalita' sollevata riguarda l'articolo 13, sul divieto di ricerca scientifica sull'embrione (sovrannumerario, malato o abbandonato) finalizzata alla tutela della salute individuale e collettiva e l'articolo 6 sulla irrevocabilita' del consenso del paziente dopo la fecondazione dell'ovocita.
La coppia, aveva, in particolare, manifestato l'intenzione di non procedere al trattamento di Pma dopo aver appreso che solo un embrione risultava sano e di ''media qualita''' e avevano chiesto di poter donare a fini scientifici gli embrioni non utilizzati. Secondo il legale, il Tribunale di Firenze ritiene fondata la questione di legittimita' costituzionale ''perche' il bilanciamento operato tra valori e diritti costituzionalmente rilevanti risulta irrazionale, illogico, irragionevole''.
In particolare ''riguardo al necessario consenso informato del soggetto: e' irrazionale, illogico e irragionevole non consentire, al pari di qualsiasi altro trattamento sanitario che non sia un TSO ovvero che si collochi in una situazione di urgenza per la vita o la salute del paziente, prevedere l'irrevocabilita' del consenso circa l'avvio e la prosecuzione dello stesso''.
Per quanto riguarda la ricerca, afferma l'avvocato Baldini, ''se rientra nella discrezionalita' legislativa prevedere la prevalenza del diritto alla vita e allo sviluppo dell'embrione rispetto alla ricerca e alla salute individuale e collettiva nell'ipotesi di creazione di embrioni da destinare esclusivamente alla ricerca, in maniera del tutto diversa si pone la questione ove gli embrioni da utilizzare per la ricerca finalizzata alla tutela della salute siano quelli crioconservati e residuati a trattamenti di PMA, malati, abbandonati e destinati all'autodistruzione certa per estinzione nel volgere di qualche anno''.

SCHEDA PROVVEDIMENTO E SINTESI DELLA VICENDA
a cura di Gianni Baldini
Tribunale di Firenze
Ord. ex art. 700 c.p.c. 7-12 dic. 2012
(Giudice: Dr.ssa Patrizia Pompei)
Ricorrenti: XXXXX XXXXX con Avv. XXXX XXXXX
***
IN FATTO
Dopo aver ottenuto (a seguito del ricorso in via incidentale presentato al Tribunale di Firenze nel luglio 2008 che aveva portato il Giudice a sollevare la q.l.c. dell’art. 14 della l. 40/04), la declaratoria di incostituzionalità degi commi 2 e 3 dell’art. 14 della l. 40/04 da parte della Consulta, risultati senza esito positivi i tentativi di PMA i Sig.ri XXXXXXXXXXXXXX si rivolgevano nuovamente al centro XXXXX srl di Firenze al fine di procedere al Trattamento di PMA con preventiva diagnosi genetica di pre-impianto nel gennaio 2009. In ossequio a quanto previsto dalla legge venivano prodotti solo 3 embrioni che sottoposti all’esame di PGD risultavano tutti affetti dalla patologia genetica dell’esostosi inducendo la Sig.ra XXXX a non procedere al trasferimento nel proprio utero. Nell’ottobre 2009 la Sig.ra XXXXXX si rivolgeva nuovamente al centro XXXXX Srl per un nuovo ciclo di PMA. A tal scopo venivano prodotti n. 10 embrioni. Dall’esame genetico di pre impianto emergeva come su 4 embrioni non era stato possibile eseguire l’esame del DNA per cause tecniche, 5 risultavano affetti dalla patologia dell’esostosi e 1 soltanto risultava sano (cfr. cartella clinica Centro XXXXX). I Sig.ri XXXXX e XXXXX dato il numero ridotto di embrioni certamente non affetti dalla patologia (n. 1) da trasferire e considerato che si trattava di materiale di media qualità, comunicavano al centro la loro intenzione di non procedere al trattamento di PMA. Il Centro XXXXX in forza del disposto di cui all’art. 6 comma III u.p. rispondeva evidenziando l’impossibilità di dar corso a tale richiesta atteso che “La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell'ovulo”. In un colloquio con gli odierni ricorrenti fu rappresentato dai responsabili del Centro Medico che la violazione di tale previsione anche se priva di specifica sanzione avrebbe potuto dar luogo, a non meglio precisati provvedimenti coercitivi nei confronti della donna, da parte dell’autorità giudiziaria. La Sig.ra XXXXX si determinava di effettuare il trattamento di PMA utilizzando 1 solo embrione. Degli altri 9 (di cui 4 non biopsabili e 4 malati) veniva giocoforza, a cura del centro, disposta la crioconservazione. Il tentativo risultava infruttuoso. La Sig.ra XXXXX assumeva informazioni circa la possibilità di destinare gli i embrioni soprannumerari risultati affetti dalla patologia ad attività mediche diagnostiche e di ricerca scientifica connesse alla propria patologia genetica. Veniva rappresentato anche in questo caso che in forza del disposto di cui all’art. 13 della L. 40/04 ciò risultava assolutamente vietato.
Anche in considerazione del fatto che la Sig.ra XXXXX ha intenzione di ripetere il trattamento di PMA entro il prossimo mese di ottobre presso l’odierno convenuto, vista la pregressa esperienza intende riservarsi all’esito della indagine genetica di pre-impianto e alla qualità degli embrioni prodotti di decidere se sottoporsi o meno al successivo trasferimento nel proprio utero del materiale genetico prodotto ovvero di destinare a fini di ricerca il medesimo, o ancora di procedere alla sua crioconservazione. Risulta del tutto evidente oltre alla pertinenza e rilevanza anche l’attualità del diritto azionato nel giudizio de quo atteso che 4 degli 8 embrioni crioconservati, di cui non è stato possibile conoscere lo stato di salute non sono stati trasferiti per l’opposizione della Sig.ra XXXXX a procedere in tal senso.

****


IN DIRITTO

A) Divieto assoluto di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale sull’embrione che non risulti finalizzata alla tutela dello stesso (artt. 13 c.1,2,3,4, Legge 40/04)
VS
Artt 9,32,33 1°comma Cost.


LE PREVISIONI DI LEGGE
Le disposizioni di cui agli artt. 13 della legge 40/04 prevedono una intangibilità assoluta dell’embrione umano priva di deroghe o eccezioni di qualsiasi natura. Nessun rilievo viene attribuito alla specifica condizione in cui il materiale genetico si trova (ad esempio embrioni soprannumerari o residuati al trattamento di PMA; materiale genetico prodotto e crioconservato presso la banca del seme prima dell’approvazione della legge; etc) né tantomeno alla circostanza che l’intervento sia finalizzato al perseguimento di altri interessi costituzionalmente rilevanti riconducibili ai soggetti coinvolti nella vicenda: salute, libertà procreativa come aspetto del più ampio concetto di libertà personale, autodeterminazione e consenso informato, libertà di ricerca scientifica, etc.
L’attività di ricerca e sperimentazione sull’embrione è consentita solo “…per finalità terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso”. La disposizione non sembra ammettere nessun compromesso, non consente nessuna sintesi fra le diverse esigenze espresse dagli interessi coinvolti. Così, come risulta dal dettato letterale della norma, qualsiasi intervento sul materiale genetico anche nelle ipotesi in cui ciò si renda necessario per tutelare la salute della donna o il diritto di essere adeguatamente informata suo e della coppia al fine di determinarsi in piena consapevolezza e responsabilità rispetto all’opzione procreativa, risulta precluso.

IL RAGIONAMENTO ACCOLTO DAL GIUDICE
Sul punto il giudice ha fatto proprio il ragionamento dei ricorrenti. Per il giudicante un conto è stabilire il divieto di ogni forma di selezione a scopo eugenetico di gameti ed embrioni ovvero di produrre embrioni esclusivamente finalizzati alla ricerca e alla sperimentazione o ancora ad essere utilizzati in trattamenti finalizzati alla predeterminazione di caratteristiche genetiche o alla clonazione, altra è impedire sempre e comunque (fuori dai casi di pregiudizio per la salute della donna), la crioconservazione del materiale prodotto, la selezione fra embrioni portatori della specifica patologia e non finalizzati al trasferimento nell’utero della donna, la riduzione embrionaria di gravidanze plurime, la possibilità per la gestante, acquisite le informazioni inerenti lo stato di salute dell’embrione, di rifiutare il trasferimento ovvero di revocare il consenso all’attuazione dello stesso, a maggior ragione quando questo risultasse affetto dalla specifica grave patologia che l’intervento era chiamato a scongiurare ovvero determinasse seri rischi per la salute della stessa gestante. Per non parlare del divieto assoluto anche per i generanti, di destinare gli embrioni residuati e/o soprannumerari alla ricerca medica anziché condannarli all’autodistruzione per estinzione.
Analogamente può affermarsi con riguardo al divieto assoluto previsto a carico di ricercatori e scienziati di condurre sugli embrioni anche se soprannumerari, abbandonati o comunque inidonei ad essere utilizzati per un ulteriore trasferimento e quindi avviati naturalmente all’autodistruzione, ricerche cliniche finalizzate all’avanzamento medico nella cura di rilevanti patologie. L’equiparazione affermata al comma 3, lett. b) fra embrione e gamete pare poi del tutto irragionevole rendendo sostanzialmente impossibile tout court la ricerca medica su materiale genetico umano totipotente. La completa negazione delle esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica proprio in quei settori quali la terapia genica e l’impiego delle cellule staminali embrionali, che a torto o a ragione la comunità medico scientifica ritiene fra i più promettenti per la cura di numerose e gravi patologie, costituisce un ulteriore e importante limite della disposizione in esame. Nessuna mediazione pare dunque prospettabile fra esigenze di tutela dell’embrione e libertà, pur entro precisi e rigorosi limiti, della ricerca scientifica in ambito biomedico anche se espressamente finalizzata alla tutela della salute collettiva.
Se a ciò si aggiungono le difficoltà e le incertezze sul piano interpretativo derivanti dalla mancata definizione dell’oggetto di tutela, l’embrione, e dall’uso di termini qualificatori erroneamente impiegati come sinonimi in difetto di equivalenza di significato (ovulo fecondato, nascituro, feto, concepito) il quadro risulta sicuramente bisognoso di una chiarificazione.
Secondo il Giudice per le ragioni sopra evidenziate non manifestatamene infondata risulta la questione di legittimità costituzionale degli artt.13 c.1,2,3, l. 40/04 per contrasto con gli artt. 9-32-33, 1 comma, Cost.

B) Divieto assoluto di revoca del consenso alla PMA dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo ex art. 6, comma 3, L. 40/04.
VS
Art. 2, 13, 32 1 e 2 ° c, Cost.

LE PREVISIONi DELLA LEGGE 40/04 E IL TSO
Secondo il Giudice la previsione della impossibilità di revoca della volontà da parte della paziente, configura una ipotesi che pur se priva in fatto e diritto dei presupposti tipici della figura –tutela della salute dello stesso paziente ovvero della salute collettiva- nonchè dell’indicazione dei mezzi di coercizione utilizzabili in caso di rifiuto, risulta assimilabile al TSO o trattamento sanitario obbligatorio
Anche se la disposizione risulta sicuramente ridotta nella sua portata per effetto della sentenza della Corte cost. 151/09 che nel pronunciare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 c.3 ha stabilito come in tutti i casi “il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”, rimane fermo il principio che in tutti gli altri casi il consenso non possa essere revocato.
In altri termini la scelta del legislatore di tutelare i diritti dell’embrione allo sviluppo e alla nascita, è ritenuta in tutti i casi prevalente rispetto alla volontà della madre di non procedere all’impianto. Si tratterebbe di una fattispecie che pur in assenza dei presupposti legittimanti il TSO, realizzerebbe una vistosa deroga ai principi di libertà e non vincolatività/obbligatorietà cui sono sottoposte tutte le disposizioni inerenti il potere del soggetto in ordine al compimento di atti anche solo potenzialmente lesivi alla propria integrità psico-fisica che ,come noto, a prescindere da qualsiasi valutazione sulle ragioni subiettive o motivazioni personali , consentono di principio, sempre e comunque, senza necessità di fornire alcuna giustificazione, al medesimo di mutare la propria volontà, revocando il consenso precedentemente prestato al medico rispetto al trattamento sanitario. Ciò vale, come ricordato, per gli atti inerenti l’integrità psico-fisica satisfattivi, latu sensu, di interessi propri (intervento medico finalizzato alla tutela della salute del paziente) che di interessi altrui (ad esempio espianto di organi in favore di terzi).
Alla luce di quanto sopra non si comprende la ragione in forza della quale ciò debba essere negato nel caso di specie, configurandosi il trattamento di PMA come intervento medico finalizzato alla soluzione di uno stato patologico proprio (sterilità/infertilità).

LE DEROGHE INTRODOTTE DALLA SENT CORTE COST 151/09 E LA RILEVANZAAUTONOMA DEL CONSENSO DI CUI ALL’ART. 6 L. 40/04
Se è pur vero che “è stata introdotta una vistosa deroga al principio generale del divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art. 14, demandando al medico la scelta dal carattere strettamente tecnico/scientifico, di non procedere all’impianto per salvaguardare la salute della donna”, altrettanto vero è che si tratta di una scelta demandata al medico (e non al diretto interessato) che deciderà sul presupposto del pericolo per la salute della donna (escludendosi peraltro l’operare di altre possibili ragioni).
Dunque, rispetto ai principi fondamentali in materia di consenso informato quale condizione di legittimità nel/del trattamento sanitario (cfr. ex multis: a livello normativo: art. 3 Carta dei Diritti fondamentali dell’UE; art. 32 , 2 comma Cost.; art. 5 Conv. Oviedo; oltre che numerose leggi speciali; a livello giurisprudenziale: Corte Cost. 438/08; Cass. 10014/94; Cass. 364/97; Cass. 7027/2011; Cass. 5444/06; Cass. 26972/08; Cass. 10741/2009; Cass. 2847/2010; Cass. 16543/2011) la modifica introdotta dalla Consulta con la richiamata sent 151/09 non ha nessuna incidenza.
Fuori dai casi di pericolo per la salute della donna accertato dal medico, questa, non potrebbe in nessun caso per altre ragioni revocare il consenso al trattamento di PMA. In positivo, ciò significa che la stessa sarebbe obbligata a procedere al trattamento. Né l’affermazione risulta meno grave per il fatto che si tratta di norma sprovvista di sanzione, posto che in linea di principio la portata della disposizione introduce un vulnus nel sistema, sistema che, come già visto risulta ben definito entro le coordinate stabilite dalle pronunce delle Supreme magistrature secondo le quali “la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute (…)” (Corte Cost. 482/08); “Il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza (…) Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l'intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto(…),” (Cass, Sez III, 28 luglio 2011, n. 16543); “ Il consenso informato deve essere presente sia nella fase di formazione del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c.” (Cass 10741/2009).
Alla luce di quanto precede come può ammettersi che fuori dai casi medicalmente accertati di pericolo per la salute del paziente, questi non possa revocare il consenso al proseguimento del trattamento sanitario di PMA?
Ulteriore contraddizione può essere individuata anche nell’ipotesi in cui fosse il marito a revocare la volontà dopo la fecondazione dell’ovulo ovvero in tale lasso di tempo lo stesso dovesse decedere. In assenza di espresse previsioni in proposito, la donna dovrebbe comunque sottoporsi al trattamento, non potendo rientrare tale ipotesi né fra le cause di forza maggiore precisate all’art. 14 c. 3 –cause temporanee e prevedibili- né fra i gravi motivi di ordine sanitario di cui all’art. 6 comma 4.
Per le ragioni sopra evidenziate non manifestatamene infondata risulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma. 3, L. 40/04 per contrasto con gli artt. 2, 13, 32 Cost.


C) Irragionevolezza ed illogicità dell’art. 13 comma 1,2,3, e 6 3° c u.c. L. 40/04
VS
-Artt. 2,3, 9,13,31,32,33 1°c Cost.

IL BILANCIAMENTO COSTITUZIONALE TRA INTERESSI DELLA MADRE E DEL CONCEPITO
Le specifiche modalità con le quali la L. 40/04 ha riconosciuto espressamente la soggettività giuridica dell’embrione, nell’affermare in termini assoluti la preminenza degli interessi alla salute allo sviluppo, e quindi alla vita, dello stesso da vita ad un programma normativo del tutto estraneo all’assetto di valori e principi costituzionali codificati o meglio all’interpretazione e al bilanciamento che la Corte Costituzionale, senza oscillazioni significative, ha fornito a partire dal 1975 di tali principi e valori (a partire da Sent. 27/75 e da ultimo con la sent. 151/09). Come è noto, la suprema Corte partendo dal dato normativo della Carta, attraverso un’operazione di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti è pervenuta ad un giudizio, espressione dell’assetto gerarchico di principi e interessi voluto dagli estensori del 1948, secondo il quale “pur sussistendo una tutela costituzionale del concepito - secondo quanto puo' dedursi dagli artt. 31, secondo comma, e 2 della Costituzione - che di per se' giustifica l'intervento protettivo da parte del legislatore penale-, detto interesse puo' venire in collisione con altri beni che godono pur essi di tutela costituzionale, cui spetta adeguata protezione”. In tal caso, ovvero in ipotesi di conflitto con il diritto alla vita o alla salute della madre, il Giudice delle leggi ha statuito che "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare”. Tale giudizio è stato ribadito anche successivamente in varie occasioni: sent. Corte c. 26/81 ,35/97 e 514/02.
Su tali assunti si fonda anche la più volte citata sentenza Corte cost. 151/09 con la quale è stato ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 14 c. 2 e 3 della L. 40/04 nella parte in cui imponeva una condotta terapeutica unica al medico (produzione di massimo 3 embrioni e obbligo di contemporaneo trasferimento) e nella parte in cui non subordinava il trasferimento degli embrioni alla esclusione di qualsiasi pregiudizio per la salute della donna. Ciò conferma in maniera in equivoca la validità della sintesi cui si accede mediante l’opera di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti secondo la quale la tutela della salute della vita e dei diritti fondamentali (in specie all’autodeterminazione, alla procreazione cosciente e responsabile, al consenso informato) della donna nel conflitto con analoghi interessi dell’embrione devono ritenersi in tutti i casi prevalenti.
Tutta la legislazione ordinaria, e lo stesso formante giurisprudenziale di merito e legittimità, risulta conforme e coerente con tale orientamento riconoscendo, attraverso una pluralità di norme e pronunce, dignità autonoma alla vita umana nascente – viene stabilita a tal fine la tutelabilità di importanti situazioni giuridiche riconducibili a interessi di natura patrimoniale e personale del nascituro- nei limiti di compatibilità consentiti dalla preminente e necessaria tutela dei corrispondenti diritti della madre.
Coerentemente con l’assunto, la protezione della vita pre-natale, sul piano giuridico ha continuato ad esprimersi attraverso la tecnica della “tutela”, della dignità umana del concepito e quindi di tutte le specifiche situazioni allo stesso riferibili ritenute meritevoli, e non certo mediante l’attribuzione di “diritti soggettivi” immediatamente e genericamente azionabili da questo anche nei confronti dei genitori.
Le leggi 405/75 sui consultori familiari e 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza rappresentano in tal senso il faticoso punto di sintesi cui è pervenuta l’operazione di bilanciamento e composizione degli interessi sopra descritti. In entrambi i casi l’articolo di apertura della legge individua fra gli scopi prioritari della norma quello di tutelare “la vita umana fin dall’inizio” ovvero il “prodotto del concepimento”.

IL BILANCIAMENTO IRRAGIONEVOLE DI INTERESSI COSTITUZIONALMENTE RILEVANTI OPERATO DALLA L. 40/04: RIC. SCIENTIFICA-SALUTE INDIVIDUALE E COLLETTIVA-CONSENSO INFORMATO vs VITA DELL’EMBRIONE
La legge 40/04, attraverso il sistema di disposizioni sopra individuate nell’assicurare una tutela prevalente all’embrione, -peraltro in violazione dello stesso art. 1, comma 1, della l. 40/04 ove si prevede che la legge si propone di assicurare i “…diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”- ridisegna la gerarchia dei principi e dei valori costituzionali in ambito procreativo operando un bilanciamento fra interessi costituzionalmente rilevanti che perviene, ad esiti opposti a quelli appena descritti. Seppur nello specifico ambito della PMA e della ricerca scientifica su materiale embrionale umano, l’interesse alla salute e allo sviluppo di quest’ultimo viene ritenuto prevalente rispetto ai corrispondenti interessi della madre nonché a quelli della ricerca scientifica senza possibilità di deroghe o mediazioni.
E ciò che è più irragionevole è la rigidità della previsione che non consente la possibilità di graduare i contenuti in dipendenza della specificità delle situazioni nel caso concreto. Così l’intangibilità dell’embrione e la conseguenze impossibilità di un suo utilizzo per altri fini costituzionalmente rilevanti -salute collettiva ex art. 32 cost e/o ricerca scientifica ex art. 9 cost- non consente di distinguere tra le ipotesi di produzione finalizzata a scopi di ricerca da quella di destinazione a tale scopo degli embrioni residuati e soprannumerari destinati alla crioconservazione sino all’autodistruzione per estinzione (in massimo 10 anni) anche contro la volontà dei disponenti!
Analogamente del tutto irragionevole risulta anteporre gli interessi al trasferimento in utero dell’ovulo fecondato rispetto alla volontà contraria del soggetto ricevente, la madre, qualunque sia la ragione dell’intervenuto mutamento di volontà (salute, stato personale, relazione di coppia, differenti valutazioni sulla vicenda, timori relativi al trattamento sanitario, etc).
Alla luce delle considerazione che precedono il giudice ha ritenuto non manifestatamene infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1,2,3, e 6 c. 3 u.c. L. 40/04 attesa l’irragionevolezza e l’illogicità di tali disposizioni rispetto agli artt. 2,3, 9, 13,31,32, 33 1 c. Cost.
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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Il Tribunale di Firenze ritiene dunque fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 6 c. 3 e 13 c. 1 della L. 40/04 perché il bilanciamento operato tra valori e diritti costituzionalmente rilevanti risulta irrazionale, illogico irragionevole:
A) Infatti con riguardo al necessario Consenso informato del soggetto: è irrazionale, illogico e irragionevole non consentire, al pari di qualsiasi altro trattamento sanitario che non sia un TSO ovvero che si collochi in una situazione di urgenza per la vita o la salute del paziente, prevedere l’irrevocabilità del consenso circa l’avvio e la prosecuzione dello stesso. In omaggio al principio che vuole il consenso informato come la sintesi tra 2 diritti fondamentali, la salute e l’autodeterminazione, esso costituisce condizione di legittimità del trattamento e come tale è liberamente revocabile in qualsiasi momento. La previsione, nel trattamento di PMA, della sua irrevocabilità dopo la fecondazione dell’ovocita, dunque a circa metà del trattamento, è dunque contraria ai principi di cui agli art. 2, 13, 32 Cost;
B) Il bilanciamento tra libertà della ricerca connessa alla tutela della salute individuale e/o collettiva (art. 9, 32 Cost) e la tutela della vita, sviluppo e salute dell’embrione abbandonato o malato, comunque non più impiegabile per finalità procreative, previsto dall’art. 13 della L. 40/04 è del tutto irragionevole e illogico. Infatti se rientra nella discrezionalità legislativa prevedere la prevalenza del diritto alla vita e allo sviluppo dell’embrione rispetto alla ricerca e alla salute individuale e collettiva nell’ipotesi di creazione di embrioni da destinare esclusivamente alla ricerca, in maniera del tutto diversa si pone la questione ove gli embrioni da utilizzare per la ricerca finalizzata alla tutela della salute siano quelli crioconservati e residuati a trattamenti di PMA,malati, abbandonati e destinati all’autodistruzione certa per estinzione nel volgere di qualche anno. In tal caso il divieto di utilizzo, a maggior ragione nell’ipotesi di precisa indicazione dei generanti, per finalità costituzionalmente rilevanti quali la ricerca finalizzata alla tutela della salute degli stessi pazienti o collettiva, risulterebbe del tutto illogico e irragionevole.
C) Il giudice rileva poi come le situazioni sopra descritte risultino aggravate dalla contradditoria definizione del concetto di embrione che in contrasto con la definizione offerta dalla scienza medica di ‘organismo pluricellulare autonomo dai progenitori’ (quindi entità umana oltre il 3° giorno dal concepimento) viene qualificato talvolta come ovocita fecondato, talaltra come concepito o nascituro con ogni effetto consequenziale circa l’incertezza sull’applicazione dei divieti previsti dall’art. 13 ovvero i limiti di cui all’art. 6 della legge 40/04.

Corte EDU e legge 40/2004: contrario all'art. 8 Cedu il divieto, per una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica, di accedere alla diagnosi pre-impianto degli embrioni (ma il Governo fa ricorso alla Grande Chambre)
29 Novembre 2012
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 28 agosto 2012, ric. n. 54270/10, Costa e Pavan c. Italia

[Alessandra Verri]

Segnaliamo ai lettori che, nella giornata di ieri, 28 novembre 2012, la stampa ha dato notizia del ricorso alla Grande Chambre della Corte EDU, da parte del Governo italiano, avverso la sentenza resa nelo scorso mese di agosto dalla stessa Corte, di seguito schedata da Alessandra Verri (clicca qui per accedere al relativo comunicato del governo).


1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte EDU torna a pronunciarsi in relazione alla legge italiana sulla fecondazione assistita (l. n. 40/2004), affermandone il contrasto con l'art. 8 CEDU nella parte in cui vieta ad una coppia fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica, di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
2. Il caso trae origine da un ricorso contro la Repubblica italiana proposto da due cittadini italiani, la signora R. C. ed il signor W. P. I ricorrenti, dopo la nascita della loro figlia, nel 2006, apprendevano di essere portatori di fibrosi cistica, dal momento che la bambina ne era affetta. Nel corso di una seconda gravidanza i ricorrenti, venendo a sapere che il feto aveva contratto la malattia, decidevano di interrompere la gravidanza stessa. In seguito, dopo l'inizio di una nuova gravidanza, i ricorrenti facevano richiesta di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (di seguito "PMA") e alla diagnosi genetica pre-impianto (di seguito "DPI"). Tale accesso veniva tuttavia negato in quanto, ai sensi della l. n. 40 del 2004, tali tecniche sono riservate solo alle coppie sterili o infertili e, in virtù di un decreto del 11 aprile 2008 del Ministero della Salute, alle coppie di paesi meno sviluppati, nel caso in cui l'uomo abbia contratto malattie virali sessualmente trasmissibili (come il virus HIV, l'epatite B e C), al fine di consentire loro di procreare figli senza il rischio di trasmissione di tali malattie virali alla donna e/o al feto.
3. Il Governo italiano sostiene la mancanza di status di vittima dei ricorrenti, in quanto non hanno fatto alcuna richiesta formale per effettuare la DPI e non hanno, pertanto, ottenuto alcun rifiuto. Secondo il Governo, il loro ricorso costituirebbe un actio popularis ed essi non avrebbero esaurito le vie di ricorso interne.
In proposito, per la Corte EDU non si può validamente contestare che i ricorrenti non abbiano presentato una domanda per ottenere un provvedimento autorizzativo della DPI, dal momento che, come riconosce esplicitamente lo stesso Governo italiano, lo stesso è espressamente vietato dalla legge.
Nel merito, invocando l'art. 8 Cedu, i ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il Governo osserva, al riguardo, che i ricorrenti fanno valere, in sostanza, un "diritto ad avere un bambino sano", che non è protetto in quanto tale dalla Convenzione europea. Pertanto, la censura dei ricorrenti sarebbe inammissibile ratione materiae. Inoltre, il divieto di accesso alla DPI sarebbe una misura prevista dalla legge, che persegue uno scopo legittimo, vale a dire la tutela di altri diritti e della morale, meritevoli di protezione in una società democratica. In particolare, lo Stato, sostiene il Governo, ha preso in considerazione la salute del bambino e della donna, nonché la dignità e la libertà di coscienza di medici contro il rischio di eugenetica. Infine, in mancanza di armonizzazione a livello europeo, gli Stati membri dovrebbero godere di un ampio margine di apprezzamento su questioni morali, etiche e sociali.
I ricorrenti, viceversa, sostengono che "il diritto al rispetto della decisione di diventare o non diventare un genitore", soprattutto nel senso genetico del termine, entra nel concetto del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall'art. 8 Cedu. Pertanto, lo Stato deve astenersi da qualsiasi interferenza nella scelta del singolo di diventare o meno genitore di un bambino, ed è onere dello Stato mettere in atto misure per garantire che la scelta possa avvenire liberamente.
La Corte europea rileva anzitutto che, al fine di stabilire la compatibilità ratione materiae della censura sollevata dai ricorrenti con riferimento l'art. 8 Cedu, è essenziale definire l'ambito del reclamo.
Sotto questo profilo, rispetto all'asserzione del Governo secondo cui i ricorrenti lamenterebbero la violazione di un presunto "diritto ad avere un bambino sano", la Corte ha rilevato che il diritto da loro rivendicato è limitato alla possibilità di accedere a specifiche tecniche di diagnosi genetica. Essa ricorda che la nozione di "vita privata", ai sensi dell'art. 8 Cedu, è un concetto ampio che comprende, vari diritti, fra cui figura anche quello di vedere rispettata la decisione di diventare o non diventare un genitore. Inoltre, sempre a norma dell'art. 8 Cedu, la Corte ha riconosciuto il diritto dei ricorrenti di vedere rispettata la loro decisione di diventare genitori genetici e ha concluso che l'applicazione dell'articolo in questione si ha anche per l'accesso alla tecnica di procreazione artificiale eterologa per la fecondazione in vitro.
Con specifico riguardo, poi, alla conformità con l'art. 8 Cedu del divieto previsto dalla legge n. 40, per la Corte europea si tratta diun'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare, che non può ritenersi giustificata - come asserito invece dal Governo italiano - dalla necessità di tutelare la salute dei "bambini" e della donna, nonché la dignità e la libertà di coscienza di medici contro il rischio di eugenetica. Ad avviso dei giudici europei, infatti, la tutela di tali interessi non può ritenersi coerente con la possibilità, esplicitamente prevista dalla legge italiana,  di effettuare un aborto terapeutico quando il feto sia malato, considerato ciò che esso comporta sia per il feto, il cui sviluppo è ovviamente più avanzato di quello di un embrione, sia per i genitori, in particolare per la donna.
A giudizio della Corte EDU il sistema legislativo italiano in questo ambito non è coerente: esso impedisce di effettuare l'impianto di embrioni, qualora i genitori siano portatori sani di una malattia genetica; ma consente loro di interrompere la gravidanza qualora il feto risulti colpito dalla malattia stessa. Essa, mette inoltre in evidenza come il sistema italiano comporti, da un lato, uno stato di ansia dei ricorrenti i quali non sono in grado di effettuare la diagnosi genetica pre-impianto e, dall'altro lato, uno stato di sofferenza derivante dalla scelta dolorosa di fare, se necessario, un aborto terapeutico. In conclusione, la Corte EDU ritiene che l'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare sia stata, nel caso di specie, sproporzionata e, quindi, conclude per la violazione dell'art. 8 Cedu.
Invocando l'art. 14 Cedu, i ricorrenti lamentavano, inoltre, di essere stati discriminati rispetto alle coppie sterili o infertili o ai soggetti affetti da malattie virali sessualmente trasmissibili (come il virus HIV e la epatite B e C). La Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 14 della Convenzione, la discriminazione consiste nel fatto di trattare in modo diverso, senza una giustificazione obiettiva e ragionevole, persone in un dato soggetto in situazioni simili. Nel caso di specie, a suo avviso, essendo il divieto di accesso alle tecniche di diagnosi generalizzate, tale lamentela è infondata e, pertanto, non ricevibile.


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estratto da http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/24-/-/1885-corte_edu_e_legge_40_2004__contrario_all_art__8_cedu_il_divieto__per_una_coppia_fertile_portatrice_sana_di_fibrosi_cistica__di_accedere_alla_diagnosi_pre_impianto_degli_embrioni__ma_il_governo_fa_ricorso_alla_grande_chambre/

Il tribunale di Cagliari riconosce per la prima volta il “diritto” di accesso alla diagnosi genetica preimpianto ad una coppia talassemica.
10 Dicembre 2012
Nota ad ordinanza Trib. Cagliari 9 novembre 2012 n. 5925

[Alessandra Verri]

Per scaricare il testo dell'ordinanza, clicca sotto su download documento

1. Nell'ordinanza che si annota e che può essere letta in allegato il giudice cagliaritano torna ad occuparsi di una fra le più dibattute e controverse questioni di tutta la disciplina in tema di procreazione assistita, ossia se sia consentito agli aspiranti genitori conoscere preventivamente lo stato di salute dell'embrione mediante la procedura della diagnosi genetica preimpianto [1].
Con una pronuncia che potremmo definire storica il giudice di merito riconosce per la prima volta un vero e proprio diritto per le coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili al nascituro, di ottenere, nell'ambito dell'intervento di procreazione medicalmente assistita,l'esame clinico e diagnostico degli embrioni ed il trasferimento in utero dei soli embrioni sani o portatori sani delle patologie di cui le stesse risultano affette.


2. Questi i fatti all'origine della pronuncia. Una coppia di coniugi, di cui uno affetto da talassemia major e l'altro portatore sano della stessa patologia e quindi con un rischio del 50% di generare un figlio affetto anch'esso dalla medesima patologia, chiede al Presidio Ospedaliero Microcitemico dell'Asl di Cagliari di poter effettuare un' indagine clinica e diagnostica sull'embrione.
Di fronte al rifiuto di  quest'ultimo  di eseguire le indagini cliniche e diagnostiche sull'embrione e trasferire solo gli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui i ricorrenti risultano affetti, gli stessi decidono di ricorrere in via cautelare ex art. 700 c.p.c. al Tribunale civile, affinché questi accerti il loro diritto ad ottenere l'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita ed ordini alla struttura medica convenuta di procedere agli accertamenti genetici richiesti.
L'azienda sanitaria locale di Cagliari, costituitasi in giudizio, chiede, invece, il rigetto del ricorso in quanto ritenuto infondato, eccependo, in primo luogo, la sussistenza di un divieto normativo della diagnosi preimpianto, dal momento che la legge n. 40 del 2004 consente unicamente interventi sull'embrione aventi finalità diagnostiche terapeutiche dirette alla tutela della salute e dello sviluppo dell'embrione stesso e impedisce, invece, quelli aventi come finalità il solo accertamento di eventuali gravi malattie genetiche da cui fosse affetto (come appunto la beta talassemia), nonché, in secondo luogo, la mancanza di strutture idonee e di risorse umane necessarie per poter eseguire l'esame diagnostico sugli embrioni.

3. Nel merito si deve preliminarmente osservare come la magistratura italiana abbia assunto nel tempo diversi orientamenti in merito alla questione dell'ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto sull'embrione creato in vitro, in quanto nessuna norma incriminatrice della legge 40/2004 considera espressamente questa fattispecie. Da un lato, infatti, la legge contiene un generale divieto di sperimentazione sugli embrioni umani derogabile soltanto nei casi in cui la ricerca clinica e sperimentale sull'embrione sia volta alla tutela della salute o allo sviluppo di quel singolo embrione (art. 13 comma 1 e 2), nonché  la proibizione di selezionare gli embrioni a scopo eugenetico (art. 13, comma 3 lett. b), dall'altro lato, prevede, invece, che chi intenda sottoporsi alla procreazione medicalmente assistita possa essere informato, su richiesta, in merito non solo al numero degli embrioni prodotto, ma anche al loro stato di salute (art. 14 comma 5). Questo conflitto è stato risolto in un primo tempo Linee guida del 2004, in cui si prevedeva che le indagini di cui all'art. 14 comma 5 potessero essere solo di tipo "osservazionale", escludendo così la possibilità di eseguire la diagnosi genetica preimpianto.
Di fronte all'ambiguità del dato normativo, la giurisprudenza sia civile che amministrativa, dopo una prima fase orientata in senso negativo relativamente alla praticabilità della diagnosi genetica preimpianto[2], si è in seguito assestata lunga una comune linea favorevole.
La pronuncia del giudice cagliaritano costituisce così solo l'ultima tappa di una lungo e articolato iter giurisprudenziale, iniziato con la pronuncia del Tribunale di Cagliari del 2007[3] e proseguito con  un'ordinanza del Tribunale di Firenze[4] ed una sentenza del Tar del Lazio[5], per poi culminare con  la storica sentenza del 2009 della Corte costituzionale[6], che, individuando come parametri costituzionali di riferimento gli artt. 3 e 32 Cost., ha rimosso definitivamente gli ostacoli che ancora si frapponevano alla possibilità di praticare la diagnosi genetica preimpianto: ossia, il divieto contenuto nel comma 2 dell'art. 14 di produrre un numero di embrioni superiore a tre per ogni ciclo di trattamento[7], il divieto di crioconservare gli embrioni, nonché l'obbligo di trasferire contemporaneamente tutti gli embrioni prodotti[8].
I principi affermati dalla Consulta sono poi stati fatti propri e valorizzati da due recenti pronunce del giudice ordinario. Nella prima di esse il Tribunale di Bologna[9] ha ammesso la diagnosi genetica preimpianto e ha consentito la crioconservazione degli embrioni senza la necessità dello stato di forza maggiore della donna, mentre nella seconda il Tribunale di Salerno[10] ha fatto un passo ulteriore,  ammettendo alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche coppie a rischio di trasmissione di malattie genetiche, che non si troverebbero però in stato di sterilità o infertilità[11].
Nell'ordinanza in commento, infine, per la prima volta si afferma espressamente per le coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili al nascituro l'esistenza di un vero e proprio diritto di ottenere, nell'ambito dell'intervento di procreazione medicalmente assistita, l'esame clinico e diagnostico degli embrioni ed il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie di cui le stesse risultano affette.


4. Queste le principali argomentazioni addotte dal Tribunale di Cagliari a sostegno del proprio assunto.
Innanzitutto, secondo questo giudice, la diagnosi genetica preimpianto deve considerarsi pienamente ammissibile al fine di assicurare la compatibilità della legge n. 40 del 2004 con i principi del nostro ordinamento giuridico. Premesso, infatti, che la procreazione medicalmente assistita rappresenta un trattamento medico, come si desume, oltre che dai protocolli dell'Organizzazione mondiale della Sanità, dalla stessa legge 40/2004, che ammette il ricorso alla procreazione assistita qualora non vi siano altri metodi tera­peutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità, e prevede l'applicazione delle tecniche di procreazione assistita solo in apposite strutture autorizzate, «il consenso informato costituisce un vero e proprio diritto della persona che svolge la funzione di sintesi dei due diritti fondamentali all'autodeterminazione  ed alla salute», come si ricava dall'art. 6 della l. 40/2004[12].
Il consenso informato diviene così, nell'iter argomentativo della pronuncia, il passaggio fondamentale dal quale desumere la liceità dell'accertamento diagnostico. Nell'ambito della procedura del consenso informato la coppia ha, infatti, « diritto a ricevere una completa informativa funzionale ad una procreazione libera e consapevole e la diagnosi preimpianto possiede come scopo proprio quello di consentire alla donna una decisione informata e consapevole in ordine al trasferimento degli embrioni formati ovvero al rifiuto di detto trasferimento. All'interno di tale prospettiva, la diagnosi preimpianto dovrà pertanto accertare le condizioni di salute dell'embrione che siano legate da uno stretto nesso eziologico con l'integrità psicofisica della donna, con evidenti analogie con le disposizioni contenute nella legge 22 maggio 1978, n. 194, contenente norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza».
Ulteriore passaggio fondamentale è rappresentato, poi, dalbilanciamento tra l'interesse del concepito e quello della donna. Il giudice cagliaritano, dopo aver escluso che costituisca ostacolo all'ammissibilità della diagnosi preimpianto il dato letterale contenuto nell'art. 13 della legge n. 40 del 2004, nel quale il bilanciamento è operato tra l'integrità dell'embrione e l'interesse della collettività alla ricerca clinica e sperimentale, con una discrezionale prevalenza della prima, pone l'accento sul disposto del successivo art. 14, nel quale la salute della donna e la autodeterminazione consapevole prevalgono sull'interesse alla integrità dell'embrione. Ne consegue che « l'ammissibilità del trasferimento in utero dei soli embrioni sani o portatori sani della patologia non è funzionale  ad un ipotetico "diritto ad avere un figlio sano", ossia a pratiche eugenetiche, ma  è volti a scongiurare il rischio di un grave pericolo per la salute psico-fisica della donna, anche in relazione ad importanti anomalie del concepito, nell'ambito del principio di autoresponsabilità della donna  di valutare gli effetti della malattia dell'embrione  sulla propria salute»[13].
Un altro argomento a favore dell'accoglimento del ricorso è offerto, infine, dalla recente sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo di Strasburgo, pronunciata il 28 agosto 2012 nel caso Costa e Pavan contro I'Italia, nel quale i ricorrenti, portatori sani di fibrosi cistica, avevano ri­chiesto di poter accedere alla fecondazione assistita e alla diagnosi preim­pianto, pur non essendo una coppia sterile, presupposto richiesto dalla leg­ge n. 40 del 2004.
In quell'occasione la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che il divieto di accesso alla diagnosi preimpianto, ritenuta dal Governo italiano applicabile a qualsiasi categoria di persone, costituisse una violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo[14]. Il nostro ordinamento, infatti, impedendo di effettuare l'impianto di embrioni, qualora i genitori siano portatori sani di una malattia genetica, ma consentendo loro di praticare un aborto terapeutico qualora il feto risulti colpito dalla malattia stessa, dimostra di non essere coerente, tenuto anche conto in particolare delle conseguenze che questo comporta sia per il feto, il cui sviluppo è certamente assai più avanzato di quello di un embrione, sia per la donna.
Il giudice di Cagliari ritiene così che «la Corte di Strasburgo abbia sostanzialmente posto in evidenza che alla possibilità di eseguire diagnosi prenatali, al fine di tutelare la salute della donna, consegua necessariamente, a pena di incoerenza del sistema, l'ammissibilità sempre per il medesimo scopo, della diagnosi preimpianto, che appare [...] indispensabile per il fermarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa, riconosciuta dallo stesso art. 6 della legge n. 40 del 2004 [relativo al consenso informato]». La liceità della diagnosi preimpianto, in questa ricostruzione, rappresenterebbe «la logica conseguenza del diritto ad una adeguata informazione», fondamento dell'espressione di un libero consenso.
Accertato dunque il diritto alla prestazione medica, il giudice cagliaritano dispone che, qualora la struttura sanitaria pubblica tenuta all'erogazione del servizio si trovasse nell'impossibilità di erogarla tempestivamente in forma diretta, debba ritenersi che tale prestazione possa essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture, anche eventualmente private.

5. A proposito dell'intervento della Corte Edu, va segnalata la decisione di pochi giorni fa da parte del nostro Governo[15] di presentare, proprio allo scadere del termine previsto, istanza di rinvio davanti alla Grande Camera CEDU, per il riesame della sentenza emessa in primo grado dalla seconda sezione della Corte Edu.
L'iniziativa del governo italiano è stata motivata con la «necessità di salvaguardare l'integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale, e non riguarda il merito delle scelte normative adottate dal Parlamento né eventuali nuovi interventi legislativi»; nella nota del governo si legge inoltre: «la domanda di rinvio... si è resa necessaria in quanto l'originaria istanza è stata avanzata direttamente alla Corte europea per i diritti dell'uomo senza avere prima esperito, come richiede la Convenzione, tutte le vie di ricorso interne e senza tenere nella necessaria considerazione il margine di apprezzamento che ogni Stato conserva nell'adottare la propria legislazione, soprattutto rispetto a criteri di coerenza interni allo stesso ordinamento»[16].
Fin troppo palese il tentativo del nostro governo di salvare l'"insalvabile", aggrappandosi a supposti vizi procedurali, per cercare di scongiurare il progressivo e ormai inarrestabile scardinamento del divieto di effettuare la diagnosi genetica preimpanto ad opera della giurisprudenza sia nazionale che sovranazionale.
 





[1] La diagnosi genetica preimpianto è una tecnica diagnostica che può essere utilizzata su alcune cellule prelevate da un embrione in vitro per individuare i geni responsabili di talune patologie ereditarie. Essa consiste nel prelievo di uno o due blastomeri, che vengono poi analizzati, da un embrione di sei-otto cellule, a circa tre giorni dall'avvenuta fecondazione. Le malattie per le quali tale pratica è eseguita sono numerose, fra cui si segnalano la talassemia e la fibrosi cistica.
[2] Trib. Cagliari ordinanza 16 luglio 2005, in Riv. it. Med. Leg., 2006, p. 648 ss., che ha rigettato la richiesta di un provvedimento d'urgenza in relazione alla diagnosi preimpianto, ritenendo che l'art. 13 della legge contenesse un divieto in tal senso. Anche la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di tale previsione, ha pronunciato un'ordinanza di manifesta inammissibilità della questione.
[3] Trib. Cagliari sentenza 22 settembre 2007, in Corriere del merito, 2008, p. 313 ss., che ha accolto una richiesta di diagnosi preimpianto, sollevando al contempo una eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina contenuta nell'art. 13 l. 40/2004, ritenendo che dovesse prevalere il diritto alla salute della donna dotato di rango costituzionale ex art. 32 Cost.
[4] Trib. Firenze, ordinanza 12 luglio 2008, in Foro it., 2008, 3354 ss., il quale ha ritenuto che le disposizioni contenute nell'art. 13 l.40/2004 relative alla ricerca e sperimentazione sugli embrioni non riguardassero in nessun modo le indagini preimpianto e il richiamo contenuto nella legge si giustificasse solo con riferimento alla disposizione che prevede che coloro che intendano avvalersi della procreazione assistita possano essere informati sullo stato di salute degli embrioni.
[5] Tar Lazio, sez. III quater, sentenza 21 gennaio 2008, n. 398, inGuida al diritto, 2008, fasc.6, p. 60 ss., che ha annullato in quanto illegittima per eccesso di potere la previsione delle Linee guida secondo la quale «ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell'articolo 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale». In attuazione di questa pronuncia sono state emanate nel 2008 le nuove Linee Guida che non contengono più la disposizione dichiarata illegittima.
[6] Corte costituzionale sentenza 8 maggio 2009, n. 151, in  Riv. it. dir. proc. pen, 2009, n. 928, con nota di DOLCINI, Embrioni nel numero"strettamente necessario": il bisturi della Corte costituzionale sulla legge n. 40 del 2004, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 963 s.
[7] Per poter eseguire un'indagine genetica preimpianto è necessario che si sia prodotto un numero di embrioni relativamente elevato. Per i motivi e l'analisi di tale problematica cfr. ampiamente DOLCINI,ibidem.
[8] Tale obbligo contenuto nell'art. 14, comma 3 era derogabile soltanto in caso di «grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione».
[9] Trib. Bologna decreto 29 giugno 2009, in Famiglia e diritto 2009, 1854 ss.
[10] Trib. Salerno ordinanza 9 gennaio 2010, in Guida al dir., 2010, fasc. 9, 62 ss.
[11] Su alcune ambiguità presenti nell'ordinanza del Tribunale di Salerno in merito alla nozione di infertilità, cfr. Dolcini, La procreazione medicalmente assistita: profili penalistici, in Rodotà, Zatti (a cura di),Trattato di biodiritto, Il governo del corpo, 2011, t. II, 1576.
[12] L'art. 6 della legge n. 40 del 2004 prescrive che «prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di pro­creazione medicalmente assistita, il medico informa in maniera dettaglia­ta i soggetti (...) sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione del­le tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stes­se derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro (.....) nei confronti della donna e dell'uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà' consapevole e consapevolmente espressa».
[13] Cfr.  Corte cost., ord. num. 76 del 07/03/1996 e n. 389 del 23/03/1988.
[14] A norma dell'art. 8 CEDU «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[15] Secondo il nostro Governo « la domanda di rinvio si è resa necessaria in quanto l'originaria istanza è stata avanzata direttamente alla Corte europea per i diritti dell'uomo senza avere prima esperito - come richiede la Convenzione - tutte le vie di ricorso interne e senza tenere nella necessaria considerazione il margine di apprezzamento che ogni Stato conserva nell'adottare la propria legislazione, soprattutto rispetto a criteri di coerenza interni allo stesso ordinamento. La Corte ha deciso di non rispettare la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, ritenendo che il sistema giudiziario italiano non offrisse sufficienti garanzie».
[16] Si ricordi che secondo quanto ribadito dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 80/2011, qualora si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, poiché le norme della CEDU integrano, quali "norme interposte", il parametro costituzionale e­spresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli "obbli­ghi internazionali", il giudice comune deve verificare anzitutto la pratica­bilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Conven­zione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione. Nella fattispecie in esame, secondo il giudice cagliaritano, tale interpretazione adeguatrice della norma interna è certamente possibile «in quanto le norme della Convenzione, nel significato attribuito dalla Corte di Strasburgo con la re­cente pronuncia, peraltro non definitiva (cfr. Corte cost. sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, successivamente, n. 39 del 2008 e 311 del 2009 sino alle sentenze nn. 187 e 196 del 2010, n. 78 del 2012 ed alla recente ordinanza n. 150 del 2012), appaiono conformi alla nostra Carta, nella lettura offerta anche dalla più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 151 del 2009, laddove ha esaminato il bilanciamento tra gli interessi contrapposti».



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