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ALTALEX NEWS


sabato 20 marzo 2010

E’ stupro non versare il compenso alla prostituta

E’ stupro non versare il compenso alla prostituta
Cassazione penale , sez. III, sentenza 03.03.2010 n° 8286 (Simone Marani)



Rischia una condanna per violenza sessuale il cliente della prostituta che dopo il rapporto non le dà il compenso pattuito. Lo ha stabilito la Sezione Terza della Suprema Corte di cassazione, con la sentenza 17 dicembre 2009 - 3 marzo 2010, n. 8286.
Il caso
La vicenda trae origine dalla condotta di Tizio il quale, avendo intrattenuto, con la prostituta Caia, un rapporto sessuale all’interno di una camera d’albergo, non corrispondeva alla donna il prezzo pattuito per la prestazione.
La Corte d’Appello di Genova, nel confermare la pronuncia di prime cure del Tribunale della medesima città, riteneva l’uomo responsabile del delitto di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.).
Avverso tale pronuncia ricorre per Cassazione Tizio lamentando l’insussistenza della fattispecie contestatagli per mancanza di un valido dissenso, in capo alla donna, al compimento dell’atto sessuale e della consapevolezza, in capo al medesimo, di tale dissenso.
La fattispecie
Da tempo la giurisprudenza di legittimità dimostra una particolare sensibilità verso episodi di violenza sessuale che vedono, nei rapporti sessuali a pagamento tra cliente e prostituta, un terreno particolarmente fertile per il compimento di atti di violenza sessuale, stante la situazione di “sudditanza” psicologica subita dalla “lucciola” nei confronti di chi paga il prezzo per l’ottenimento di una prestazione a carattere sessuale; situazione che induce, il più delle volte, la meretrice a non manifestare espressamente il proprio dissenso alla continuazione di rapporti particolarmente violenti.
Sul punto, la Suprema Corte ha già avuto modo di evidenziare come non escluda il dolo del reato di violenza sessuale la convinzione di avere il diritto di usare violenza nei confronti della donna, per portare a compimento un rapporto sessuale iniziato dietro compenso ([i]).
Dal punto di vista dell’elemento psicologico, l’orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza afferma come, per la sussistenza del delitto di violenza sessuale, sia sufficiente la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, restando pertanto irrilevante l'eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscenza, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente ([ii]).
Di conseguenza, appare di indubbia importanza, per la configurabilità della fattispecie, il requisito del consenso, la mancanza del quale (c.d. dissenso) fa venire in luce il delitto di cui all’art. 609-bis c.p. Così, ad esempio, si deve ritenere integrato il reato di violenza sessuale nella condotta di colui che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, originariamente prestato, venga poi meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisione delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto, senza soluzione di continuità ([iii]).
La motivazione della Suprema Corte
Sennonché, nonostante quanto ora sommariamente esposto, secondo i giudici della Terza Sezione Penale, la vicenda non può inquadrarsi in quella fattispecie particolare nella quale la donna risulta consenziente all’inizio del rapporto sessuale, per poi, manifestare il proprio dissenso a continuarlo, visto che nel caso oggetto di giudizio la signora aveva manifestato all’uomo di essere solo in attesa del pagamento dovuto, per l`attività dalla stessa prestata, come ab origine concordato fra le parti.
Correttamente, scrive il giudice nomofilattico, i giudici di merito hanno ritenuto che “non sussiste dubbio che l’imputato avesse piena coscienza e consapevolezza del sopruso che stava consumando in danno della donna”. Il comportamento dell’agente - si legge nella motivazione - ne costituisce prova, in relazione alla richiesta al portiere dell’albergo di distruggere le schede di permanenza nell’hotel all’interno del quale era avvenuto l’incontro. Ciò, osserva la Suprema Corte, evidenzia il desiderio dell’imputato di non lasciare traccia della propria permanenza, circostanza spiegabile solo con lo scopo di precostituirsi la possibilità di una futura negazione, “che non avrebbe avuto senso se colà si fossero consumati rapporti consensuali e non imposti”.
(Altalex, 19 marzo 2010. Nota di Simone Marani)
________________
[i] Cass., pen., Sez. III, 18 settembre 2001, Pisano, in Foro it. 2001, II, 617.
[ii] Cass., pen., Sez. III, 17 giugno 2009, n. 39718, B. e altro, in Ced 2009.
[iii] Cass., pen., Sez. III, 11 dicembre 2007, n. 4532, B., in Ced 2008; analogamente Cass., pen., Sez. III, 21 settembre 2007, n. 39428, O. M., in Cass. pen. 2008, 2892. stupro violenza sessuale Simone Marani

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 17 dicembre 2009 - 3 marzo 2010, n. 8286
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Genova, con sentenza del 12/1/05, dichiarava S.D. colpevole dei reati di cui agli artt. 81 cpv. e 609 bis c.p., nonchè di cui agli artt. 81 cpv. e 610 c.p., commessi in danno di Sp.La., e lo condannava alla pena di anni 4 di reclusione, con interdizione perpetua dagli uffici attinenti la tutela e la curatela, nonchè per la durata di anni 5 dai pubblici uffici. Condannava l'imputato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, con assegnazione alla parte civile di una provvisionale di Euro 2.000,00 e rifusione in favore della stessa delle spese processuali.
La Corte di Appello di Genova chiamata a pronunciarsi sull'appello proposto dalla difesa del pervenuto, con sentenza del 15/1/09, ha confermato il decisum di prime cure.
Propone ricorso per cassazione la difesa del S., con i seguenti motivi:
- nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell'art. 609 bis c.p., sotto il duplice profilo della necessità di manifestazione di dissenso e dalla percepibilità di tale dissenso in capo all'agente.
In sostanza la decisione impugnata, dopo avere permesso che il tema del processo era la verifica, oltre ogni ragionevole dubbio, di una manifestazione di dissenso (o di revoca di assenso) al compimento degli atti sessuali e la verifica della percepibilità di tale dissenso da parte del S., perde di vista tale obiettivo, riconducendo tutto al giudizio di assoluta attendibilità della teste, parte offesa e di credibilità di quanto da essa dichiarato in merito allo stato di soggezione che avrebbe causato nella donna una supina accettazione delle iniziative sessuali del prevenuto.
- Il giudice di merito ha travisato le argomentazioni difensive, non rilevando che le stesse tendevano ad evidenziare, con attento richiamo alle emergenze istruttorie, come si fossero realmente verificati i fatti, nonchè la impossibilità di ritenere la condotta del S. inquadrabile nelle fattispecie delittuose contestategli.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e va rigettato.
La sentenza assoggettata ad impugnazione si palesa sorretta da un discorso giustificativo logico corretto.
In via preliminare si osserva che dal vaglio a cui è stata sottoposta la pronuncia de qua risulta, in maniera inequivooa, la valutata attendibilità della p.o. da parte del giudice di merito, nonchè la credibilità di quanto da essa dichiarato.
Sul punto il decidente evidenzia che i fatti sono narrati in modo lineare e pienamente rispondente logica, apprezzandosi la genuinità del racconto della Sp., la quale non mostra assolutamente di volere infierire nei confronti del S.. Ella circoscrive gli eventi, ben, distinguendo i propri sia psicologici nei confronti del prevenuto, con particolare riferimento alle ammissioni di consenso tutte le volte che, comunque ed indipendentemente da paure e titubanze, vi sono state.
Sul primo motivo di ricorso si osserva che la vicenda non può inquadrarsi in quella fattispecie particolare nella quale la donna risulta consenziente all'inizio del rapporto sessuale, per poi manifestare il proprio dissenso a continuarlo, visto che nel caso oggetto di giudizio la Sp. aveva già manifestato al S. di essere solo in attesa del pagamento del dovuto, per l'attività dalla stessa prestata, come ab origine concordato tra le parti.
La Corte territoriale, a giusta ragione, rileva che non sussiste dubbio in ordine alla piena coscienza consapevolezza del S. del sopruso che stava consumando in danno della donna:
comportamento di costui ne costituisce prova, in occasione della richiesta al portiere dell'albergo a distruggere le schede di permanenza, nell'hotel, evidenziante il desiderio dell'imputato di non lasciare traccia della permanenza, circostanza spiegabile solo con lo scopo di precostituirsi la possibilità di una futura negazione, che non avrebbe avuto senso se colà si fossero consumati rapporti consensuali e non imposti.
Ulteriore fatto, ritenuto dal giudice di merito validante la tesi accusatoria, riguarda la sceneggiata, posta in essere dal prevenuto presso gli uffici della Polfer, di cui gli stessi operanti di p.g. hanno dettagliatamente riferito, in particolare delle intemperanze e delle millanterie del S., che persino, pretendeva di dare loro ordini.
In sostanza con i motivi di ricorso si tende ad una rilettura delle emergenze istruttorie, inibita in sede di legittimità.
Devesi, infatti, ribadire che questa Corte è giudice della motivazione, del discorso argomentativo svolto dal giudice di merito a sostegno del decisum, e non giudice della prova.
Nel momento del controllo di legittimità sulla motivazione, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di appaiamento (Cass. 1/10/02. Carta).
Di conseguenza il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dal giudice di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se detto decidente abbia esaminato tutti gli elementi a sua disposizione, se abbia fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbia esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre, elementi questi tutti rinvenibili nella sentenza impugnata.
Si evidenzia, inoltre, che il giudice, nella specie, ha applicato, nella valutazione della prova un metodo corretto, dando contezza di avere preso in considerazione ogni singolo fette ed il loro insieme, non in modo parcellizzato ed avulso dal generale contesto probatorio, ed ha verificato se essi ricostruiti in sè e posti vicendevolmente in rapporto, potessero essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante, tale da consentirgli di attingere la verità, processuale, pervenendo, così, nella convinzione della colpevolezza dell'imputato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2010.

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