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lunedì 21 gennaio 2008

CASSAZIONE SS UU PENALI 6.12.2007 N. 45583

CASS SS. UU. PENALI SENTENZA N. 45583 UD. 25/10/2007 - DEPOSITO DEL 06/12/2007

PENA – CONCORSO DI REATI E DI PENE – LIMITE AL CUMULO MATERIALE – RIDUZIONE PER IL GIUDIZIO ABBREVIATO – ORDINE DI APPLICAZIONE
La riduzione di pena per il giudizio abbreviato deve essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pena stabilite dagli artt. 71 ss c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta.
DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – FRODE PROCESSUALE – IMMUTAZIONE RILEVANTE - INDIVIDUAZIONE
Le Sezioni Unite, dopo aver precisato che l’artificiosa immutazione di luoghi e cose, posta in essere dall’autore di un reato per nasconderne le tracce ed ostacolare la ricostruzione dei fatti, se compiuta in modo grossolano e maldestro risulta priva del necessario carattere dell’idoneità lesiva rispetto al bene tutelato, hanno statuito un fondamentale principio di diritto, volto all’individuazione dell’ambito di un possibile concorso di reati tra quello presupposto e la frode processuale diretta ad ostacolarne l’accertamento. Hanno così chiarito che non ricorre il delitto di frode processuale, presuntivamente commesso prima che abbia inizio un procedimento penale, se l’autore del fatto rispetto al quale l’immutazione fraudolenta dovrebbe essere funzionale compie in quello stesso contesto temporale alcuni atti che, proprio per l’assenza di un’apprezzabile soluzione di continuità, difettano della necessaria alterità rispetto alla condotta del reato presupposto
Sentenza n. 45583 del 25 ottobre 2007 - depositata il 6 dicembre 2007 (Sezioni Unite Penali, Presidente M. Battisti, Relatore G. Canzio)
RITENUTO IN FATTO 1. – Con sentenza del 22/2/2005 il G.u.p. del Tribunale di Busto Arsizio dichiarava A. V. e P. G. responsabili, in concorso tra loro e con altri imputati giudicati separatamente, dei reati di omicidio in danno di F. T. e C. M. e porto illegale di arma da taglio e oggetti atti ad offendere (capo I), duplice tentativo di omicidio in danno del T. e della M. e illegale detenzione di eroina (capi M-N), nonché il V. dei reati di omicidio in danno di M. P., occultamento di cadavere, detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo e munizioni, frode processuale (capi A-B-C-D), furto in abitazione (capo E), rapina e armi (capo G), danneggiamento (capo H), istigazione al suicidio di A. B. (capo P): reati commessi, tutti, nel contesto delle attività criminose della setta denominata “Bestie di Satana”. Il G.u.p. condannava quindi: - il V. alla pena di anni 30 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i distinti gruppi di reati di cui ai capi A-B-C-D, ai capi E-G e ai capi I-M-N-P, con determinazione delle pene, in relazione a ciascun gruppo e previa riduzione di un terzo per il rito abbreviato, in anni 16 di reclusione (capi A-B-C-D), anni 2 e mesi 4 di reclusione (capi E-G), mesi 4 di reclusione (capo H), anni 20 di reclusione (capi I-M-N-P), con finale contenimento della pena nella misura indicata dall’art. 78 c.p.; - il G. alla pena di anni 16 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i reati sub I-M-N, applicata la diminuente del rito. Più precisamente, per quanto attiene alla determinazione della pena, il primo giudice, per il V., operava il cumulo materiale delle pene, prima quantificate all’interno di autonome sequele di continuazione, e perveniva alla pena di anni 38 e mesi 8 di reclusione, già computata la diminuente del rito, applicando poi l’art. 78 c.p. e giungendo alla pena finale di anni 30 di reclusione; mentre, per il G., determinava la pena per il reato più grave in anni 21 di reclusione, aumentata di anni 3 per la continuazione, e sulla pena di anni 24 applicava la riduzione di un terzo per il rito, irrogando così la pena finale di anni 16 di reclusione. 2. – La Corte d’assise d’appello di Milano, con sentenza del 16/6/2006, in parziale riforma della decisione impugnata: - relativamente al V., assolveva l’imputato dal delitto di frode processuale (capo D) siccome persona non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., riqualificava come tentativo di lesioni il tentato omicidio in danno del T. e della M. contestato al capo M, estendeva la continuazione tra l’omicidio P. e i reati di cui ai capi A-B-C anche al furto in abitazione e alla rapina di cui ai capi E-G, fissando la pena per tali reati in anni 25 e mesi 10 di reclusione, rideterminava in anni 28 di reclusione la pena per il duplice omicidio T. e M. e per i reati di lesioni tentate in danno dei medesimi, di tentato omicidio in danno della M. e di istigazione al suicidio del B. (capi I-M-N-P), quindi, stabilita la pena complessiva di anni 54 e mesi 4 di reclusione e limitata la stessa ai sensi dell’art. 78 c.p. ad anni 30, la riduceva ulteriormente, per effetto del rito abbreviato, ad anni 20, così sovvertendo l’ordine applicativo seguito dal primo giudice; - relativamente al G., rigettata la richiesta di nuova perizia psichiatrica, riqualificato nei sensi anzidetti il tentativo di omicidio in danno di T. e M. (capo M) e dichiarate le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, riduceva la pena ad anni 12 e mesi 8 di reclusione; - confermava, nel resto, la sentenza appellata. 3. – Hanno proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte d’appello di Milano e il difensore del Guerrieri. 3.1. - Il P.G. ha denunziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, deducendo: - che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della frode processuale, prima ancora di riconoscere la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso di specie, perché il Volpe agì per assicurarsi l’impunità dell’omicidio P.; - che le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75 (capo I) erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione; - che, quanto alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato (capo M), l’incendio dell’autovettura era idoneo ad attentare all’incolumità dei due giovani ed a cagionarne la morte, obiettivo questo perseguito dagli imputati; - che, circa il criterio di determinazione della pena per il V., la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere prima alla diminuzione ex art. 442 c.p.p. di un terzo della pena per i delitti come ritenuti in continuazione, quindi alla sommatoria delle pene e, infine, praticarne il contenimento ai termini dell’art. 78 c.p., non rivestendo tale norma natura “sostanziale”, siccome mero criterio moderatore del cumulo materiale, e provvedendosi in fase di esecuzione a siffatta operazione di contenimento per ultimo, sicché l’opposta interpretazione comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio, oltre a tradurre la scelta del rito “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”; - che, in ordine alla ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche per il G., sembrava inadeguatamente motivato il criterio enunciato dalla Corte territoriale di differenziare maggiormente la posizione di tale imputato rispetto al V., al quale era stata inflitta una pena definita dalla stessa Corte troppo mite. 3.2. – Il difensore del G. ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), d) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e manifesta illogicità della motivazione, sviluppando una serie di motivi in punto di: vizio parziale di mente dell’imputato, affetto da disturbo della personalità e destabilizzato dall’interazione col gruppo satanico, sotto il profilo della denegata rinnovazione dell’istruzione mediante perizia psichiatrica collegiale; affermazione di colpevolezza sia per l’omicidio che per il tentato omicidio, in quanto l’imputato non aveva partecipato alla materiale esecuzione, né procurato le armi, né cooperato all’occultamento dei cadaveri, né istigato i correi, né agevolato l’esecuzione dei delitti; insussistenza della premeditazione e delle altre aggravanti; insussistenza del fatto lesivo di cui al capo M per inidoneità della condotta e comunque erronea qualificazione giuridica della stessa come lesioni tentate anziché incendio; riconoscimento, in relazione alla detenzione di sostanza stupefacente (capo N), della diminuente del fatto di lieve entità ex art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/90; eccessivo contenimento della diminuzione operata per le attenuanti generiche ed eccessivo aumento per la continuazione; incongruità del trattamento sanzionatorio, con riguardo alla condotta processuale, all’incensuratezza, alla succubanza rispetto al gruppo satanico, all’impegno risarcitorio e alla sperequazione rispetto al V.; prescrizione delle contravvenzioni di cui al capo I. 4. – Il difensore del Volpe, a sua volta, nel replicare al motivo di ricorso del P.G. concernente i rapporti fra diminuente del rito e criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p., ha osservato che la tesi sostenuta dal P.G. darebbe luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando l’effetto premiale ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale siano superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito speciale, ed ha inoltre rilevato che nessuna comparazione può farsi con la fase esecutiva, dal momento che, nei casi di concorso di reati e di pene, in detta fase vi sono più pene mentre in sede di cognizione ve n’è una sola, e l’art. 442, comma 2 c.p.p. parla di riduzione della pena e non già delle pene. 5. - La Prima Sezione penale, con ordinanza del 30/3 – 25/6/2007, afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione di pena per il giudizio abbreviato dev’essere eseguita dopo che la pena sia stata determinata secondo i criteri stabiliti dalle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell’art. 78 c.p., sul duplice rilievo che il limite assoluto di anni trenta non è assimilabile alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento alle componenti materiali e soggettive del reato, e che nella fase dell’esecuzione l’applicazione del medesimo criterio segue necessariamente la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p., sicché non sembra ipotizzabile una differente soluzione per il giudizio di cognizione. La concreta possibilità dell’insorgere di un contrasto di giurisprudenza nei termini illustrati ha pertanto indotto il Collegio, ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite cui è stato assegnato dal Primo Presidente per l’odierna udienza pubblica. CONSIDERATO IN DIRITTO 6. - Osserva innanzi tutto il Collegio che risultano privi di pregio i profili, meramente fattuali e sprovvisti del requisito di adeguata specificità delle ragioni di diritto, delle censure svolte dalla difesa del G. circa il negato riconoscimento del vizio parziale di mente, il positivo apprezzamento delle prove di responsabilità e l’entità del trattamento sanzionatorio, nonché delle critiche mosse dal ricorrente P.G. alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato di cui al capo M, nonché al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche elargite al G. La Corte d’assise d’appello, nel condividere sostanzialmente il ragionamento probatorio del giudice di primo grado, ha rigettato la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia psichiatrica, rilevando con congrua motivazione che la perizia era stata già effettuata in sede di incidente probatorio da un collegio di periti, i quali avevano escluso la sussistenza del vizio parziale di mente; ha ritenuto che il G. avesse dato un notevole contributo alla commissione del duplice omicidio T e M, scavando, alcuni giorni prima dell’agguato, la fossa destinata ad accoglierne i corpi, così rafforzando il proposito criminoso dei correi; in ordine al tentativo di omicidio di cui al capo M, pur considerando provato che il G. avesse inserito il petardo nel serbatoio della benzina dell’autovettura, al cui interno si trovavano il T. e la M., ha sostenuto, sulla plausibile premessa in fatto che il serbatoio non sarebbe potuto esplodere per deflagrazione della benzina, che l’azione era solo in grado di cagionare un incendio di modestissime proporzioni dell’autovettura, con conseguente rischio di lesioni e non di offesa alla vita delle vittime; ha rilevato che le dichiarazioni accusatorie del V. e del M. costituissero prove sufficienti del coinvolgimento del G. nell’ulteriore tentativo di omicidio della M. mediante la somministrazione di un’overdose di eroina; ha ritenuto la sussistenza delle aggravanti del numero delle persone, dell’essersi avvalso di minori (i coimputati M. e M.), della premeditazione, essendo stati i delitti omicidiari deliberati ben prima della loro commissione, dei motivi abietti e futili, costituiti dal fatto che le due vittime ostacolavano i riti della setta satanica, e di aver agito con crudeltà per le modalità raccapriccianti del duplice omicidio. La Corte territoriale ha, pertanto, efficacemente evidenziato, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, le ragioni del giudizio positivo di colpevolezza dell’imputato in ordine ai delitti contestati e della diversa qualificazione giuridica del tentativo di omicidio di cui al capo M, enunciando analiticamente le fonti probatorie, gli elementi e le circostanze rilevanti a tal fine ed apprezzandone, senza contraddizioni o salti logici, la significativa convergenza: motivazione, questa, coerente con la ricostruzione fattuale degli episodi criminosi e non sindacabile in sede di controllo di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, soprattutto quando i ricorrenti, come nella specie, non criticano la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma si limitano in realtà a sollecitare un non consentito riesame del merito delle vicende criminose attraverso la rilettura del materiale probatorio. Quanto, infine, alle contrapposte doglianze dei ricorrenti riguardanti l’adeguatezza della pena inflitta al G., appare corretto e insindacabile in sede di legittimità l’argomentato giudizio della Corte territoriale che, pur negando l’attenuante della minima importanza del contributo concorsuale dell’imputato e, relativamente all’episodio dell’acquisto di eroina da iniettare alla M., quella della lieve entità del fatto, ha motivatamente ritenuto prevalenti, tuttavia, le attenuanti generiche in considerazione della fragile personalità del G., dell’impegno risarcitorio, della collaborazione processuale e dell’opportunità di differenziarne il trattamento sanzionatorio rispetto a quello del V.. Di talché, le censure dei ricorrenti circa pretese violazioni di legge e carenze motivazionali della sentenza impugnata, relativamente ai punti suindicati, risultano infondate. Deve invece darsi atto dell’erronea conferma da parte dei giudici d’appello della condanna per le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75, contestate agli imputati unitamente all’omicidio T. e M. (capo I), che erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione. Sicché la sentenza impugnata, limitatamente a questo capo d’imputazione, va annullata senza rinvio, eliminandosi la relativa pena di giorni dieci di reclusione (giorni 15 meno un terzo per la diminuente del rito) solo per il G., attesa l’irrilevanza di un’analoga statuizione riduttiva (giorni venti di reclusione: giorni 30 meno un terzo per la diminuente del rito) sulla complessiva misura della pena detentiva inflitta al V. in applicazione del criterio moderatore stabilito dall’art. 78 c.p.. 7. - Merita, a questo punto, di essere preso in considerazione il primo motivo di ricorso con il quale il P.G. deduce che la Corte territoriale ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie di frode processuale di cui al capo D, prima ancora di riconoscere al V. la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso in esame, perché il V. agì per procurasi l’impunità del più grave delitto di omicidio in danno della P.. Secondo l’impostazione accusatoria, accolta dal giudice di primo grado, il reato previsto dagli artt. 374, comma 2 e 61 n. 2 c.p. si sarebbe sostanziato in due condotte, poste in essere dal V. subito dopo l’uccisione della P. e al fine di garantirsi l’impunità di tale delitto: l’essersi adoperato per eliminare le tracce di sangue e l’avere portato il veicolo Fiat Uno e gli effetti personali della vittima in prossimità di un canale, nell’intento di gettarli nel canale e di simulare il suicidio o la volontaria scomparsa della P. (capo D). La Corte d’assise d’appello, per contro, ha osservato che, avendo l’imputato commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore, “la non punibilità della condotta, in presenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 384 c.p., rende superfluo soffermarsi ad esaminare se la condotta dell’imputato presenti, astrattamente, gli estremi del reato previsto dall’art. 374 c.p.” e, di conseguenza, ha assolto il V. “perché non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p.”. Sono ben note le profonde divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell’applicabilità dell’esimente anche con specifico riguardo alla frode processuale, al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo (per essere questa derivata, come nel caso in esame, dalla precedente commissione di un reato da parte dello stesso soggetto), contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione dell’esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto. E però, la quaestio juris sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite, pur articolata dal ricorrente P.G. secondo la prospettazione suindicata, deve ritenersi priva di rilevanza nel caso concreto. Dalla lettura di entrambe le sentenze di merito e dell’atto di appello dell’imputato s’evince che lo stesso giorno dell’omicidio il V. venne fermato e, nel corso dell’immediata ispezione dei luoghi all’interno dello chalet ove il crimine era stato eseguito, furono immediatamente ritrovate sia l’arma del delitto, una pistola Smith & Wesson, che una carabina cal. 22 con i relativi munizionamenti, mentre della Fiat Uno, con a bordo gli indumenti personali della vittima, si riferisce soltanto, senza trarne alcuna significativa inferenza, che essa venne rinvenuta poco lontano, incidentata e posta trasversalmente su un ponte; la consulenza tecnica successivamente espletata dal R.I.S. di Parma accertava a sua volta che, quanto all’attività di ripulitura della scena del delitto emersa nell’ispezione, le tracce di sangue sul pavimento erano state eliminate “in maniera del tutto grossolana” con stracci, spazzoloni e detersivi, recanti visibili tracce di sostanze ematiche, e che a sparare era stato sicuramente il V., alla luce delle particelle di polvere da sparo trovate sulle sue mani e sui suoi indumenti. La necessaria verifica ex actis dei presupposti fattuali – pure pretesa dall’appellante, ma ingiustificatamente pretermessa dalla Corte di merito – consente pertanto di affermare, con valutazione ex ante e in concreto, che difettano ictu oculi, nella specie, i requisiti individuati, da un lato, nella significativa rilevanza della condotta di artificiosa immutazione di luoghi e cose per la ricostruzione dei fatti e per la formazione del convincimento del giudice sul relativo thema probandum e, dall’altro, nell’obiettiva idoneità delle materiali, e tuttavia ictu oculi superficiali, alterazioni del contesto probatorio a trarre in inganno i destinatari delle stesse, cioè il giudice o il perito. Non si dubita che l’astratta fattispecie del reato - di pericolo e a dolo specifico - previsto dall’art. 374, comma 2 c.p. possa astrattamente configurarsi, anche in veste di tentativo, nelle condotte d’immutazione artificiosa di luoghi, cose e persone realizzate anteriormente al procedimento penale, perfino se attuate subito dopo la commissione del reato ed anteriormente all’attività di polizia giudiziaria in relazione agli eventuali e probabili atti di ispezione (cui sono peraltro assimilabili gli accertamenti e i rilievi urgenti della polizia giudiziaria ex art. 354 c.p.p., diretti ad assicurare e conservare le tracce e le prove del reato: Cass., Sez. III, 9/7/1996, Perrotti, rv. 206678), esperimento giudiziale e perizia. In linea di fatto, tuttavia, l’evidente difetto di potenzialità ingannatoria della condotta ne esclude in radice la concreta pericolosità per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, che è costituito dalla genuinità di taluni, specifici mezzi di prova, fonti del convincimento del giudice nel processo penale, in funzione della corretta formazione delle ragioni del decidere (Cass., Sez. III, 24/1/1979, Zarrelli, rv. 141368; Sez. VI, 24/5/1985, Sampò, rv. 170698; Sez. I, 24/10/1985, Franzé, rv. 171911; Sez. VI, 6/4/1988, Pispero, rv. 180874; Sez. VI, 6/11/1998, Scialpi, rv. 213432). D’altra parte, la grossolanità dei concitati e maldestri gesti di ripulitura delle tracce, siccome compiuti dagli autori dell’omicidio, senza apprezzabili soluzioni di continuità, nel medesimo contesto spazio-temporale dell’efferato delitto di sangue, ne svela, insieme con la sostanziale contiguità degli atti, il difetto della pur necessaria alterità, perché si possa attribuire autonomo rilievo alla descritta condotta e configurare il concorso materiale dei reati di omicidio e di frode processuale. A ben vedere, infatti, oggetto dell’attività d’indagine, che giusta l’astratta figura di reato potrebbe essere fuorviata dalla cancellazione delle tracce, è invece, in concreto, la ricostruzione dell’intero contesto della vicenda criminosa, che, anche secondo il senso comune e la diffusa esperienza giudiziale, abbraccia nella sua prospettiva storico-fenomenica anche quei gesti. Considerate le esigenze d’economia processuale sottese alla previsione di cui alla lettera l) dell’art. 620 c.p.p., la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio nei confronti del Volpe relativamente al reato di frode processuale, poiché dal medesimo testo delle decisioni di merito si desume l’impossibilità di rinvenire ed utilizzare ulteriori emergenze processuali e di pervenire altrimenti, neppure sulla base di una rinnovata valutazione dei fatti da parte del giudice di rinvio, a una conclusione diversa dall’assoluzione dell’imputato con l’ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”. 8. - Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito interpretativo “se la riduzione di pena per il giudizio abbreviato debba essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata in applicazione della disciplina del cumulo materiale e, in particolare, della disposizione dell’art. 78 c.p., per la quale non può essere superato il limite di trent’anni”. Il Collegio rimettente afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione della pena per il giudizio abbreviato, risolvendosi in un'operazione puramente aritmetica di natura processuale, logicamente e temporalmente dev’essere eseguita dopo la determinazione della pena effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell'art. 78 c.p. diretta a temperare il principio del cumulo materiale delle pene, per le seguenti ragioni: - la disposizione che stabilisce il limite assoluto di anni trenta, fissato per il concorso delle pene principali, detentive e temporanee, irrogate per i delitti non è assimilabile, sotto alcun profilo, alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento materiale e soggettivo, che non sia il rilievo del dato meramente aritmetico che la somma delle pene a carico della medesima persona ecceda la misura di anni trenta; - nella fase dell’esecuzione il giudice non può che prendere in considerazione, nell’osservanza del canone d’intangibilità del giudicato, la pena concretamente inflitta al condannato e, nel caso di condanna pronunciata in esito al giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo ex art. 442 c.p.p., cui segue l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., sicché non sembra ipotizzabile una discriminata soluzione a seconda che il medesimo criterio trovi applicazione nel giudizio di cognizione piuttosto che in quello di esecuzione. Le Sezioni Unite ritengono, per contro, di riaffermare la soluzione positiva, unanimemente offerta al quesito interpretativo dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. I, 7/4/1994, Pusceddu, rv. 197840; Sez. V, 9/12/2003 n. 18368, Bajtrami, rv. 229229; Sez. I, 10/3/2004 n. 15027, Pasinelli, in Cass. pen., 2005, 2287), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano, alla stregua delle lucide osservazioni critiche dell’ordinanza di rimessione. 9. - Il giudizio abbreviato, nello schema delineato dal vigente regime di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p., si configura come procedura semplificata a definizione anticipata nell’udienza preliminare, subordinata all’opzione negoziale “sul rito”, la cui scelta da parte dell’imputato risulta favorita da una serie di incentivi premiali quale, innanzi tutto, la diminuzione di un terzo della pena per il reato ritenuto in sentenza in caso di condanna: si realizza così una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare, nel sinallagma fra beneficio premiale e disincentivazione del dibattimento, una deflazione e una migliore efficienza del sistema processuale (C. cost., n. 277 e n. 284 del 1990). Una diminuente di natura “processuale”, dunque, le cui caratteristiche (non attiene alla valutazione del fatto-reato ed alla personalità dell’imputato; non contribuisce a determinarne in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa; consiste in un abbattimento fisso e predeterminato, connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice; é applicata dopo la delibazione delle circostanze del reato e della continuazione; si sottrae ontologicamente a qualsiasi apprezzamento di valenza ex art. 69 c.p.) si presentano tuttavia strettamente collegate con effetti di sicuro rilevo dal punto di vista “sostanziale”, risolvendosi comunque in un trattamento penale di favore (Cass., Sez. Un., 21/5/1991, Volpe; Sez. Un., 6/3/1992, P.G. in proc. Piccillo; Sez. Un., 27/10/2004 n. 44711, P.G. in proc. Wajib). 10. - Con riguardo alle concrete modalità di computo della riduzione della pena nel giudizio abbreviato, oltre alla generica previsione della direttiva n. 53 della l. delega n. 81 del 1987 "che nel caso di condanna le pene previste per il reato ritenuto in sentenza siano diminuite di un terzo", si rinvengono nel sistema codicistico taluni, specifici, riferimenti testuali. Dispone l’art. 442, comma 2 c.p.p. che "in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze" è diminuita di un terzo e, nella Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito (p. 106), si legge che “questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stata effettuato il giudizio di comparazione tra le circostanze”. Secondo l’art. 187 disp. att. c.p.p., ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave "anche quando per alcuni reati si è proceduto col giudizio abbreviato", e altrettanto univoche sono sul punto le Osservazioni del Governo al Progetto preliminare del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (in Documenti giustizia, 1990, fasc. 2-3, 179): “la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la pena in concreto era quella precedente rispetto a detta riduzione”. Appare inoltre fortemente significativa la vicenda della disciplina dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Ripristinata dall’art. 30, comma 1 lett. b), l. n. 479 del 1999 l’originaria previsione codicistica dell’art. 442, comma 2 secondo periodo (travolto per eccesso di delega da C. cost., n. 176/91), per cui, per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, "alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta", il legislatore ha ritenuto necessario, da un lato, chiarire con norma di natura interpretativa che l’espressione "pena dell’ergastolo" deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e, dall’altro, laddove la pena sia ai sensi dell’art. 72 c.p. l’ergastolo con l’isolamento diurno, stabilire che "alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo" (art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001). L’esplicita formulazione letterale della disposizione mostra la chiara voluntas legis di fare propria la soluzione interpretativa, per la quale “sarebbero da applicare dapprima le disposizioni sul concorso dei reati e solo successivamente, sulla pena così risultante, andrebbe operata la diminuzione per la scelta del rito” (v., in tal senso, la Relazione ministeriale, accompagnatoria del disegno di legge di conversione del d.l. n. 341 cit.). Sempre muovendo da considerazioni conseguenti all’analisi del testo normativo, merita infine di essere sottolineato che la formula "in caso di condanna, la pena che il giudice determina … è diminuita di un terzo", impiegata nell’art. 442, comma 2 c.p.p., trova agevole riferimento, in caso di pluralità di reati, nel secondo comma del successivo art. 533 (pure richiamato dall’art. 442, comma 1), il quale testualmente recita: "se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione": scansione, questa, da cui si desume che, con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale. Simili rilievi esegetici, che si armonizzano peraltro con le intenzioni del legislatore, orientano già verso la risposta da dare al quesito interpretativo, postulando in definitiva che l’operazione riduttiva per la scelta del rito costituisca un posterius rispetto alle altre, ordinarie, operazioni di dosimetria della pena, che la legge attribuisce al giudice. 11. - Il linguaggio normativo del codice di rito si adegua perfettamente, del resto, alla grammatica delle regole stabilite dagli articoli 71 ss. c.p. per la disciplina sostanziale del concorso di reati e di pene. Il legislatore, pur avendo adottato il principio del “cumulo materiale limitato” (Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, Libro I, p. 127), considera come "pena unica per ogni effetto giuridico" (artt. 73, comma 1, e 76, comma 1), e non come mera somma aritmetica delle pene applicate per ciascun reato, la pena complessiva inflitta in virtù della concorrenza di pene detentive temporanee della stessa specie, irrogate per i singoli reati in concorso: e ciò tanto nel caso in cui più reati siano stati giudicati con unica sentenza o decreto (art. 71), quanto nel caso in cui nei confronti della stessa persona siano intervenute più condanne, pronunciate con distinti sentenze o decreti (art. 80). Il temperamento più rilevante alla regola del cumulo materiale, onde evitare che la sommatoria, nel caso di concorso di pene derivante da un concorso di reati preveduto dall’art. 73, conduca all’irrogazione di pene detentive temporanee eccessive, in pratica “a durata illimitata e quindi in via di fatto perpetua”, come l’ergastolo, rispetto alla “breve vita dell’uomo”, è dettato peraltro, per considerazioni di tipo umanitario, dall’art. 78 c.p., in ordine al quale la citata Relazione ministeriale (p. 130) parla di un doppio limite massimo: il primo, variabile e proporzionale, del quintuplo della pena più grave, come determinata in concreto, fra le pene concorrenti; il secondo, assoluto e fisso, di saturazione delle pene, per il quale la pena da applicare non può comunque eccedere trent’anni per la reclusione e sei anni per l’arresto; l’uno destinato a funzionare per le pene più brevi e i minori reati e l’altro per le più gravi pene e i maggiori reati. E’ certo, in particolare, che il limite dei trent’anni di reclusione opera uniformemente, quale che sia l’eccedenza della pena detentiva, tanto se il cumulo materiale abbia dato come risultato una pena superiore a detto limite solo di qualche anno, quanto se abbia dato come risultato una pena superiore per molti anni. Ma non sembra lecito sostenere (per inferirne – come propongono sia il P.G. ricorrente che il Collegio rimettente – la pregiudizialità della riduzione di pena per il rito abbreviato rispetto al contenimento finale della stessa) che il criterio moderatore del cumulo materiale di cui all’art. 78 c.p., siccome non inerente ai tradizionali indici del concreto disvalore del fatto-reato nelle sue componenti oggettive e della personalità del reo, resti estraneo alla disciplina “sostanziale” della commisurazione della pena. Ed invero, oltre all’effettiva incidenza che ha sulla determinazione complessiva del trattamento sanzionatorio, il suddetto criterio, essendo diretto a temperare il cumulo materiale delle pene nel caso di concorso di reati preveduto dall’art. 73 c.p. ed anche nel caso di aumento della pena base derivante dalla continuazione, costituisce pur sempre, nonostante la sua applicazione sia indifferente all’eccedenza quantitativa, espressione della finalità rieducativa della pena in relazione ad una speranza di vita futura, da libero, del condannato: l’applicazione rigida e automatica dell’addizione aritmetica delle varie pene potrebbe infatti condurre alla esorbitante condanna ad una pena complessiva superiore alla previsione di vita del condannato, frustandosi così il principio rieducativo di cui all’art. 27 Costituzione (Cass., Sez. I, 16/3/2005 n. 16461, P.M. in proc. Coraci, rv. 231580). Che la disposizione dell’art. 78 c.p., segnando il limite dell’esercizio della potestà punitiva statuale nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, appartenga legittimamente all’area delle regole di natura sostanziale del codice penale sul concorso dei reati e delle pene lo si desume altresì dalla disciplina del reato continuato. Il terzo comma dell’art. 81 c.p. pone, infatti, un limite ulteriore rispetto alla previsione del primo comma, nel senso che la pena, pure aumentata fino al triplo di quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, tuttavia "non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti", sicché devono intendersi richiamate, in funzione moderatrice dell’aumento di pena per la continuazione, tutte le disposizioni degli artt. 71 ss. c.p. sul cumulo materiale, col temperamento stabilito dall’art. 78 c.p. (Cass., Sez. I, 11/3/1981, Polelli, rv. 149476; Sez. V, 4/12/1981, Bottari, rv. 151654). Ebbene, va sottolineato in proposito che non si è mai dubitato in dottrina e in giurisprudenza (v., per tutte, Cass., Sez. I, 29/1/1993, El Bakali, rv. 195960) che l’aumento per la continuazione - determinato, come si è visto, anche in ossequio al limite quantitativo fissato ai sensi dell’art. 78 c.p. - debba precedere la riduzione finale di un terzo, che opera sulla pena determinata in concreto per tutti i reati che hanno formato oggetto del giudizio abbreviato e che abbiano dato luogo alla configurazione del reato continuato. Va infine rilevato che la soluzione alternativa condurrebbe all’inaccettabile esito della sterilizzazione del criterio derogatorio di cui all’art. 73, comma 2 c.p., secondo il quale "quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni, si applica la pena dell’ergastolo": la previa riduzione di un terzo della pena della reclusione per il rito abbreviato non consentirebbe mai, in tal caso, di raggiungere la soglia fissata dalla suddetta disposizione per l’applicazione sostitutiva dell’ergastolo. 12. - Le precedenti riflessioni sembrano dunque convergere univocamente nel senso che la riduzione di pena conseguente alla condanna nel giudizio abbreviato debba essere applicata dopo la determinazione del trattamento sanzionatorio, da effettuarsi nel rispetto dei limiti di natura sostanziale posti dalla legge penale a temperamento del principio del cumulo materiale delle pene, e perciò anche in osservanza del disposto dell’art. 78 c.p., con riferimento al limite massimo dei trent’anni di reclusione. L’opposta soluzione ermeneutica darebbe luogo, viceversa, ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando (come nella specie) l’effetto premiale della riduzione di un terzo per la scelta del rito ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale sono superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito abbreviato. Neppure può invocarsi – come argomenta invero inadeguatamente il P.G. ricorrente – che la scelta del rito abbreviato si tradurrebbe in tal modo “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”. Per un verso, proprio l’assolutezza del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., per la sua intrinseca funzione, rende irrilevanti le grandezze eccedenti da contenere e l’ampiezza degli scostamenti tra la misura dell’entità originaria e quella finale, siccome contenuta, della pena. Per altro verso, mette conto di osservare che non sussisteva alcun impedimento, nel caso in esame, per una più rigorosa dosimetria della pena, atteso che i giudici di merito, all’esito di un diverso itinerario valutativo e comparativo delle circostanze, avrebbero potuto irrogare al V., per così efferati delitti omicidiari, pene ben più severe di quelle inflitte in concreto, pervenendo comunque, pur con la diminuente del rito, alla pena della reclusione di anni trenta o dell’ergastolo, in sostituzione dell’ergastolo o rispettivamente dell’ergastolo con isolamento diurno. Di talché, ferma restando de jure condendo la potestà del legislatore di graduare la misura della riduzione di pena per il rito abbreviato secondo la diversa gravità dei delitti e delle pene applicate (con particolare riguardo ai più gravi delitti di sangue), il rilievo del ricorrente P.G. in ordine ad una pretesa spinta criminogena della soluzione avversata sembra piuttosto frutto di un estremo ma tardivo ripensamento in ordine all’inusitata mitezza del trattamento sanzionatorio applicato al V., ormai non più rimediabile in sede di legittimità in difetto di appello prima e di ricorso per cassazione poi, sul punto della “pena giusta”, da parte del rappresentante della pubblica accusa. 13. - L’opposta soluzione interpretativa, circa l’ordine della sequenza logico-temporale di applicazione delle disposizioni degli artt. 78 c.p. e 442, comma 2 c.p.p., troverebbe peraltro conferma, ad avviso del ricorrente P.G. e del Collegio rimettente, nella diversa disciplina che al fenomeno sarebbe riservato in executivis: in questa sede, se ai fini del contenimento del cumulo ai sensi dell’art. 78 c.p. non si può che prendere in considerazione la pena concretamente inflitta e pertanto, nel caso di condanna pronunciata in esito a giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo, risulta evidente che l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p. segue necessariamente la già disposta riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442, comma 2 c.p.p.. Né - si avverte - sarebbe ragionevole ipotizzare una discriminata soluzione in ordine al trattamento sanzionatorio, a seconda che il criterio moderatore operi nel giudizio di cognizione piuttosto che nella fase dell’esecuzione, considerato che la celebrazione del processo unitario e cumulativo a carico del medesimo imputato per più reati, a fronte della separazione dei procedimenti, è un evento condizionato dal concorso di circostanze meramente accidentali. Ritengono le Sezioni Unite che l’argomento critico, pur enfatizzato dall’obiettiva discrasia delle regole applicative nei distinti giudizi di cognizione e di esecuzione, non coglie tuttavia nel segno, attesa la razionalità della diversa disciplina. Ai fini dell’esecuzione di "pene concorrenti", stabilisce l’art. 663, comma 1 c.p.p., in perfetta sintonia con il disposto dell’art. 80 c.p., che "quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze o decreti penali per reati diversi, il pubblico ministero determina la pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene". Di talché, nell’assoluto difetto di previsione derogatoria nelle disposizioni del decimo libro del codice di rito, stante il canone d’intangibilità del giudicato e il carattere eccezionale della potestà del giudice dell’esecuzione, tassativamente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge, in punto di rideterminazione della pena, la diminuente del rito speciale è applicabile dal giudice della cognizione, ma non può mai essere applicata nel procedimento di esecuzione di pene concorrenti, inflitte al medesimo imputato in distinti e autonomi procedimenti (Cass., Sez. I, 11/10/1995, Tasca, rv. 203035). La ratio legis dell’art. 442, comma 2 c.p.p. è, d’altra parte, quella di garantire all’imputato “in ogni singolo processo” un vantaggio conseguente alla scelta strategica del rito alternativo in ordine a tutte le imputazioni contestate in quello specifico processo, e questo vantaggio viene assicurato in ciascuno dei processi celebrati con tale rito e conclusisi con la condanna, all’esito di ognuno dei quali si determina "la pena" applicando la relativa diminuente; quest’ultima opera, dunque, in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale, ma non può, viceversa, per alcun profilo essere duplicata in sede esecutiva, laddove si debba procedere al cumulo materiale o giuridico delle pene inflitte per più reati in distinti procedimenti, nei quali l’imputato ha di volta in volta ritenuto di attivare, o non, la scelta deflativa del rito speciale (v., al riguardo, Cass., Sez. I, 24/2/2006 n. 11108, Guidotto, rv. 233541). Trattasi dunque di disparità di moduli applicativi nelle sequenze procedurali di determinazione della pena, che trova solida e razionale base giustificativa, oltre che nell’oggettiva diversità - non di mero fatto bensì giuridica - delle situazioni processuali (processo unitario e cumulativo o pluralità di processi in tempi diversi, per più reati, contro la stessa persona; giudizio di cognizione o di esecuzione), anche e soprattutto nell’efficacia preclusiva derivante dal principio d’intangibilità del giudicato. D’altra parte, pur essendo indubbio che il limite quantitativo nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, nei termini fissati dall’art. 78 c.p., operi anche nella fase dell’esecuzione, giusta il disposto dell’art. 80 c.p., questa Corte è ripetutamente intervenuta per circoscriverne la portata e il perimetro applicativo, nel senso che l’obbligatorietà della formazione del cumulo nell’esecuzione di pene concorrenti non significa affatto che un soggetto, il quale abbia riportato più condanne a pene detentive temporanee, non possa rimanere detenuto nel corso della sua vita per un periodo eccedente quello massimo indicato in trent’anni, essendo tale limite, per evidenti esigenze di prevenzione speciale, riferibile solo alle pene inflitte per i reati commessi prima dell’inizio della detenzione (ex plurimis, v., da ultimo, Cass., Sez. I, 23/4/2004 n. 26270, Di Bella, rv. 228138; Sez. V, 11/6/2004 n. 39946, Serio, rv. 230135). 14. - A conclusione delle suesposte considerazioni ed alla stregua dell’analisi logico-sistematica della normativa va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto riguardo al quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite: “La riduzione di pena, nella misura prevista dall’art. 442, comma 2 c.p.p. in caso di condanna nel giudizio abbreviato, dev’essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta”. E, poiché occorre riconoscere che la ratio decidendi della sentenza impugnata risulta del tutto coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso del P.G., sul punto, dev’essere rigettato. Il V. va infine condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dai familiari di F. T., costituitisi parti civili, che si liquidano come in dispositivo.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del V. relativamente al delitto di frode processuale di cui al capo D) perché il fatto non sussiste, nonché nei confronti di entrambi gli imputati relativamente alle contravvenzioni di cui al capo I) perché estinte per prescrizione, eliminando la relativa pena di giorni dieci di reclusione per il G.. Rigetta nel resto i ricorsi del G. e del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano. Condanna il V. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, liquidate in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

sabato 19 gennaio 2008

CASSAZIONE SS. UU. PENALI SENTENZA N. 230/2007 SU MISURE CAUTELARI REALI, RIESAME, MODALITA' PRESENTAZIONE ISTANZA

SENTENZA N. 230 UD. 20/12/2007 - DEPOSITO DEL 07/01/2008

MISURE CAUTELARI – REALI – RIESAME – RICHIESTA – PRESENTAZIONE – MODALITA’
Le Sezioni unite, con due decisioni assunte in pari data e in continuità con quanto statuito dalla sentenza 11 maggio 1993 n. 8, Esposito, hanno affermato il principio secondo cui la richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro è validamente proposta anche con telegramma o con trasmissione dell’atto a mezzo di raccomandata alla cancelleria del tribunale competente, che si individua in quello del capoluogo di provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato

Sentenza n. 230 del 20 dicembre 2007 - depositata il 7 gennaio 2008(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Conti)
Fatto
1. Con decreto del 29 gennaio 2007, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pisa disponeva il sequestro a fini probatori dell'autovettura Mercedes tg. *****, formalmente di proprietà di C. N., ritenendo configurabile a carico di questa la ipotesi di reato di cui agli artt. 624 e 625 n. 7 c.p. in danno di G. S., che aveva dichiarato di avere acquisito la proprietà del veicolo a seguito di compravendita. Il decreto veniva notificato all'indagata, a mani proprie, in data 6 febbraio 2007. In data 16 febbraio 2007, il difensore avv. Maurizio Nucci inoltrava per posta raccomandata richiesta di riesame avverso il suddetto decreto. Il plico perveniva al Tribunale di Pisa in data 19 febbraio 2007. 2. Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Pisa, in funzione di giudice del riesame ex art. 324 c.p.p. in relazione all'art. 257 c.p.p., dichiarava inammissibile la richiesta di riesame, in quanto "presentata I/ 19/2/07, e, quindi, oltre il termine dei 10 gg. previsto dall'art. 324 c.p.p. a pena di decadenza", e condannava la N. al pagamento delle spese del procedimento. 3. Ha proposto ricorso per cassazione di persona l'indagata, che denuncia la violazione degli artt. 324 comma 1 e 583 commi 1 e 2 c.p.p., osservando che, come chiarito dalla Sezioni unite, con la sentenza in data 11 maggio 1993, ric. Esposito Mocerino, deve considerarsi applicabile alla richiesta di riesame l'art. 583 c.p.p.; e che nella specie l'atto era stato ritualmente e tempestivamente spedito il 16 febbraio 2007, nel rispetto del termine di dieci giorni decorrente dalla notificazione del provvedimento di sequestro, non rilevando, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la successiva data in cui l'atto era pervenuto nella cancelleria. La ricorrente ha chiesto conclusivamente l'annullamento dell'ordinanza impugnata. 4. La Quinta Sezione della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza resa alla Camera di consiglio del 18 settembre 2007, rilevato un contrasto di giurisprudenza circa la ritualità della proposizione a mezzo posta della richiesta di riesame in tema di provvedimenti di sequestro, ha rimesso il ricorso stesso alle Sezioni unite, a norma dell'art. 618 c.p.p. In particolare nella ordinanza si osserva che pur dopo la sentenza delle Sezioni unite in data 11 maggio 1993, ric. Esposito Nocerino, con la quale era stato affermato che la richiesta di riesame ai sensi vuoi dell'art. 309 vuoi dell'art. 324 c.p.p. poteva essere proposta anche mediante telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata, a norma dell'art. 583 c.p.p., alcune decisioni delle singole sezioni avevano mantenuto la linea interpretativa secondo cui il richiamo fatto dagli artt. 309 comma 4 e 324 comma 2 c.p.p. alle forme dell'art. 582 c.p.p., e non anche a quelle di cui all'art. 583 c.p.p., rendeva inammissibile una richiesta di riesame proposta con l'uso del mezzo postale; e che tale indirizzo dissenziente si è poi consolidato, con riguardo alle sole richieste di riesame avverso provvedimenti di sequestro, dopo che la legge 8 agosto 1995, n. 332, mentre aveva inserito nell'art. 309 comma 4 il richiamo anche alle forme dell'art. 583 c.p.p., aveva lasciato inalterato nell'art. 324 comma 2 c.p.p. il solo richiamo alle forme dell'art. 582 c.p.p. A tale restrittivo indirizzo, si osserva ancora nella ordinanza, continua però ad contrapporsi quello in linea con le indicazioni ermeneutiche segnate dalla sentenza Esposito Mocerino, la cui validità non poteva ritenersi essere intaccata dalle novità recate dalla legge n. 332 del 1995; ed è appunto su questa linea interpretativa che espressamente afferma di collocarsi il Collegio rimettente, richiamando le argomentazioni rese dalle Sezioni unite. Si è peraltro ritenuto che, perdurando e anzi precisandosi su altre basi normative il contrasto, fosse doveroso rimetterne la risoluzione alle Sezioni unite. 5. In data 18 dicembre 2007 il Procuratore della Republica presso il Tribunale di Pisa comunicava a queste Sezioni unite che, con decreto dell'8 ottobre 2007, era stato disposto il dissequestro dell'autovettura di cui al presente ricorso e la sua restituzione, quale avente diritto, a C. N., e che il giorno 9 ottobre successivo era stata data esecuzione al provvedimento. Diritto1. La questione di diritto implicata dal ricorso, a prescindere dalle particolarità della fattispecie concreta, è riassumibile nel seguente quesito: "se la richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro sia validamente proposta, ai sensi dell'art. 583 c.p.p., anche mediante telegramma o con trasmissione dell'atto a mezzo di posta raccomandata alla cancelleria del tribunale competente a norma dell'art. 324 comma 5 c.p.p.". 2. Al quesito deve essere data risposta affermativa. 3. Nella versione originaria del codice di rito, ai fini della presentazione delle richieste di riesame di misure cautelari personali o di provvedimenti di sequestro (non solo cautelari ma anche probatori), si rimandava alle "forme previste dall'articolo 582" (artt. 309 comma 4 e 324 comma 2). L'art. 582 c.p.p. disciplina, in via generale, le formalità della presentazione dell'atto di impugnazione, prevedendo, tra l'altro, che esso debba essere presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Questa ultima specificazione è però espressamente derogata per le richieste di riesame, che si presentano nella cancelleria del tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l'ufficio che ha emesso il provvedimento, se si tratta di richieste avverso provvedimenti di sequestro (art. 324 comma 5) o in quella del tribunale "distrettuale", se si tratta di richieste avverso provvedimenti di coercizione personale (art. 309 comma 7, come novellato dalla legge 8 agosto 1995, n. 332). Il mancato rinvio da parte degli artt. 309 e 324 c.p.p. all'art. 583 c.p.p., che prevede, anch'esso in via generale, che le impugnazioni possano essere proposte con telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata (comma 1), e che in tal caso l'impugnazione si considera proposta dalla data di spedizione della raccomandata o del telegramma (comma 2), aveva fatto sorgere un contrasto interpretativo nell'ambito della Corte di cassazione, con riferimento, in genere, alle richieste di riesame: in alcune decisioni si era affermato che l'esclusivo rinvio alle forme dell'art. 582 c.p.p. rendesse inammissibile la proposizione della richiesta a mezzo di telegramma o con l'invio dell'atto per posta raccomandata, dato che queste forme erano previste dall'art. 583, che però non era richiamato dagli artt. 309 e 324 c.p.p.; secondo un opposto orientamento, il rinvio esplicito all'art. 582 implicava quello, ad esso complementare, all'art. 583. 4. Le Sezioni unite, investite della risoluzione del contrasto, avevano, con la sentenza emessa alla c.c. dell'il maggio 1993, ric. Esposito Mocerino, condiviso l'orientamento estensivo, affermando che: la specificità della procedura di riesame, rispetto alla disciplina generale delle impugnazioni, attiene essenzialmente alla individuazione dell'ufficio giudiziario ove l'atto deve essere presentato (non quello che ha emesso il provvedimento impugnato ma quello competente a decidere), come aveva già puntualizzato Sez. un., c.c. 18 giugno 1991, D'Alfonso; non era decisivo il rinvio operato dagli artt. 309 comma 4 e 324 comma 2 al solo art. 582 c.p.p., sia perché questa disposizione certamente non esaurisce la disciplina sulle impugnazioni in tema di riesame, sia perché il rinvio richiamava le modalità ordinarie della "presentazione" dell'atto di impugnazione, ma non escludeva che questa potesse avvenire con le modalità complementari indicate dall'art. 583 c.p.p., che significativamente si riferisce alla "proposizione" dell'atto di impugnazione, e quindi a una modalità particolare della "presentazione" dell'atto; non vi erano ragioni, neanche attinenti alla esigenza di celerità, per le quali nella procedura di riesame la modalità di spedizione per posta dovesse essere impedita, considerato che ove l'atto sia depositato nella pretura (ora tribunale o giudice di pace) del luogo ove si trovano le parti o i difensori o davanti a un agente consolare all'estero, questi uffici devono poi provvedere a trasmetterlo, per posta, alla cancelleria del tribunale del riesame. 5. Tali argomentazioni, mentre vennero fatte proprie da Sez. c.c. 22 aprile 1994, Sabato, furono consapevolmente contrastate, isolatamente, da una precedente sentenza della medesima Sez. II (c.c. 13 ottobre 1993, ric. Ascione), secondo cui il rinvio fatto dall'art. 309 comma 4 alle forme dell'art. 582 era talmente "preciso e inequivocabile" da non poter essere integrato, a pena di un arbitrario ampliamento della sua portata, in contrasto con i criteri generali dettati dall'art. 12 delle preleggi, con quello all'art. 583, sia pure al fine di emendare, in via interpretativa, una svista del legislatore. Per il vero, anche Sez. I, c.c. 17 maggio 1994, Guerrieri, continua ad affermare che l'art. 583 c.p.p. non trova applicazione nel procedimento di riesame (nella specie, avverso un sequestro preventivo), non facendo però alcun riferimento alla citata pronuncia delle Sezioni unite. 6. Con l'art. 16 comma 2 della legge 8 agosto 1995, n. 332 venne modificato il comma 4 dell'art. 309 c.p.p., prevedendosi che per la richiesta di riesame relativa alle misure coercitive "si osservano le forme previste dagli articoli 582 e 583". L'estensione del richiamo all'art. 583 c.p.p. ha reso dunque testualmente incontrovertibile che l'atto di riesame in materia di coercizione personale possa essere inviato per telegramma o a mezzo di raccomandata. 7. In epoca successiva a tale intervento legislativo, incidente solo sull'art. 309, parte della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto tuttora validi gli approdi della citata sentenza delle Sezioni unite con riferimento anche alle richieste di riesame di provvedimenti di sequestro, essendosi osservato che non appariva interpretativamente corretto desumere dall'esplicita modifica dell'art. 309 una intenzione di segno opposto con riguardo alle richieste di riesame ex art. 324 (v. Sez. n, c.c. 20 giugno 1997, violante; Sez. v, c.c. 9 marzo 2006, Tavecchio). 8. Per contro, altra parte della giurisprudenza, che si compendia in due decisioni della Seconda sezione penale dal contenuto motivazionale identico (c.c. 16 ottobre 2003, Ferrigno; c.c. 31 ottobre 2003, De Gemini), basandosi esclusivamente sulla considerazione che la novella del 1995 non è intervenuta anche sul comma 2 dell'art. 324 c.p.p. - il quale, relativamente alle richieste di riesame di provvedimenti di sequestro, continua a mantenere il solo rinvio alle "forme previste dall'art. 582" -, ha ritenuto di individuare una intenzione differenziatrice del legislatore, razionalmente giustificabile sulla base delle diversità degli interessi in gioco e delle relative procedure, diretta a escludere l'ammissibilità della formalità della spedizione per telegramma o con posta raccomandata dell'atto di riesame dei provvedimenti di sequestro, a differenza di quanto stabilito per il riesame dei provvedimenti applicativi di misure personali coercitive. Questa linea interpretativa non è condivisibile. 9. Occorre partire dalla considerazione che con la giurisprudenza da ultimo richiamata non si contesta l'esattezza degli argomenti esposti nella sentenza delle Sezioni unite Esposito Mocerino, ma, come detto, si trae esclusivamente dalla novità normativa costituita dalla modifica dell'art. 309 comma 4 c.p.p. ad opera della legge n. 332 del 1995 la conseguenza che, non essendo il legislatore intervenuto parallelamente anche sull'art. 324, sì sia inteso escludere, per le sole richieste di riesame avverso provvedimenti di sequestro, l'ammissibilità della proposizione della richiesta a mezzo di telegramma o di plico raccomandato, ex art. 583 c.p.p. 10. Trattandosi di individuare l'intenzione del legislatore, in un contesto interessato da contrasti giurisprudenziali e, insieme, da una produzione legislativa a un tempo caotica e frenetica, sarebbe inappagante fondarsi sul mero rilievo per cui nell'art. 309 la legge "disse" e nell'art. 324 "tacque", in applicazione di un'antica regola interpretativa che è adeguata a epoche di legislazione ideale. 10.1. Occorre dunque contestualizzare il senso di quell'intervento, se possibile facendo riferimento, in primo luogo, ai lavori preparatori e, più precisamente, all'intenzione espressa dal legislatore. Ora, va ricordato che/nel corso dei lavori della Commissione Giustizia della Camera, venne rilevato (seduta del 13 dicembre 1994, on. Marino) che la modifica del comma 4 dell'art. 309 era opportuna in presenza di un contrasto giurisprudenziale sulla proponibilità della richiesta di riesame (in genere) con le modalità dell'art. 583 c.p.p.; contrasto che all'epoca era ancora non risolto, posto che, come prima precisato, alla sentenza delle Sezioni unite non si era del tutto adeguata la giurisprudenza delle singole sezioni, tanto che la riferita sentenza pronunciata su ricorso Ascione aveva argomentatamente dichiarato di dissentirvi e a questa si era affiancata altra decisione (la citata sentenza su ricorso Guerrieri), pur se con apparente non consapevolezza della divergenza dal dictum delle Sezioni unite. Inoltre, non traspare alcuna indicazione dai lavori preparatori nel senso che vi fosse una concorrente volontà di differenziare, quanto a forme di presentazione, l'una e l'altra richiesta di riesame; tanto più, è il caso di rilevare, che l'intervento del legislatore del 1995 aveva come principale obiettivo quello di una rivisitazione della disciplina in materia di misure cautelari personali, sicché è ben immaginabile che fosse fuori della attenzione riformatrice la materia del riesame avverso provvedimenti di natura "reale". 10.2. In secondo luogo, va accertato se, oggettivamente, una differenziazione quanto a modalità di proposizione delle richieste di riesame in materia personale e reale possa essere razionalmente giustificata in base alle caratteristiche dei due rimedi. Nella citata sentenza della Sez. II, ric. Ferrigno, che costituisce il modello dell'altra decisione che ne riproduce la motivazione, e che sostiene la non casualità della differenziata previsione normativa, si evidenziano le ragioni di una simile diversità di disciplina: 1. In materia di libertà personale può giustificarsi un peculiare favore per una maggiore gamma di forme di esercizio del diritto di impugnazione; 2. Il luogo, le cadenze e gli effetti dei due procedimenti di riesame sono non poco differenti; 3. Il ricorso per cassazione ha un ambito diverso a seconda che si verta in materia personale o reale. Ora, quanto al primo punto, va osservato che non si coglie alcuna ragione per escludere per le sole richieste di riesame in materia "reale" forme di presentazione che sono comuni indistintamente a ogni altra impugnazione penale, in base alla disciplina generale, applicabile alle più varie materie, che non distingue affatto tra natura degli interessi in gioco; quanto al secondo, che è irrilevante una diversità di effetti, di cadenze e di luogo di presentazione tra le due procedure, se non si colleghi razionalmente tale indiscutibile dato alla esigenza o anche solo alla opportunità di una diversità di forme di presentazione (ora più variegate, ora meno), esigenza che non solo non è stata messa in luce dalla giurisprudenza di cui si discute, né mai dalla dottrina, ma che non è nemmeno oggettivamente ipotizzabile; quanto al terzo, che la limitazione del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 325 comma 1 c.p.p., al solo caso della "violazione di legge", a differenza di quanto previsto dall'art. 311 c.p.p., non ha evidentemente nulla a che vedere, sia dal punto di vista normativo sia da quello logico, con la disciplina delle formalità di proposizione della precedente impugnazione. L'unico dato di rilievo che potrebbe essere evocabile con riferimento al thema decidendum, in quanto potenzialmente interferente proprio con le modalità di presentazione della richiesta di riesame, è quello della oggettiva maggiore urgenza della decisione in materia di libertà personale, tenuto conto dei valori implicati. Ma proprio questo aspetto avrebbe potuto semmai far propendere il legislatore a escludere dalla materia regolata dall'art. 309 c.p.p., e non da quella dell'art. 324, forme di proposizione della richiesta meno affidabili circa la celerità della loro definizione. Scelta che invece non è stata adottata, non solo perché in via interpretativa ciò doveva ab origine essere ritenuto, stando alle puntuali osservazioni della citata sentenza delle Sezioni unite Esposito Mocerino, ma perché positivamente esclusa dalla ricordata novellazione dell'art. 309 comma 4 c.p.p. ad opera della legge n. 332 del 1995. 10.3. In terzo luogo, anche ove mai sussistessero dubbi interpretativi, occorrerebbe privilegiare il favor impugnationis (v. per il principio, tra le altre, Sez. un., c.c. 31 ottobre 2001, Bonaventura), tanto più che nel senso dell'ammissibilità del ricorso al mezzo postale ai fini della proposizione di atti di impugnazione si indirizzano esigenze di effettività della tutela giurisdizionale che attraversano le più diverse forme di contenzioso, come testimoniato anche dalla giurisprudenza costituzionale (v. sent. n. 98 del 2004, in tema di opposizione a ordinanza-ingiunzione; sent. n. 520 del 2002, in tema di ricorso alla commissione tributaria). Una limitazione delle modalità di presentazione della richiesta di riesame per i soli provvedimenti di sequestro parrebbe anzi sacrificare irragionevolmente le esigenze di tutela giurisdizionale, sol che si consideri che tale genere di provvedimenti sono idonei a incidere sulla posizione soggettiva non solo della persona sottosta a indagini ma anche di quella di ogni altro interessato (v. art. 324 comma 1 c.p.p.). 11. Va dunque affermato il seguente principio di diritto: "La richiesta di riesame del provvedimento che dispone o convalida un sequestro è validamente proposta, ai sensi dell'art. 583 c.p.p., anche con telegramma o con trasmissione dell'atto a mezzo di raccomandata alla cancelleria del tribunale competente a norma dell'art. 324 comma 5 c.p.p.". 12. Occorre peraltro considerare che, come sopra precisato, successivamente alla proposizione del ricorso, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pisa ha disposto la restituzione all'indagata dell'autovettura in sequestro. Tale provvedimento priva dunque di interesse concreto la impugnazione, con la conseguenza che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse

CASS SEZ III^ PEN N. 346_2006 : SESSO VIRTUALE E SFRUTTAMENTO DELLA PROSTITUZIONE

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE III PENALE
Sentenza 21 marzo 2006 - 3 maggio 2006, n. 346

MOTIVAZIONE
Nel corso delle indagini avviate dalla Polizia Postale di Udine ai fini di prevenzione e repressione di reati commessi tramite web, emerse che era coinvolto in un giro di rapporti che rendevano possibile intrattenere via web.chat conversazioni con delle giovani che, a richiesta dell'interlocutore, si esibivano in atteggiamenti sessualmente espliciti e verso un corrispettivo rappresentato dal costo della chiamata. Pertanto, con decreto in data 18.11.2005 il PM presso il Tribunale di Udine dispose, nei confronti del predetto T. e in relazione ai reati di cui agli artt.81 capv-UO cp e 3 co.l n.8 1.75/58, perquisizione locale ed eventuale sequestro, in forza del quale venne sequestrato vario materiale informatico dettagliatamente descritto nel relativo verbale.
Avverso tale provvedimento l'indagato propose istanza di riesame, eccependo, tra l'altro, l'insussistenza del fumus del reato ipotizzato. Il Tribunale di Udine, in accoglimento dell'istanza di riesame, con ordinanza del 23.12.2005 revocò il sequestro, non ravvisando il fumus del menzionato reato, dal momento che il concetto di prostituzione, non espressamente definito dal legislatore, dovrebbe necessariamente collegarsi a un rapporto sessuale reale e non virtuale; si sosteneva che "non pare si possa estendere la nozione di prostituzione sino a comprendervi le esibizioni delle ragazze", in quanto certamente "non ogni esibizione del proprio corpo a fini sessuali e dietro corrispettivo può essere considerata prostituzione". Il Tribunale citava le sentenze di segno contrario di questa Corte, dalle quali tuttavia apertis verbis dichiarava di dissentire.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal PM presso quel Tribunale, il quale, richiamando in termini le citate decisioni di questa Corte, deduce che "l'ubi consistam dell'attività di meretricio deve ravvisarsi non certo nel semplice compimento di un atto sessuale verso corrispettivo finalizzato al soddisfacimento dell'altrui istinto di concupiscenza, ma bensì in un atto di disposizione e commercio del proprio corpo, tale per cui il compimento della prestazione divenga oggetto di un rapporto sinallagmatico tra il singolo cliente e la singola prostituta, la quale si presti al compimento di atti sessuali determinati, assecondando la specifica richiesta del cliente per soddisfarne l'istinto sessuale".
Il ricorso è fondato. La questione, come puntualizzato anche nell'ordinanza impugnata, consiste nel verificare se la condotta posta in essere dalle ragazze che si esibiscono, con le modalità sopra precisate, in atti a carattere esplicitamente sessuale e le cui performances sono cedute a pagamento per via telematica, possa qualificarsi come prostituzione. Questa Corte ha costantemente precisato che la nozione di prostituzione, anche se non definita legislativamente, corrisponde a un tipo normativo, che è stato delineato dalla giurisprudenza e non può, perciò, essere individuata in base a criteri di valutazione meramente sociali o culturali. In tale ottica è stato ripetutamente affermato che l'elemento caratterizzante l'atto di prostituzione non è necessariamente costituito dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e risulti finalizzato, in via diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o che è destinatario della prestazione (interpretazione ormai consolidata di questa Corte regolatrice, sez.III, 22.4.2004 n.534, Marinone; 22.4.2004, Verzetti; 3.6.2004 n.737, Bongi). In effetti, l'aspetto che prima di ogni altro lede la dignità della prostituta è quello per cui ella mette il proprio corpo alla mercè del cliente, disponendone secondo la volontà dello stesso. Alla stregua di tali criteri, non può revocarsi in dubbio che l'attività di chi si prostituisce può consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di chi, pagando un compenso, ha chiesto una determinata prestazione al fine di soddisfare la propria libidine, senza che avvenga alcun contatto fisico tra le parti. Tale nozione è conforme allo spirito della 1.75/58 che -nel sanzionare penalmente i comportamenti diretti alla induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione e gli altri descritti dalla norma- rende chiaro, in relazione alla gravità delle pene previste per tali fatti, il disvalore sociale attribuito, secondo il comune sentire, ad atti che implicano l'uso strumentale della propria sessualità per riceverne un corrispettivo. Non può, pertanto, essere ritenuto determinante, ai fini della configurabilità dell'atto di prostituzione, l'elemento del contatto fisico tra il soggetto che si prostituisce e il fruitore della prestazione, mentre lo è quello della interazione tra l'operatrice e il cliente, che sussiste nella fattispecie in esame. Ed invero, precisata nel senso indicato la nozione di prostituzione -ovviamente legata per la sua rilevanza penale all'esistenza di condotte vietate dalla 1.75/58- è irrilevante il fatto che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, allorché gli stessi risultino, come appunto nel caso in esame, collegati, tramite internet, in videoconferenza, che consente all'utente della prestazione, non diversamente da quanto si verifica nell'ipotesi di contemporanea presenza nello stesso luogo, di interagire con chi si prostituisce, in modo da poter chiedere a questo il compimento di atti sessuali determinati, che vengono effettivamente eseguiti e immediatamente percepiti da colui che chiede la prestazione sessuale a pagamento.
Peraltro, l'elemento della interazione -che consente di distinguere tra prostituzione, anche se virtuale o a distanza, e mera esibizione del proprio corpo- chiaramente non è ravvisabile in riferimento alle ipotesi similari (o ritenute tali) -elencate nell'ordinanza impugnata a dimostrazione della paventata eccessiva dilatazione della nozione di prostituzione che conseguirebbe a quella qui accolta- quali il rapporto tra fruitore e attrice di film ovvero riviste a contenuto pornografico; il rapporto tra lap dancers e clienti dei locali ove le stesse si esibiscono (salve, beninteso, la riconducibilità al concetto di prostituzione di quelle attività ulteriori rispetto alla semplice esibizione, in relazione alle quali il cliente cessi di porsi come mero spettatore passivo).
L'assunto del Tribunale da un lato non è sorretto da un convincente apparato argomentativo, perché fondato in sostanza in riferimento alle dette ipotesi pacificamente non integranti il meretricio (e che, trascurando l'elemento distintivo della interazione, si sostiene assimilabili a quella in esame); e dall'altro, condurrebbe all'assurdo di espungere dalla nozione di prostituzione anche quei casi -notoriamente non infrequenti- in cui la prostituta, per assecondare desideri particolari del paziente, compia, alla presenza dello stesso e dietro sua specifica richiesta, atti sessuali su se stessa o su altra donna, senza che intervenga contatto fisico alcuno con il cliente stesso. La valutazione del giudice del riesame non è, pertanto, conforme alla corretta interpretazione della 1.75/58, nella parte in cui esclude che le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza con il fruitore della stessa tramite internet -in modo da consentire a quest'ultimo di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, chiedendogli il compimento di determinati atti sessuali-assuma il valore di atto di prostituzione e possano configurarsi i reati oggetto di indagine a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet, o ne abbiano tratto un guadagno. L'ordinanza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, nella conseguente valutazione, si uniformerà ex art.627 co.3 cpp ai principio di diritto qui affermato.
P.Q.M.
La Corte annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Udine.
Così deliberato il 21.3.2006.
Depositata in cancelleria il 3 maggio 2006.
IL CONSIGLIERE EST.
IL PRESIDENTE

CASSAZIONE PENALE SEZ IV N 871_2007 LA COLTIVAZIONE DI CANAPA INDIANA E' REATO DI PERICOLO

Cassazione Penale, Sezione IV Penale, Sentenza 28 novembre 2007 (dep. 10 gennaio 2008), n. 871
La coltivazione di canapa indiana è reato di pericolo e va sanzionata indipendentemente dall'ampiezza del numero di piante contenenti sostanze tossiche.
Presidente Campanato – Relatore Licari

Pm Iannelli – difforme – Ricorrente C.

Osserva

La Corte di Appello di Messina, investita dell'impugnazione proposta dall'imputata C. A. L. contro la sentenza con la quale era stata dichiarata colpevole del reato di coltivazione di n. 8 piantine di canapa indiana e condannata, ritenute l'ipotesi del fatto di lieve entità e le attenuanti generiche, alla pena ritenuta di giustizia, decideva di confermare quella resa in primo grado.Avverso tale sentenza l'imputata, per mezzo del difensore, proponeva ricorso per cassazione, adducendo erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990 con riferimento alla ritenuta rilevanza penale della condotta contestata di coltivazione domestica di un esiguo numero di piantine di canapa indiana, tuttavia destinata al consumo personale. Trattasi di motivo infondato.Preliminarmente, deve essere puntualizzato che la coltivazione riguardava, come accertato dai giudici di merito, n. 8 piantine della specie cannabis indica, piantate in aiuola presente nel balcone della casa di abitazione dell'imputata, il cui accertato principio attivo (il tetraidrocannabinolo), inserito nella tabella 2, allegata al D.P.R. n. 309/1990, avrebbe consentito di ricavare un numero di dosi compreso tra 28 e 43.In ordine alla contestata rilevanza penale della condotta addebitata, va osservato che, ai fini della ricostruzione della condotta medesima, occorre fare riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, che fissa il divieto di coltivazione nel territorio dello Stato di piante di coca di qualsiasi specie, di piante di canapa indiana, di funghi allucinogeni e della specie di papavero (papaver somniferum) da cui si ricava oppio grezzo (comma 1, prima parte), nonché la possibilità di introdurre nell'elenco da parte del Ministero della Sanità (ora Salute) di altre piante da cui possano ricavarsi sostanze stupefacenti o psicotrope la cui coltivazione deve essere vietata (comma 2, seconda parte).L'art. 73 previgente del decreto citato, ma applicabile alla fattispecie, e il cui contenuto non è stato modificato con la L. n. 49 del 2006, comma 3, prevede poi espressamente tra le attività illecite, punibili penalmente, la coltivazione delle suddette piante, tra cui quindi la canapa indiana, precisandosi peraltro che già la L. n. 685 del 1975, art. 26 disponeva la illiceità della coltivazione della canapa indiana, e che problemi interpretativi erano sorti - prima della più chiara ed ampia dizione dell'art. 26 e art. 73, comma 3, citato - solo per la punibilità degli altri tipi di coltivazione.
La giurisprudenza costante - pur con alcune perplessità della dottrina - ha costantemente ritenuto che la coltivazione non autorizzata di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope, costituisce un reato di pericolo presunto o astratto, essendo punito ex se il fatto della coltivazione, senza che per l'integrazione del reato sia necessario individuare l'effettivo grado di tossicità della pianta e senza che occorra fare riferimento alcuno alla sostanza stupefacente che da essa si può trarre e che può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua crescita, al suo sviluppo ed alla sua maturazione: la figura criminosa è costruita, infatti, come reato di pericolo, la cui sussistenza va, quindi, affermata ogni qualvolta venga coltivata anche una sola piantina vitale ed idonea a produrre sostanza stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, indipendentemente dalla percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze e nelle foglie (Cass. 15.11.2005, D'Ambrosio; Cass. 11.3.1998, Pesce ed altro; Cass. 7.11.1996, Garcea; Cass. 18.6.1993, Gagliardi).Inoltre, come esattamente affermato nella inedita sentenza "Garcea", alla valutazione che, trattandosi di reato di pericolo, la coltivazione di canapa indiana va sanzionata indipendentemente dall'ampiezza del numero di piante contenenti sostanze tossiche (contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti), va aggiunta l'altra considerazione che il reato di pericolo tiene conto di fattori inerenti alla realizzazione dell'attività criminosa che prescindono anche dalle aspettative del suo autore. In particolare, nella coltivazione di piante di canapa indiana, l'idoneità a produrre sostanze droganti dipende anche da fattori causali di tempo e di luogo della piantagione.Come poi ineccepibilmente ritenuto, in fattispecie analoga, relativamente alla coltivazione di n. 4 piantine di canapa indiana, "la parziale abrogazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 72 e art. 75, comma 1, operata dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, che ha dato attuazione al risultato positivo della consultazione referendaria, ha reso penalmente lecita la detenzione, l'importazione e l'acquisto di sostanze stupefacenti, che sono le sole condotte tassativamente previste dall'art. 75 citato, con conseguente impossibilità di estendere tale liceità anche alla coltivazione delle droghe, assolutamente vietata nel territorio dello Stato senza che possa assumere valore scriminante l'uso personale della sostanza prodotta; il differente trattamento di tali ipotesi deriva dalla maggior pericolosità ed offensività insita nell'essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione attività rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute ed incolumità" (Cass. 30.5.2000 n. 4928; conformi Cass. n. 913/1995; Cass. 3353/1994).Ne deriva che, nella specie, le analisi interpretative dei giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, sono condivisibili, rispettano il dettato normativo e sono conformi all'indirizzo giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale, in buona sintesi, l'attività di coltivazione, in base al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4 bis, comma 1, di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 , è vietata e sanzionata penalmente, anche qualora la finalità dell'agente sia di destinare il prodotto della coltivazione a consumo personale.Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali



CASSAZIONE PENALE SEZ V^ N 1766_2007 SU ART 615-BIS C.P.

Cassazione sez v^ penale Sentenza 28 novembre 2007 (dep. 14 gennaio 2008), n. 1766

Non è reato filmare i rapporti sessuali con il partner a sua insaputa (purché non siano mostrate a terzi) (su contestazione del reato di cui all'art. 615-bis c.p.)

Fatto e diritto
La Corte di Roma ha confermato la condanna a m. 4 di reclusione con generiche e benefici, distru-zione di videocassetta in sequestro, e risarcimento del danno alla parte civile inflitta dal Tribunale a X.Y. per il delitto di cui all’articolo 615 bis CP, perché fra giugno ed ottobre 2000, mediante strumenti di ripresa visiva si procurava indebitamente immagini della vita intima e privata di Z.W. È incontestato che X.Y. abbia filmato in casa propria rapporti intimi tra lui stesso e la persona offe-sa all’epoca sua convivente, in una cassetta che ha appeso a maniglia della porta di casa di lei, con il biglietto: «È il mio ultimo pensiero per te. Addio, X». La Corte ha rilevato che la Z.W., pur sapendo della ripresa delle immagini che erano proiettate in tempo reale da apparecchiatura predisposta su una parete, non era stata informata del fatto che sa-rebbero state registrate. Ed ha ritenuto, con riferimento a giurisprudenza (Cass., Sez. VI, 5934/81, Semitaio, relativa a registrazione sonora, e di Sez. V, n. 18058/03, Cirà) il fatto punibile ai sensi dell’art. 615 bis CP. Ha escluso la prova del consenso della persona offesa anche in termini di dub-bio, perché la sua inconsapevolezza è dimostrata da un colloquio registrato in audiocassetta. II ricorso denuncia: violazione di legge - vizio di motivazione, perché l’imputato doveva essere assolto con la formula «il fatto non costituisce reato». Afferma che «non possono essere considerate interferenze illecite le attività svolte consensualmente e scientemente da due soggetti, come nel caso di specie, anche se registrate da uno dei due con l’ausilio di una videocamera, perché rimangono comunque nel ristretto ambito degli stessi partecipanti alle attività riprese». Ed aggiunge che non è il tipo di attività che il legislatore intende punire, bensì le modalità con cui si carpiscono notizie attinenti la vita privata di ciascuno. E fa riferimento a giurisprudenza successiva a quella citata che sarebbe di diverso segno (Cass., Sez. V, 39827/06; 16189/04 e 18058/03, Sez. I, 25666/03). Osserva infine che lascia perplessi il comportamento dell’offesa che, se veramente avesse voluto evitare interferenze illecite nella sua vita privata, essendo la sola destinataria della cassetta, l’avrebbe distrutta e non resa pubblica tramite il processo. Il ricorso è fondato. L’articolo 615 bis CP punisce le «interferenze illecite nella vita privata». Il 1° co. prevede ipotesi di pericolo anticipato, ravvisabile nella condotta dell’estraneo che si procuri, con strumenti di ripresa visiva o sonora, notizie o immagini di qualsiasi vicenda si verifichi in un luogo di privata dimora (ai sensi dell’articolo 614 CP), perciò offendendo indiscriminatamente la riservatezza di chiunque sia intraneo, seppure non coinvolto direttamente dalla notizia o dall’immagine ripresa. Il 2° co. concerne di più la rivelazione o la diffusione, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, delle stesse notizie o immagini come sopra procurate, affermando espressamente la sussidiarietà del reato. La norma difatti è connessa, per lettera, ratio e sistema (vedi collocazione e rinvio), alla riservatez-za assicurata in sé dal luogo privato, come incontroverso in giurisprudenza. Difatti la sentenza di questa Corte, Semitaio, citata in quella impugnata, afferma che «la norma (dell’art. 615 bis CP) tende a tutelare la riservatezza della vita individuale contro le interferenze illecite nella vicenda privata di ognuno, ma sempre che tali interferenze provengano da terzi, rimasti estranei alla conversazione, oggetto di registrazione». Dunque pone l’accento sull’impossibilità di rilevare interferenza nella propria vita privata della persona ammessa a farvi parte, sia pur estemporaneamente, in condizione di reciprocità. L’altra sentenza citata di questa Corte (P.G. in proc. Cirà) puntualizza proprio la relazione tra luogo e vita privata, affermando «legittimata a proporre querela contro estranei anche una persona non ripresa, ma partecipe della vita privata nella stessa dimora» nel caso il marito di una signora abusi-vamente fotografata. Ne segue che il convivente, pure non direttamente coinvolto dalla ripresa, può ritenersi personalmente offeso da chi, estraneo al luogo, si sia procurato immagini della vita privata di altri che ivi si svolga. Ed è anche irrilevante che poi la convivenza tra lui e la persona ripresa sia cessata. Per contro non si vede come attribuirgli il reato per la ripresa di immagini che concernono anche la sua persona nell’ambiente ad entrambi riservato. Va infine osservata l’assoluta irrilevanza dell’oggetto delle riprese. Ai sensi dell’articolo 615 bis CP, il concetto di “vita privata” si riferisce a qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riservato. Pertanto, le immagini o le notizie che l’agente si procura possono consistere sia in comportamenti che fuori di ambiente privato sarebbero ritenuti offensivi del pudore, che altri ivi consentiti. Insomma, come icasticamente rappresenta il ricorso, è vita privata il sorseggiare un caffè in compa-gnia in casa propria, non meno che avervi rapporti sessuali. E tanto dimostra l’intento del legislatore di tutela della riservatezza, a fronte dei non rari abusi di taluni organi di comunicazione a mezzo stampa o etere, per profittare della curiosità degli utenti su quanto talune persone fanno riservatamente. Orbene, alla luce di questa premessa di diritto, poiché la sentenza ricostruisce in fatto che le vicende sono state registrate all’epoca in cui l’imputato che ha operato le riprese e la persona coinvolta con-vivevano, e che le immagini di cui la prima disponeva non risultano diffuse, ma solo rimesse all’altra, non si ravvisano estremi di reato. E tanto rende necessario decidere ai sensi dell’art. 129 CPP.
PQM
annulla senza rinvio l’impugnata sentenza, perché il fatto non sussiste. Così deciso in Roma il 28 novembre 2007 Depositato in data 14 gennaio 2008

CASSAZIONE SEZ I^ PEN N 470011/2007 INGIUSTA DETENZIONE O FUNGIBILITA' - NON CUMULABILITA'

CORTE DI CASSAZIONE SEZ. I^ PENALE SENTENZA 47001/2007
Sentenza 5 dicembre 2007 (dep. 18 dicembre 2007), n. 470011

Riparazione per ingiusta detenzione o fungibilità: i due benefici non sono cumulabili
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CHIEFFI Severo - Presidente Dott. SANTACROCE Giorgio - Consigliere Dott. CORRADINI Grazia - Consigliere Dott. CAVALLO Aldo - Consigliere Dott. PIRACCINI Paola - Consigliere ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da G.V.D., nato il ..., avverso l’ordinanza del 30/03/2007 della Corte d’Assise d’Appello di Palermo; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott.ssa Grazia Corradini; lette le conclusioni del P.G. Dr. O. Cedrangolo, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

OSSERVA
Con ordinanza in data 30 marzo 2007, per quanto ancora interessa, la Corte di Assise di Appello di Palermo, quale giudice dell'esecuzione, ha rigettato la richiesta di G.V.D. di dichiarare fungibile, a norma dell'art. 657 c.p.p., la custodia cautelare sofferta senza titolo dal 1.12.1998 al 1.5.1999 per il reato associativo per cui era stato assolto con sentenza del Tribunale di Agrigento 24.3.1999, confermata in appello e divenuta irrevocabile il 30.10.2001, ai fini della determinazione della pena detentiva da espiare in virtù della sentenza 28.10.2000 con cui aveva riportato condanna alla pena di trenta anni di reclusione per i reati di omicidio ed altro commessi il 29.8.1989. Il giudice dell'esecuzione ha rilevato che, per la custodia cautelare sofferta in carcere dal 1.12.1998 al 1.5.1999, la Corte di Appello di Palermo aveva riconosciuto al G., con ordinanza in data 4.5.2004, il diritto ad un'equa riparazione, per cui, ai sensi dell'art. 314 c.p.p., comma 4, lo stesso periodo detentivo non poteva essere computato anche in detrazione della pena da eseguire. Ha proposto ricorso per cassazione la difesa del G. lamentando violazione dell'art. 314 c.p.p., comma 4, poichè, in caso di sovrapposizione fra richiesta di riparazione per ingiusta detenzione e fungibilità della pena con altra condanna, era la equa riparazione a dovere essere esclusa, spettando poi eventualmente agli organi amministrativi avviare l'eventuale procedimento di revoca della determinazione assunta in merito alla ingiusta detenzione ed al relativo risarcimento del danno già ottenuto dall'interessato. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione di diritto oggetto del presente ricorso è già stata più volte esaminata anche da questa Sezione e risolta con decisioni che potrebbero, all'apparenza, integrare un contrasto giurisprudenziale. A fronte di un orientamento maggioritario per cui, una volta accordato il ristoro economico, non si può in seguito ottenere lo scomputo a titolo di fungibilità della pena, essendo ciò speculare al diniego di ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, a norma dell'art. 314 c.p.p., comma 4, una volta che la stessa parte di custodia cautelare senza titolo sia stata scomputata ai fini della determinazione di altra pena, trattandosi di rimedi alternativi per cui è rimessa all'interessato la facoltà di scegliere quello del quale avvalersi, e ciò anche al fine di evitare l'ingiustificata disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbe fra chi, avendo ottenuto la fungibilità, non potrebbe ottenere la riparazione e chi, invece, avendo ottenuto la riparazione, avrebbe diritto anche alla fungibilità (v. Cass. n. 18966 del 2004, rv. 227968; Cass. n. 10366 del 2004, rv. 227229; Cass. n. 13322 del 2001, rv. 221377), un secondo orientamento ritiene invece che solo il beneficio della fungibilità (con conseguente inapplicabilità del diverso beneficio di cui all'art. 314 c.p.p.) sia irrevocabile e non anche quello della riparazione della ingiusta riparazione (v. Cass. n. 358 del 2004, rv. 230723). Tale secondo orientamento prende le mosse dall'esegesi della opzione fra i due istituti in esame e, dopo avere rilevato che non si tratta di opzioni omogenee, poichè la fungibilità è affidata ai poteri d'ufficio dell'organo dell'esecuzione, al contrario della riparazione che presuppone necessariamente la istanza della parte interessata e comunque non sempre sono esercitabili contemporaneamente, per concludere che l'art. 314 c.p.p., comma 4 disciplina la ipotesi in cui al soggetto sia stata applicata la fungibilità della pena, con conseguente esclusione della riparazione per ingiusta detenzione, ma non anche la ipotesi inversa in cui il soggetto, dopo avere chiesto ed ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, intenda poi avvalersi della fungibilità. In tal caso, secondo tale orientamento, sarebbe consentito all'interessato ottenere la applicazione della fungibilià, pur dopo avere usufruito della riparazione per ingiusta detenzione, mentre lo Stato potrebbe agire con l'azione di indebito arricchimento per ottenere la restituzione di quanto versato per ingiusta detenzione. La questione è stata portata anche davanti alla Corte Costituzionale "nella parte in cui gli artt. 314 e 315 c.p.p. non prevedono che la Corte d'Appello, ove risulti che il soggetto che ha proposto istanza ai sensi dell'art. 314 c.p.p. è stato condannato con sentenza non ancora definitiva ad una pena di durata inferiore a quella della custodia cautelare sofferta ingiustamente, debba sospendere il procedimento in attesa che venga definito quello nell'ambito del quale è stata pronunciata la sentenza di condanna (ovvero nella parte in cui non prevedono quantomeno che l'interessato sia obbligato a restituire allo Stato l'indennizzo ricevuto qualora ottenga successivamente il computo della custodia cautelare ingiustamente sofferta ai fini della determinazione della pena da eseguire)". La Corte Costituzionale, con ordinanza 10 maggio 2002 n. 191 ha poi dichiarata manifestamente inammissibile la questione, ma soltanto per il carattere alternativo con il quale era stata proposta, pur dando atto che nella giurisprudenza costituzionale l'ordine dei problemi prospettati dal remittente non era del tutto ignoto, poichè nella sentenza n. 248 del 1992, a seguito di una ricognizione della giurisprudenza di legittimità, non era stata esclusa nè la possibilità di sospendere il procedimento per ingiusta detenzione nè quella di applicare, nel caso di sopravvenuta sentenza irrevocabile di condanna quando l'indennizzo sia già stato concesso, la disciplina civilistica della ripetizione dell'indebito. La questione, sotto il limitato profilo che è stato portato davanti alla Corte Costituzionale e che è stato poi ripreso dalla sentenza di questa Corte n. 358 del 2004 (sia pure sotto il diverso aspetto della azione di ingiustificato arricchimento, che appare comunquem meno appropriata della condictio indebiti sine causa) può in effetti presentare delle perplessità che possono fare ritenere prospettabile anche il rimedio della condictio indebiti qualora, pur prospettandosi, in astratto, in contemporanea, le due opzioni, in concreto non potesse parlarsi di vere e proprie opzioni in quanto, al momento in cui era stata promossa la azione per ingiusta detenzione, non era ancora venuto a maturazione il titolo su cui applicare la fungibilità, per cui l'interessato non aveva "scelto" bensì aveva attivato l'unico rimedio in quel momento attivabile (in assenza dell'esercizio, da parte del giudice, del potere di sospendere il procedimento per ingiusta detenzione in attesa del passaggio in giudicato della sentenza di condanna cui poterebbe applicarsi la fungibilità) e solo successivamente si ponga quindi il problema della fungibilità che in precedenza il condannato non aveva avuto la possibilità di chiedere in concreto. Nel diverso caso in cui invece l'interessato, per potendo attivare in contemporanea l'una o l'altra opzione, entrambe già proponibili, abbia per propria scelta chiesto ed ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, appare invece inaccettabile che possa poi chiedere, immediatamente dopo, ed ottenere, anche l’applicazione della fungibilità, lasciando allo Stato la possibilità di esperire la condictio indebiti per essere venuta meno la causa del rapporto, originariamente esistente, in conseguenza della sua richiesta di cumulare i benefici. Si richiede infatti in tal caso la esistenza di un evento successivo che ha messo nel nulla il rapporto, ma tale non può essere il ripensamento dell'interessato o meglio la locupletazione da parte dell'interessato della somma di benefici diversi ed inconciliabili fra di loro. Se è vero che la fungibilità è irretrattabile si deve ritenere che sia irretrattabile anche la contraria richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, una volta che l'interessato abbia avuto presenti ed effettive entrambe le prospettazioni ed abbia scelto, a seguito di un calcolo di convenienza personale, l'una o l'altra. E' evidente che il giudice adito per la riparazione della ingiusta detenzione, qualora accerti che nel caso rimesso al suo esame una parte o la intera custodia cautelare avrebbe dovuto essere computata ai fini della determinazione della pena, e qualora ritenga che sia ancora possibile applicare il principio di fungibilità, deve limitarsi a liquidare l'indennizzo soltanto per la parte di custodia cautelare sofferta che non debba essere calcolata in sede esecutiva ai fini della determinazione della pena da eseguire (v. Cass. sez. 4 n. 13322 del 2001, rv. 221377), derivando ciò dalla opzione legislativa contenuta nell'art. 314 c.p.p., comma 4, per cui il diritto alla riparazione costituisce il rimedio ultimo, quando non sia stata possibile attivare l'istituto della fungibilità (sempre preferibile per il suo carattere di ristoro "in natura") e che può pure sospendere il giudizio in attesa che diventi definitivo il titolo penale (posto che invece l'interessato non può attendere nel promuovimento dell'azione, che deve avvenire, a pena di inammissibilità, nel termine di due anni dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, ai sensi dell'art. 315 c.p.p.), ma qualora l'interessato abbia dimostrato disinteresse per la fungibilità richiedendo ed ottenendo la riparazione per la ingiusta detenzione, proprio perchè poteva operare la scelta e la ha operata, non può poi cumulare i due benefici, ciò restando precluso dalla disposizione di cui all'art. 314 c.p.p., comma 4, che deve essere interpretato nel senso che, qualora la scelta fosse possibile concretamente e sia stata eseguita, così come è esclusa la riparazione in caso di già avvenuta concessione della fungibilità, specularmene deve essere esclusa la fungibilità in caso di già intervenuto conseguimento della riparazione per ingiusta detenzione. Nel caso in esame, poichè il ricorrente ha conseguito la riparazione per ingiusta detenzione nel 2004, quando avrebbe potuto chiedere lo scomputo in relazione alla esecuzione in corso di cui alla sentenza 28.10.2000 della Corte di Assise di Appello di Palermo, ne discende che non può ora chiedere anche la applicazione dell'istituto della fungibilità. Il ricorso deve essere pertanto respinto perchè infondato. Seguono per legge (art. 616 c.p.p.) le statuizioni di cui in dispositivo in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2007. Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2007

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