La responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto Un'indagine giurisprudenziale[Roberto Bartoli]
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* * * SOMMARIO:
1. Considerazioni introduttive: il “difficile bilancio” sulla giurisprudenza post Franzese.2. Le questioni poste dalla responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto: tra causalità e colpa.3. La spiegazione dell’evento. L’orientamento giurisprudenziale meno recente fondato sull’aumento del rischio.3.1. Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti basati sulla spiegazione dell’evento: tra dose-dipendenza e incertezza scientifica.3.2. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sulla dose-dipendenza.3.3. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sull’incertezza scientifica.4. I decorsi causali alternativi.5. Le problematiche della colpa. Una breve premessa: pericolo, rischio, “voluntas legis” nella formulazione della regola cautelare. 6. La prevedibilità in astratto: le conoscenze utilizzate per la formulazione della regola cautelare.7. La prevedibilità in concreto: la c.d. concretizzazione del rischio.8. L’evitabilità in astratto: l’efficacia del comportamento alternativo lecito.9. La questione del “residuo di colpa”.10. La prevedibilità del soggetto agente ovvero la misura c.d. soggettiva della colpa.11. Considerazioni conclusive. * * * 1. Considerazioni introduttive: il “difficile bilancio” sulla giurisprudenza post Franzese A distanza di quasi dieci anni manca ancora un’indagine dettagliata e organica sulla giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese, ragion per cui non si è in condizione di sapere quale sia stato il reale impatto di questa sentenza e se abbia davvero determinato una sorta di punto di svolta nel contenimento di quegli orientamenti giurisprudenziali precedenti alla sua emissione ritenuti, a volte, troppo disinvolti nell’imputare eventi offensivi[1]. Posto infatti che la sentenza Franzese ha senza dubbio segnato un passaggio fondamentale sul piano ermeneutico, risolvendo un contrasto giurisprudenziale che si era fatto pericolosamente sterile e asfittico dal punto di vista argomentativo (il confronto si era irrigidito in una sorta di “lotta fra numeri”), ad oggi, però, per quanto riguarda il rispetto dei principi di garanzia, non vi sono elementi per dire se tale sentenza abbia tracciato binari che si muovono sul solido terreno del pieno rispetto delle garanzie oppure se porti in sé ambiguità irrisolte che adombrano possibili violazioni del principio della personalità della responsabilità penale. Le uniche riflessioni sul tema possono essere così sintetizzate: la giurisprudenza più recente si richiama alla sentenza Franzese in termini più formali che sostanziali, con la conseguenza che quel rigore da essa richiesto nell’accertamento del nesso causale viene in realtà costantemente disatteso[2]. Sottesa a questa affermazione v’è quindi l’idea che la sentenza Franzese, adottando una soluzione rispettosa dei principi di garanzia, abbia segnato quel punto di svolta che si auspicava e che pertanto la giurisprudenza successiva tenda – per così dire – a tradire la soluzione indicata. In verità, vi sono fondate ragione per ritenere che le cose stiano in termini molto più complessi. A me pare, infatti, non solo che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese si sia attenuta ai principi di diritto da quest’ultima enunciati, ma anche che i persistenti sospetti di scarso rigore nell’accertamento della causalità siano da imputare più alla stessa pronuncia delle Sezioni Unite che agli orientamenti posteriori. In particolare, ad un’attenta analisi, ci si rende conto che la grande novità della sentenza Franzese non è stata tanto la strutturazione bifasica dell’accertamento causale, né l’accento posto sulla esclusione dei decorsi causali alternativi o comunque sulla necessità di una conferma ex post dell’ipotesi formulata ex ante. La grande novità sembra essere consistita piuttosto nell’aver introdotto il concetto di certezza c.d. processuale, basata sulla elevata probabilità logica o credibilità razionale, in sostituzione di quello della certezza c.d. assoluta[3]: «lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche – hanno affermato le Sezioni Unite – sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale […] Poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto […] l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico deduttivo, secondo i criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo in settori nevralgici per la tutela dei beni primari […] Tutto ciò significa che il giudice […] è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale”, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale” o “conferma” dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare»[4]. Detto in altri termini, per la sentenza Franzese la credibilità razionale, e quindi il ragionamento induttivo su cui tale credibilità di basa, sembrano giocare un ruolo decisivo non solo sul piano processuale, al momento della verifica probatoria del decorso causale ipotizzato, ma anche sul piano sostanziale, al momento della spiegazione del decorso causale, vale a dire della ricostruzione in astratto dell’ipotesi del decorso causale, e ciò perché la verifica probatoria concreta, caratterizzata dalla certezza c.d. processuale, finisce per sostituirsi alla certezza c.d. assoluta che invece dovrebbe caratterizzare la ricostruzione sostanziale e astratta del decorso. In sostanza, le Sezioni Unite lasciano intendere che decisivo ai fini della ricostruzione del nesso causale non è tanto il rigore della generalizzazione esplicativa astratta, quanto piuttosto la credibilità della ricostruzione del fatto concreto, con la conseguenza che la spiegazione può conoscere anche una sorta di flessibilizzazione, compensata poi dalla solidità della verifica probatoria. Ebbene, quali le conseguenze di questa sostituzione, già sul piano sostanziale, della certezza c.d. assoluta con la certezza c.d. processuale? Per quanto riguarda il decorso causale c.d. ipotetico, e cioè l’indagine sull’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, tale sostituzione non sembra creare particolari problemi. Essa, infatti, non solo è plausibile, ma addirittura si attaglia perfettamente alla struttura predittiva e stocastica del decorso causale c.d. ipotetico: basandosi quest’ultimo decorso su una prospettiva prognostica, la certezza “sostanziale” alla quale si tende non può che essere una certezza “induttiva”, normo-valutativa. In sostanza, in un contesto predittivo parlare di certezza impeditiva assoluta è logicamente, prima ancora che normativamente, un controsenso. Tutt’al più può avere un senso parlare di certezza in ordine al possibile fallimento del comportamento dovuto (es. Tizio doveva essere sottoposto immediatamente a un E.C.G. che tuttavia è risultato guasto). La prospettiva prognostica determina, in sostanza, un mutamento di paradigma rispetto al quale lo stesso concetto di certezza non può che mutare, configurandosi come una certezza normativa in definitiva concettualmente (qualitativamente) identica alla certezza c.d. processuale, in cui a dominare non è la scienza esplicativa, ma il ragionamento logico-argomentativo. E non è un caso che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese non solo si sia attenuta a tali indicazioni, continuando a riferirsi alle percentuali probabilistiche nella formulazione della prognosi, ma abbia anche offerto un contributo – per così dire – innovativo, dando rilievo alla c.d. “corroborazione dell’ipotesi”[5]. Così, ad esempio, nell’ambito della responsabilità medica, se da un lato si ritiene che l’evento non impedito sia imputabile sulla base di un’idoneità impeditiva basata su componenti percentualistiche, dall’altro lato si avverte l’esigenza di rafforzare il mero dato percentualistico attraverso considerazioni ulteriori che consentano di calarlo e verificarlo alla luce della situazione di fatto, con la conseguenza che il nesso “ipotetico” deve essere escluso allorquando ci si sia limitati a fare riferimento al comportamento alternativo lecito senza metterlo in relazione allo specifico caso concreto[6]. Per quanto riguarda il decorso causale c.d. reale, il ragionamento è invece diverso. Posto che rispetto a questo decorso entra in gioco una logica esplicativa in prospettiva ex post, il rapporto tra certezza assoluta e certezza c.d. processuale, basata sulla probabilità logica/credibilità razionale, necessita di alcuni chiarimenti. Ed infatti, se ai fini della spiegazione dell’evento la certezza c.d. processuale non si sostituisce a quella c.d. assoluta, non solo risulta rispettata la distinzione concettuale tra dimensione sostanziale e dimensione processuale del diritto penale, ma soprattutto risultano osservati i rispettivi princìpi di garanzia che governano tali dimensioni, e cioè, da un lato, il principio della personalità della responsabilità penale che ai fini della spiegazione di un evento richiede una spiegazione razionalmente controllabile, e quindi inevitabilmente scientifica; dall’altro lato, viene rispettato il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio, il quale ammette ricostruzioni fattuali valutative, purché il giudizio si riveli per l’appunto fondato oltre ogni ragionevole dubbio. Perplessità invece sorgono se, ai fini della spiegazione dell’evento, la certezza c.d. processuale si sostituisce a quella c.d. assoluta, in quanto diviene possibile attenuare il rigore scientifico della generalizzazione esplicativa che si formula, aprendosi così margini per una possibile violazione del principio di garanzia della personalità della responsabilità penale. E quanto appena affermato si comprende piuttosto bene con riferimento alla problematica della esclusione dei decorsi causali alternativi. Se infatti si ritiene che la certezza processuale si sostituisce a quella assoluta, l’esclusione dei decorsi causali alternativi diventa possibile anche se non si conoscono tutte le cause che possono determinare un certo evento, risultando sufficiente la presenza di alcuni elementi di fatto che siano idonei a rafforzare l’ipotesi. Se invece si ritiene che ai fini della spiegazione dell’evento sia necessaria la certezza assoluta, una legittima esclusione dei decorsi causali è plausibile solo se si conoscono tutte le possibili cause di verificazione di un determinato evento[7]. Detto in altri termini, parlare di certezza processuale in un contesto esplicativo è senza dubbio logicamente possibile, tuttavia sul piano normativo rischia di comportare una violazione del principio della personalità della responsabilità penale. E la giurisprudenza più recente, come vedremo tra poco, rispetto alla spiegazione dell’evento sembra essersi attenuta proprio a queste indicazioni “flessibilizzanti” elaborate dalla sentenza Franzese. Ecco allora che, se volessimo compiere una sorta di primo bilancio “consuntivo” sulla giurisprudenza post Franzese, dovremmo riconoscere che essa si è attenuta agli insegnamenti di quest’ultima pronuncia, insegnamenti che tuttavia hanno offerto un contributo autenticamente rispettoso dei principi di garanzia per quanto riguarda il decorso causale ipotetico, mentre con riferimento al decorso causale reale vi sono fondate ragioni per ritenere che il suo magistero presenti ancora ambiguità tali da far sorgere qualche sospetto di violazione delle garanzie. 2. Le questioni poste dalla responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto: tra causalità e colpa Il tema della responsabilità penale derivante dalla esposizione dei lavoratori ad amianto consente di approfondire proprio le questioni appena accennate. Da un lato, infatti, si tratta di un tema in cui la ricostruzione del decorso causale reale risulta particolarmente problematica. Volendo fare una sorta di comparazione, si può dire che mentre nell’ambito dell’attività medico-chirurgica la ricostruzione del decorso reale si presenta rarissimamente volte incerta e dibattuta, trattandosi di un’attività che tende – per così dire – ad acquisire i progressi scientifici, sia perché si basa di per sé sulle conoscenze scientifiche esplicative di catene causali produttive di eventi, sia perché tali progressi sono consentanei agli interessi dei medici, come anche dei pazienti; al contrario, rispetto all’attività lavorativa tale ricostruzione costituisce un problema in quanto si tratta di attività non solo di regola scollegata al sapere scientifico esplicativo, ma che tende anche a porsi in tensione con i progressi scientifici, i quali, rivelando pericolosità di vario genere, sono visti come potenziali ostacoli per l’attività produttiva. Dall’altro lato, la responsabilità penale da amianto consente di approfondire anche il versante del decorso causale ipotetico, potendosi tranquillamente dire che in essa si trovano concentrate quasi tutte le problematiche poste dalla c.d. causalità della colpa. In particolare, per quanto riguarda il decorso causale reale, i problemi che si devono affrontare sono fondamentalmente due: quello della spiegazione del decorso e quello della esclusione dei decorsi causali alternativi. In ordine al decorso causale ipotetico, si pongono invece addirittura quattro questioni: quella, per certi aspetti preliminare, delle conoscenze che devono stare alla base della elaborazione di una regola cautelare (prevedibilità c.d. in astratto o ex ante); quella della concretizzazione del rischio, per cui l’evento verificatosi, e che si doveva evitare, deve concretizzare il rischio che la regola cautelare intendeva contenere (prevedibilità c.d. in concreto o ex post); la questione della reale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, per cui tale comportamento deve risultare effettivamente in grado di contenere il rischio (evitabilità c.d. in astratto o ex ante); e la questione del rapporto tra regole rispettate ed eventuale residuo di una responsabilità colposa derivante dalla violazione di regole cautelari ulteriormente imposte. Le ipotesi della responsabilità da amianto pongono infine un ultimo problema, quello della prevedibilità dell’evento, e più in generale del fatto tipico, da parte del soggetto agente, problema che apre alla c.d. misura soggettiva della colpa. 3. La spiegazione dell’evento. L’orientamento giurisprudenziale meno recente fondato sull’aumento del rischio Per quanto riguarda la spiegazione dell’evento morte connesso alla esposizione dei lavoratori ad amianto, preliminarmente si deve osservare come le prime volte in cui si è posta tale questione la giurisprudenza (precedente alla sentenza Franzese) non abbia adottato la prospettiva esplicativa ex post, ma si sia basata invece sul paradigma causale fondato sul c.d. aumento del rischio, vale a dire su un paradigma decisamente inaccettabile per violazione del principio di personalità della responsabilità penale. Più precisamente, in ordine al concetto di aumento del rischio si possono distinguere diverse ipotesi. Anzitutto, v’è quella in cui nonostante l’esistenza del decorso causale reale (la spiegazione dell’evento) e l’idoneità del comportamento alternativo lecito ad impedire l’evento, la mancata adozione del comportamento alternativo lecito ha comunque aumentato (ovvero mancato di diminuire) il rischio di verificazione dell’evento: si tratta di una ipotesi di aumento del rischio che riteniamo ammissibile, sia perché risultano positive le verifiche di conferma concernenti il decorso causale reale e quello ipotetico, sia perché, una volta superate tali verifiche, l’imputazione dell’evento non può che avvenire in termini probabilistici in virtù della struttura prognostica del giudizio di efficacia impeditiva. In secondo luogo, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui, dopo aver ricostruito il decorso causale reale ed aver individuato il comportamento alternativo lecito astrattamente idoneo ad impedire l’evento, si afferma la responsabilità, senza tuttavia aver verificato se quest’ultimo comportamento sarebbe stato realmente in grado di impedire l’evento, senza cioè escludere le possibili ipotesi di fallimento del comportamento alternativo lecito (es. imprevedibilità in astratto per totale assenza di conoscenze empiriche; imprevedibilità in concreto per mancata concretizzazione del rischio; inevitabilità in astratto, dovuta alla assoluta incapacità nomologica della condotta a contenere il rischio; inevitabilità in concreto, dovuta alla presenza di peculiari fattori reali che avrebbero neutralizzato l’efficacia della condotta diligenza): questa ipotesi di aumento del rischio è inammissibili per la semplice ragione che alla fin fine si imputa l’evento basandosi su un comportamento congetturalmente idoneo, ma nella realtà inefficacia, con la conseguenza che l’evento è imputato in assenza di un reale nesso tra la condotta omessa e la vicenda concreta. Infine, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui si imputa l’evento a prescindere addirittura dalla stessa ricostruzione del decorso causale reale, ragionando in termini di mera idoneità della condotta a cagionare o impedire un determinato evento: e questa ipotesi è da ritenersi a maggior ragione inammissibile, poiché, mancando la spiegazione del decorso reale, il comportamento che si ritiene criminoso può risultare del tutto sganciato dall’evento (es. omesso salvataggio del bagnino, quando tuttavia il decesso non è dovuto ad annegamento, ma ad infarto). Ebbene, le prime sentenze che hanno affrontato il problema della causalità in tema di amianto hanno fatto riferimento a quest’ultima tipologia di aumento del rischio, affermando che per l’esistenza del nesso causale «è sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia»[8]. In termini ancor più puntuali, si può osservare come il problema della idoneità del comportamento alternativo lecito a ridurre il rischio sia stato affrontato prima di quello della spiegazione causale e, rispetto a quest’ultima, si sia affermato che «è nozione consolidata che il rischio di tumore del polmone e di mesotelioma sono correlati alla dose esposizione (durata per intensità di esposizione) e che in oncologia clinica sperimentale è acquisita la nozione secondo la quale riducendo la dose (in durata o in intensità) si ottiene una riduzione della frequenza dei tumori»; per poi concludere che «la correlazione del rischio di tumore al polmone e di mesotelioma con la dose di esposizione (durata per intensità) è dimostrata anche dalla letteratura che indica che alla diminuzione della dose di amianto diminuirebbe la probabilità delle patologie correlate»[9] [corsivi nostri]. Alla luce di quanto appena detto si deve osservare come d’altra parte anche la giurisprudenza più recente rischi a volte di adottare soluzioni basate sull’aumento del rischio. Ed infatti, in alcune sentenze successive alla Franzese si trova affermato che «dovrà riconoscersi il rapporto di causalità non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani ovvero ancora quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa»[10]. Di per sé si tratta di un’affermazione assolutamente condivisibile, perché è indubbio che una condotta omissiva (consista essa nella autentica omissione oppure nella omissione di cautele) assume rilevanza allorquando la sua adozione avrebbe consentito di impedire l’evento o comunque di ritardare la sua verificazione. Tuttavia, è necessario ribadire che questo tipo di ragionamento può essere compiuto soltanto quando v’è assoluta certezza esplicativa in ordine al fatto che un certo evento è frutto di un determinato decorso causale sul quale poteva innestarsi il comportamento alternativo lecito avente efficacia impeditiva. Detto in altri termini, occorre sempre tenere presente che si può iniziare a prendere in considerazione le problematiche del decorso causale ipotetico, soltanto quando la verifica esplicativa del decorso causale reale ha dato esiti positivi[11]. 3.1. Gli orientamenti più recenti basati sulla spiegazione dell’evento: tra dose-dipendenza e incertezza scientifica Gli orientamenti successivi a quello appena esaminato hanno abbandonato il paradigma dell’aumento del rischio, adottando invece quello della spiegazione causale. Tuttavia, in questa nuova prospettiva si è aperta la questione della dose-dipendenza o meno delle patologie derivanti dall’esposizione all’amianto. Più precisamente, posto che le fibre di amianto inalate producono essenzialmente tre diverse patologie, vale a dire: l’asbestosi (patologia non tumorale del polmone), il carcinoma (patologia tumorale del polmone) e il mesotelioma (patologia tumorale della pleura o del peritoneo); e posto che risulta scientificamente pacifica la dose-dipendenza dell’asbestosi e del carcinoma polmonare[12]; per quanto riguarda il mesotelioma, il discorso si presenta decisamente più complesso: se da un lato, infatti, risulta scientificamente pacifico che per innescare il meccanismo patogenetico del mesotelioma è sufficiente una dose bassa e che tale meccanismo fa esplodere la neoplasia maligna dopo un lungo periodo di latenza (mi pare si possa parlare di legge scientifica addirittura universale)[13]; dall’altro lato, si è posto il problema se esista o meno un rapporto inverso tra entità della esposizione e durata della latenza ovvero, detto in altri termini, se le tre patologie debbano essere trattate in modo analogo in quanto tutte in definitiva dose-correlate oppure distinguendo tra asbestosi e carcinoma (dose-dipendenti) e mesotelioma (la cui riduzione della latenza sarebbe dose-indipendente). Le conseguenze applicative derivanti dall’adozione dell’una o dell’altra soluzione sono molto rilevanti, e per comprenderle compiutamente si deve muovere dalla consapevolezza che nelle imprese in cui si lavorava con l’amianto, durante l’ampio arco temporale in cui si sono sviluppate le patologie, si è spesso verificata una successione nelle posizioni di garanzia. Ebbene, partendo dalla conseguenza più significativa, se si ritiene che tutte le patologie siano dose-dipendenti (rectìus, che la latenza del mesotelioma si riduca all’aumentare delle esposizioni), e che quindi in definitiva non si debba distinguere tra le diverse tipologie, l’esposizione successiva risulta rilevante, in quanto l’aumento della dose di amianto inalata è in grado di accorciare la latenza della malattia o di aggravare gli effetti della stessa, con la conseguenza ulteriore che le successive omissioni di cautele possono assumere rilevanza. Se invece si ritiene che il mesotelioma sia dose-indipendente e che quindi si debba distinguere tra le diverse patologie, mentre per l’asbestosi e per il carcinoma polmonare l’esposizione successiva è rilevante, al contrario per il mesotelioma non lo è, con la conseguenza che non sono punibili le successive omissioni di cautele. Ma vi sono anche altre conseguenze, di una certa importanza soprattutto sul piano processuale, che non possono essere sottaciute. Anzitutto, se si muove dall’idea che anche “il mesotelioma è dose-dipendente”, non risulta necessario descrivere l’evento con rigore e quindi stabilire con esattezza la causa della morte, essendo sufficiente ricondurre il decesso all’amianto, quale che sia poi in realtà la patologia che viene in gioco[14]. In secondo luogo, in virtù della dose-dipendenza, se nel corso del processo si viene a conoscenza che la vittima ha subìto altre esposizioni oltre a quella ipotizzata, la stessa ipotesi non risulta inficiata. Se infatti si scopre che in precedenza vi sono state altre esposizioni, quella successiva avrà concorso a diminuire la latenza; se invece si scopre che successivamente vi sono state altre esposizioni, quella successiva non interromperà il nesso, potendosi anzi estendere la responsabilità anche a queste esposizioni. In sostanza, anche a voler ammettere che il lavoratore fosse stato esposto ad amianto nell’ambiente generale o in altri contesti lavorativi precedenti o successivi, la riduzione dell’esposizione in ambito lavorativo attraverso l’adozione delle misure cautelari, avrebbe ridotto il carico di fibre complessivamente inalato e quindi dilatato la durata della latenza, con conseguente responsabilità per chi ha omesso le cautele. Ed ancora: la dose-dipendenza della riduzione della latenza consente di trovare comunque dei soggetti responsabili, in quanto, proprio a causa della lunga latenza, a volte i titolari delle posizioni di garanzia al momento della inalazione innescante, risultano. al momento del processo. deceduti. Infine, se si adotta la soluzione della rilevanza delle esposizioni successive si risolve a priori un notevole problema probatorio che invece si porrebbe adottando l’altra soluzione. Ed infatti, là dove si ritenga che le esposizioni successive non rilevano, in presenza di una successione di soggetti nelle posizioni di garanzia, si pone il problema di individuare il momento in cui la dose innescante potrebbe essere stata inalata. Tale problema non sussiste quando non v’è una pluralità di soggetti oppure quando il periodo di latenza consente di individuare “al di là di ogni ragionevole dubbio” il soggetto responsabile. Ma quando queste condizioni vengono meno, pur sussistendo il nesso causale, può tuttavia essere molto difficile raggiungere la prova che la dose innescante sia stata inalata proprio durante il periodo in cui uno degli imputati è ritenuto il responsabile[15]. In sostanza, se esiste un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita e risposta tumorale (o comunque riduzione della latenza) si attenua l’interesse per l’individuazione del periodo di inalazione della dose innescante, individuazione spesso molto difficile da provare. Ebbene, per quanto riguarda la spiegazione dell’evento, registrata l’esistenza di pochissime pronunce che hanno aderito alla spiegazione causale basata sulla dose-indipendenza della riduzione della latenza[16], si possono distinguere due orientamenti giurisprudenziali. Per un primo indirizzo senza dubbio maggioritario, tutte e tre le patologie sono – per così dire – dose-dipendenti. Così, la Corte di Cassazione ha affermato che sussiste un «rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata dell’esposizione) e risposta tumorale: aumentando la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori che derivano dall’esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte. Questo processo è stato dalla Corte [di merito] riferito non solo al tumore polmonare o broncogeno ma anche al mesotelioma»[17]. E più di recente si è fatto riferimento a «un riconoscimento condiviso, se non generalizzato, della comunità scientifica – peraltro fatto già proprio da sentenze di merito e di legittimità […] sul rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata della esposizione) e risposta tumorale, con la conseguente maggiore incidenza dei tumori e minore durata della latenza della malattia nelle ipotesi di aumento della dose di cancerogeno»[18]. Per altro orientamento, invece, presente solo nella giurisprudenza di legittimità, si deve distinguere tra asbestosi e carcinoma, da un lato, e mesotelioma pleurico, dall’altro. E se in tale prospettiva non ci si spinge fino ad affermare l’esistenza di una diversa spiegazione causale (dose-dipendenza asbestosi e carcinoma, dose-indipendenza riduzione della latenza del mesotelioma), tuttavia si pone in risalto come mentre per l’asbestosi esiste certezza in ordine alla spiegazione, al contrario con riferimento al rapporto tra esposizione e latenza del mesotelioma permangono dubbi esplicativi: così, in ordine all’asbestosi, si è notato che «i giudici di merito, nel comparare tale patologia con il mesotelioma pleurico, hanno evidenziato che l’asbestosi è una malattia “dose-correlata”, nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione delle fibre»[19]; mentre rispetto al mesotelioma si è posto in evidenza come «la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato due orientamenti teorici prevalenti, della “dose risposta” (meglio conosciuta come “teoria del multistadio della cancerogenesi”) e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successive a quella “killer”, dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell’opzione causale. In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice»[20]. Tale indirizzo, poi, tende a cassare le sentenze con rinvio affinché i giudici di merito si attengano al seguente principio: «nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al “sapere scientifico”, la funzione strumentale e probatoria di quest’ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità, ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti»[21]. 3.2. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sulla dose-dipendenza Nel tentativo di compiere un’analisi critica di questi orientamenti giurisprudenziali, in ordine al primo si deve osservare come gli argomenti utilizzati a sostegno dell’adozione della spiegazione basata sulla dose-dipendenza della latenza del mesotelioma suscitino non poche perplessità. Da un lato, si torna ad aprire all’idea di una spiegazione causale basata non soltanto su leggi scientifiche, ma anche su generalizzazioni empiriche del senso comune e su rilevazioni epidemiologiche. Così, di recente si è affermato che «per quanto riguarda l’individuazione della legge scientifica, è vero che nella materia esistono notevoli difficoltà collegate agli esiti non ancora definitivi cui è giunta la scienza nel descrivere la genesi e lo sviluppo del mesotelioma, ma tali difficoltà […] non possono di per sé fondare un tranquillizzante giudizio di esclusione della legge scientifica, allorché esistono importanti studi al riguardo […] E’ altresì il caso di ricordare che nell’accertamento della causalità generale, ovvero nella identificazione della legge scientifica di copertura, il giudice deve individuare una spiegazione generale degli eventi basata sul sapere scientifico, sapere […] che è costituito non solo da leggi universali (invero assai rare), ma altresì da leggi statistiche, da generalizzazioni empiriche del senso comune, da rilevazioni epidemiologiche»[22]. Dall’altro lato, si continua a sovrapporre la dimensione processuale del nesso causale a quella sostanziale, determinando così un scivolamento verso una “spiegazione causale induttiva” che, come vedremo, costituisce una vera e propria contraddizione in termini. Ed infatti, in questa prospettiva, la Corte di Cassazione ha precisato che «non può avere rilievo che non sia stato possibile accertare il meccanismo preciso di maturazione della patologia. La giurisprudenza di legittimità si è sempre espressa, in via generale, nel senso che il nesso di condizionamento deve infatti ritenersi provato [corsivo nostro] non solo quando (caso assai improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all’evento, ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative, e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici»[23]. Si tratta di argomentazioni su cui occorre soffermare l’attenzione. In particolare, per quanto riguarda la prima, si deve ribadire con forza come non possa esistere una autentica spiegazione senza l’ausilio di un sapere scientificamente fondato. Con la conseguenza che ai fini della spiegazione del decorso causale reale effettivamente esplicatosi in concreto, possono essere utilizzate soltanto leggi scientifiche universali o statistiche (e queste ultime soltanto quando si possono escludere decorsi causali alternativi nel presupposto che comunque si conoscano tutte le cause possibili di un determinato evento), con esclusione pertanto delle massime di esperienza e delle rilevazioni epidemiologiche. In particolare, rispetto alle massime di esperienza, qualora siano autenticamente tali e non rappresentino una sorta di volgarizzazione delle leggi scientifiche, si deve ritenere che esse non possano avere una funzione esplicativa di un determinato decorso causale in quanto hanno natura meramente osservativo-esperienziale. D’altra parte, non c’è dubbio che esse possono assumere un ruolo nella ricostruzione complessiva della causalità, ma in ambiti per l’appunto diversi da quello della spiegazione del decorso causale, e più precisamente là dove viene in gioco un ragionamento induttivo. Così, ad esempio, tali regole svolgono una funzione fondamentale nella fase processuale, allorquando si tratta di compiere quel ragionamento induttivo che consente di raggiungere una conferma probatoria avente un alto grado di credibilità razionale. Ma soprattutto, le massime di esperienza sono utilizzate all’interno del decorso causale ipotetico, quando si deve individuare il comportamento alternativo lecito nel contesto della colpa generica: ed infatti l’efficacia impeditiva di un determinato comportamento si valuta in una prospettiva prognostica basata, come vedremo meglio in seguito, non soltanto su conoscenze scientifiche, ma anche su conoscenze meramente esperenziali e su scelte “politiche” che configurano in definitiva massime di esperienza. Per quanto riguarda le rilevazioni epidemiologiche, si deve notare come esse, se da un lato, sono molto simili alle leggi statistiche, in quanto non sono in grado di offrire una spiegazione esauriente, dall’altro lato, però, se ne differenziano notevolmente in ordine al fatto che mentre le leggi statistiche utilizzabili in ambito giuridico sono quelle che operano in un contesto in cui si conoscono tutte le cause possibile, al contrario le rilevazioni agiscono proprio in un contesto in cui l’eziologia di un determinato fenomeno è in larga misura ignota, nel senso che lo stesso presupposto per la loro elaborazione è offerto proprio dalla ignoranza di tutte le cause possibili, con la conseguenza che il loro utilizzo determinerebbe inevitabilmente la violazione del principio della personalità della responsabilità penale[24]. Quanto appena detto si dovrebbe comprendere ancora meglio affrontando la seconda argomentazione a sostegno della spiegazione della riduzione della latenza basata sulla dose-dipendenza, quella relativa alla non necessaria prova dell’intera concatenazione causale. Sono due i passaggi su cui si deve soffermare l’attenzione. Da un lato, si può osservare come ritenere che non è necessaria la prova dell’intera catena causale sia corretto soltanto se si muove da un’idea di rigorosa spiegazione del decorso causale basata su autentiche conoscenze scientifiche. Là dove si richiede infatti una legge universale o una legge statistica (con esclusione dei decorsi alternativi in un contesto di conoscenza di tutte le cause possibili), non c’è dubbio che a volte è sufficiente provare l’esistenza di un determinato fattore per affermare l’esistenza dell’intero nesso causale, senza che sia necessario andare a provare tutti i singoli passaggi del decorso causale. Così, ad esempio, davanti a una morte derivante da annegamento, sarebbe del tutto inutile descrivere con esattezza tutti i passaggi in cui si articola il relativo decorso. Al contrario, tale opinione risulta foriera di molte perplessità là dove non si muove da un concetto rigoroso di spiegazione causale, e ciò perché si viene a determinare una confusione tra dimensione processuale e dimensione sostanziale. E a ben vedere, come accennato all’inizio, questa confusione tra sostanziale e processuale (forse potremmo parlare addirittura di processualizzazione della categoria sostanziale della causalità), trova le proprie radici all’interno della sentenza Franzese, derivando da quell’idea di certezza processuale ovvero di probabilità logica, che se ha un senso per il piano processual-probatorio o comunque per il decorso causale ipotetico, non può essere accolta per la dimensione sostanziale della causalità, vale a dire per la spiegazione. Dall’altro lato, suscita perplessità il passaggio in cui si afferma che il nesso di condizionamento deve comunque ritenersi provato quando, in assenza dell’intera ricostruzione del nesso, «l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative, e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici». Ebbene, questa affermazione apre di nuovo a possibili imputazioni basate soltanto sul mero aumento del rischio, inteso come mera idoneità della condotta a cagionare o comunque impedire l’evento. Ed infatti, la condotta colposa (od omissiva) del soggetto agente – lo ribadiamo – entra in gioco soltanto dopo aver spiegato un determinato evento. Inoltre, com’è stato dimostrato efficacemente da tempo, l’esclusione di diversi meccanismi eziologici ha senso solo rispetto al decorso causale reale. Al contrario, rispetto a una mera ipotesi prognostica, non solo l’esclusione dei decorsi non può operare[25], ma addirittura il nesso finisce per basarsi su una causalità meramente negativa, come tale non esplicativa, ma meramente “associativa”[26]. Ma soprattutto l’orientamento che basa la spiegazione causale della riduzione della latenza sulla dose-dipendenza non può essere accolto perché finisce per adottare una soluzione – oltretutto quella che porta ad affermare la responsabilità del soggetto agente – quando tuttavia si è in presenza di una sostanziale incertezza scientifica: ed infatti, se è vero che, come visto in precedenza, per l’asbestosi e per il carcinoma è pacifica la dose-dipendenza, la spiegazione del mesotelioma risulta in parte ancora molto discussa. Più precisamente, rispetto al mesotelioma, se v’è assoluto accordo, come accennato, nel ritenere che anche dosi basse possono scatenare il decorso patologico, tuttavia, ancora si discute sul piano scientifico proprio in ordine al tipo di fibre che hanno funzione scatenante (profilo che, come vedremo, rivela ai fini della colpa)[27] e alla relazione che intercorre tra la latenza e l’esposizione (profilo che rivela ai fini della causalità). In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, per una parte della scienza «il rischio di mesotelioma aumenta con l’aumentare sia dell’intensità, sia della lunghezza dell’esposizione: in definitiva, con l’aumentare della dose complessiva di fibre inalate non solo aumenta l’incidenza, ma si riduce il tempo di latenza convenzionale […] Pur se un’inalazione intensa e/o prolungata non è necessaria per l’induzione del mesotelioma, è da ritenere che nessun periodo di esposizione, fino a induzione completata e a tumore concretamente in essere ancorché clinicamente occulto (cioè fino a circa dieci-quindici anni prima della manifestazione/diagnosi), può essere considerato inefficiente e quindi irrilevante»[28]. Altra parte della scienza, invece, afferma che «il periodo di latenza è attualmente oggetto di particolare attenzione in ambito medico legale poiché in alcune consulenze tecniche è stata prospettata la esistenza di un rapporto inverso tra entità della esposizione e durata della latenza. Questo rapporto inverso, ripreso purtroppo in sentenze anche di Cassazione, deve essere posto seriamente in discussione, perché è privo di plausibilità biologica e non risulta confermato alla prova dei fatti, ossia dalle più autorevoli e documentate ricerche»[29]. Ed ancora: «numerose autorevoli ricerche scientifiche confermano la inesistenza di correlazioni tra entità della esposizione e latenza […] In conclusione sia le considerazione teoriche in merito alla plausibilità biologica che i dati della letteratura internazionale portano a concludere che la ipotesi dell’abbreviamento della latenza con l’aumentare dell’esposizione non è valida per il mesotelioma e deve essere respinta»[30]. Ebbene, in presenza di questa incertezza scientifica, com’è possibile che un giudice adotti una delle due soluzioni alternativamente prospettate[31]? 3.3. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sull’incertezza scientifica Alla luce delle considerazioni appena svolte, risulta molto più plausibile il secondo orientamento giurisprudenziale, che prendendo atto dell’incertezza scientifica in ordine all’efficacia condizionante delle esposizioni successive, rinvia alle Corti di Appello affinché motivino con maggior rigore l’accoglimento di uno degli orientamenti e l’esclusione dell’altro. D’altra parte, anche questa conclusione non può essere accolta, in quanto la giurisprudenza finisce per contraddirsi là dove, da un lato, dà atto dell’esistenza di una sostanziale incertezza scientifica, e poi per l’appunto cassa con rinvio invitando i giudici di merito a compiere un’analisi critica delle soluzioni scientifiche oggetto della scelta[32]: nel momento in cui si riconosce l’esistenza di una sostanziale incertezza scientifica, la Corte dovrebbe giungere alla conclusione della assoluta impossibilità di affermare una responsabilità, proprio a causa della incapacità di fornire un’autentica spiegazione scientifica dell’evento. Detto in altre parole, o si afferma in termini chiari e netti l’esistenza di una certezza scientifica e quindi si adotta la soluzione che si basa su tale certezza, oppure, se si riconosce l’esistenza di una incertezza scientifica, non ha alcun senso chiedere al giudice di merito di adottare una delle due soluzioni e di dare conto della esclusione dell’altra, in quanto il giudice non è in grado, come invece pretende la Corte di Cassazione, «di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità», con la conseguenza che se il giudice si adoperasse secondo le indicazioni della Corte, finirebbe egualmente per divenire artefice delle leggi scientifiche invece che fruitore. Più opportuno quindi concludere nel senso della inesistenza di una esplicazione causale scientificamente fondata idonea a fondare una responsabilità penale, o comunque cassare con rinvio al fine di appurare se presso la comunità scientifica esiste nella sostanza una legge scientifica[33]. Il punto merita ulteriore approfondimento, anche perché consente di chiarire meglio i rapporti tra scienza e diritto, tra perito e giudice. Molto spesso si afferma che all’interno del processo le teorie scientifiche di spiegazione causale sono antagoniste tra di loro, con la conseguenza che il giudice deve adottare quella che risulta essere più plausibile. Ebbene, sul punto ci pare di fondamentale importanza distinguere tra “antagonismo probatorio” e “incertezza scientifica”. L’antagonismo probatorio si ha quando all’interno di un processo vengono prospettate ipotesi di decorsi causali alternativi, ipotesi però tutte scientificamente fondate. In questi casi non si contesta la portata scientifica di una ricostruzione, bensì si dibatte sulla sua plausibilità sul piano della effettiva verificazione storica. Anche in questi casi quindi esiste incertezza, ma non scientifica, concernente la spiegazione delle ipotesi, quanto piuttosto probatoria, relativa cioè alla corrispondenza tra quanto ipotizzato e quanto realmente accaduto. In sostanza le due ipotesi, scientificamente fondate, sono entrambe incerte, in quanto, essendo il fatto irripetibile, risulta di per sé impossibile sapere con certezza assoluta quale ipotesi si è storicamente verificata. Ecco perché è opportuno parlare di antagonismo probatorio. E in queste ipotesi il giudice è “libero” di scegliere l’opzione che, alla luce delle evidenze dei fatti, riterrà maggiormente fondata sul piano probatorio rispetto al caso concreto. Diversamente, un reale problema di incertezza scientifica sorge quando la stessa spiegazione causale di un determinato decorso viene già in astratto contestata sul piano scientifico. In queste ipotesi ciò che si contesta è la stessa legge scientifica esplicativa del decorso. E la vicenda del mesotelioma rientra proprio in queste ipotesi di incertezza scientifica perché ancora non si è in grado di sapere il rapporto che intercorre tra maggiore esposizione e riduzione della latenza. Qui il giudice non può che alzare le mani e arrendersi davanti alla inesplicabilità del decorso. Ma ciò che mi preme sottolineare è soprattutto il fatto che per giungere a questa conclusione appena prospettata (differenza tra incertezza scientifica ed antagonismo processuale) si deve adottare un rigoroso modello generalizzante esplicativo, vale a dire un modello che fa del giudice un vero e proprio fruitore delle leggi scientifiche. Detto in altri termini, anche il filone giurisprudenziale in esame, che dà atto dell’incertezza scientifica, ma poi attribuisce comunque al giudice un ruolo di scelta e giustificazione della scelta, tradisce una visione induttiva che ancora una volta sembra trovare le proprie radici proprio nella sentenza Franzese. Ed infatti, c’è da chiedersi come opererà il giudice che si trova a dover giustificare l’adozione di una spiegazione invece di un’altra. Quali saranno gli argomenti che utilizza per giustificare la scelta? Ebbene, si deve ritenere che questi argomenti, non potendo essere scientifici, avranno natura induttiva, e quindi si baseranno nella sostanza sulle evidenze fattuali, potendo così giocare un ruolo decisivo la “suggestione” provocata dalla consistente esposizione, rispetto alla quale, però, lo ribadiamo, non v’è certezza scientifica esplicativa. E non pare un caso che la Corte parli di «funzione strumentale e probatoria [il corsivo è nostro]» del sapere scientifico. Alla luce delle considerazioni appena svolte, merita quindi apprezzamento una sentenza di merito che non solo giunge “coraggiosamente” all’esclusione del nesso di causalità, giudicando non dotata di un sufficiente grado di certezza l’ipotesi dell’accusa, ma soprattutto suggerisce il problema della valutazione del canone in forza del quale ammettere o non ammettere la sussistenza del nesso causale tutte le volte in cui le leggi scientifiche di copertura non siano in grado di fornire enunciati singolari esplicativi capaci di sorreggere in termini di (quasi) assoluta certezza l’implicazione causale[34]. Si può quindi concludere che i margini per affermare una responsabilità penale rispetto al mesotelioma sono molto ristretti: perché ciò sia possibile, posto che v’è certezza in ordine alla bassi dosi innescanti e alla lunga latenza, è necessario che si sia in grado di individuare al di là di ogni ragionevole dubbio il periodo in cui è stata inalata tale dose, periodo che non deve aver conosciuto una successione nelle posizioni di garanzia. 4. I decorsi causali alternativi Passando adesso a trattare l’altra questione attinente al decorso causale reale, vale a dire il problema dei decorsi causali alternativi, una sua corretta impostazione necessita della distinzione tra asbestosi, mesotelioma e carcinoma. In ordine all’asbestosi, si pongono due questioni. La prima, che diviene comune anche al mesotelioma, là dove si ritenga che esista un rapporto tra maggiore esposizione e minore latenza, riguarda la responsabilità del titolare di una posizione di garanzia per l’esposizione del lavoratore, successiva alla dose innescante e avente breve durata. Il problema si pone perché ormai si considera certo che alla riduzione della polverosità negli ambienti di lavoro, cui si è pervenuti progressivamente a partire dall’inizio dello sviluppo industriale fino ai giorni nostri, ha corrisposto via via una diminuzione dei casi di asbestosi. Ebbene, sul punto la giurisprudenza risulta divisa. Da un lato, infatti, si è affermato che «all’epoca in cui gli stessi [gli imputati] hanno rivestito funzioni di garanzia ed avrebbero potuto e dovuto attivare le cautele prescritte dal d.P.R. n. 303/1956, la inalazione delle fibre di amianto alla quale i lavoratori sono risultati esposti per effetto della mancata adozione di cautele, specificamente produttiva della patologia riscontrata, era già avvenuta. Né eventuale condotta diversa degli imputati avrebbe potuto in alcun modo evitare l’evento, posto che il meccanismo patogenetico che lo ha scatenato era da ritenersi ormai da anni innescato»[35]. In buona sostanza, rispetto all’asbestosi, si è ritenuto che le esposizioni successive erano irrilevanti, in quanto il meccanismo scatenante si era già innescato. Per altro orientamento, invece, «essendo l’asbestosi polmonare una patologia dose-correlata, ove persista l’esposizione all’amianto si vengono a realizzare in ambiti polmonari già interessati dalla fibrosi nuove sedi fibrotiche che vengono a rendere più serrata e quindi più grave la malattia»; ed ancora, con maggiore esattezza, si è precisato che «aumentando la dose di fibre, non solo è maggiore l’incidenza della malattia fibrotica che deriva dall’esposizione, ma è altresì minore la durata della latenza ovvero della malattia manifesta, con conseguente anticipazione della morte. Il meccanismo di aggravamento concretamente si determina attraverso la realizzazione di sempre nuove sedi di fibrosi asbestosica in àmbiti polmonari già interessati dalla fibrosì, così rendendola più serrata e quindi più grave»[36]. Ebbene, è senza dubbio da accogliere questa seconda soluzione, per la semplice ragione che spiega in termini scientifici la dose-dipendenza dell’asbestosi. L’altra questione concerne l’interazione tra asbestosi e fumo di sigaretta. E sul punto la giurisprudenza, sulla base di quanto affermato in sede scientifica, «individua nel fumo un ulteriore fattore irritativo che aggrava la fibrosi»[37]. Per quanto riguarda il mesotelioma, si devono esaminare tre diversi profili. Anzitutto, si pone il vero e proprio problema della esclusione di eventuali decorsi causali alternativi. Il mesotelioma è infatti pacificamente qualificato come patologia multifattoriale, caratterizzata cioè dal fatto che può essere provocata da diversi meccanismi patogenetici[38]. In particolare, esso risulta cagionato da pregresse lesioni tubercolari, da pregresse patologie infiammatorie croniche oppure dalla esposizione ad alcune specifiche sostanze: amianto, erionite, radiazioni ionizzanti, fluorodeide, fibre di vetro[39]. Il punto fondamentale che si deve aver chiaro è che, a quanto consta, non sembrano esistere meccanismi patogenitici del mesotelioma ulteriori e diversi rispetto a quelli appena descritti, con la conseguenza che sembra di poter affermare che si conoscono tutte le possibili cause di quella patologia. Ed è proprio alla luce di questo presupposto che esiste la possibilità di escludere i decorsi causali alternativi[40]. In secondo luogo, si pone un problema con riferimento alle eventuali sinergie tra mesotelioma ed altri fattori. Così, da un lato, si deve chiarire il rapporto tra asbestosi e mesotelioma; dall’altro lato, la relazione tra fumo di sigaretta e mesotelioma. In ordine al primo rapporto sembra esservi un contrasto, perché mentre per un orientamento scientifico si tratterebbe di patologie e decorsi del tutto indipendenti[41], al contrario, in giurisprudenza, non si è mancato di affermare che l’asbestosi ha un’efficacia concausale del mesotelioma in quanto contribuisce a compromettere il sistema respiratorio[42], o addirittura si è sostenuto che «l’asbestosi può evolversi in mesotelioma pleurico»[43]. E’ opportuno precisare che si tratta di una questione nella sostanza sottovalutata, ma di grandissimo rilievo. Se infatti si dovesse scientificamente concludere che il mesotelioma può essere un’evoluzione dell’asbestosi, le dinamiche di ricostruzione della responsabilità finirebbero per semplificarsi, potendosi affermare la responsabilità per una morte da mesotelioma, di tutti coloro che hanno concorso a determinare la precedente asbestosi, la quale oltretutto è dose-correlata. Così come dovrebbe mutare il modo di concepire il problema della c.d. concretizzazione del rischio, visto che, anche là dove si muovesse da una concretizzazione del rischio fondata su precisi decorsi causali, si dovrebbe riconoscere nella morte da mesotelioma la concretizzazione del rischio delle cautele elaborate per fronteggiare l’asbestosi (v. infra, § 7). Con riferimento al rapporto tra fumo di sigaretta e mesotelioma, anche di recente si è posto in evidenza come, sul piano scientifico, a differenza di quanto accade per il carcinoma, nella patogenesi del mesotelioma manca il sinergismo con il fumo di sigaretta[44]. Per quanto riguarda il terzo profilo relativo al mesotelioma, ci si deve chiedere cosa accade quando, formulata l’ipotesi di innesco del meccanismo rispetto ad un determinato periodo di esposizione, si venga a scoprire dell’esistenza di un periodo lavorativo precedente che potrebbe essere considerato decisivo ai fini della inalazione della bassa dose sufficiente per l’avvio del decorso. Stando alle regole probaborie, o si è in grado di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esclusiva rilevanza del periodo ipotizzato, facendo magari leva su calcoli connessi al periodo di latenza, oppure si è costretti a concludere nel senso della esclusione del nesso per la presenza di un possibile decorso causale alternativo. Detto in altri termini, questa partita sembra giocarsi sul piano esclusivamente probatorio. D’altra parte, secondo una recente elaborazione dottrinale, in queste ipotesi si dovrebbe comunque affermare la responsabilità sulla base della causalità c.d. addizionale: «in caso di assorbimento di una pluralità di dosi cancerogene, ove le leggi scientifiche di copertura attestino che anche una dose minima di amianto sia sufficiente a determinare l’insorgenza della malattia, ciascuna dose deve reputarsi causa della patologia, in quanto lo sarebbe stata vuoi se avesse operato da sola, vuoi se avesse agito unitamente alle altre – come in effetti è accaduto –; e ciò varrebbe, a maggior ragione nel caso in cui risultasse impossibile individuare con certezza la data di innesco del tumore»[45]. Tuttavia, a ben vedere, rispetto alla dose innescante del mesotelioma non sembra possibile parlare di causalità addizionale. Ed infatti, se si ritiene che dosi successive possono cumularsi a quella iniziale, si compie un’affermazione scientificamente falsa, visto che le dosi successive possono incidere, riducendolo, soltanto sul periodo di latenza, là dove tale incidenza si ritenga scientificamente fondata; se invece si afferma che dosi successive avrebbero potuto innescare il meccanismo causale che tuttavia una dose ha già avviato, si finisce per fare implicitamente riferimento ad un evento morte ipotetico, diverso da quello concreto verificatosi hic et nunc, il quale è stato cagionato dalla sola dose realmente innescante. Infine, anche per quanto riguarda il carcinoma, si pongono tre diverse questioni: quella del rapporto tra asbestosi e carcinoma; quella della sinergia tra fumo di sigaretta ed amianto e quella della possibilità di escludere i decorsi causali alternativi. In particolare, in ordine alla prima questione, nella scienza è assolutamente pacifico che il cancro sia una complicanza dell’asbestosi[46]. Ed anche circa il rapporto tra fumo di sigaretta ed amianto, sembra esistere una certezza scientifica rispetto alla sinergia tra questi due fattori in relazione al carcinoma[47]. Più articolato il discorso per quanto riguarda l’esclusione dei decorsi causali alternativi. Ed infatti, il carcinoma, al pari del mesotelioma, è una neoplasia multifattoriale, per cui i meccanismi patogenetici che possono determinarla sono molti. Tuttavia, a differenza del mesotelioma, non è stata ancora raggiunta la conoscenza di tutte le cause possibili, esistendo anche casi di carcinoma polmonare che non si è in grado di spiegare nemmeno in termini probabilistici perché, sulla base delle conoscenze esistenti, non risulta possibile individuare almeno in apparenza alcuna causa. Ecco allora che in questo particolare contesto, in assenza del presupposto della conoscenza di tutte le cause possibili, ancorché esistano leggi scientifiche a carattere statistico, non si è in grado di escludere i decorsi causali alternativi. 5. Le problematiche della colpa. Una breve premessa: pericolo, rischio, “voluntas legis” nella formulazione della regola cautelare Il tema della responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto pone alcune questioni relative alla colpa, sia sul fronte oggettivo che soggettivo. Prima di soffermarsi su di esse, occorre esaminare un profilo preliminare, toccato più volte dalle sentenze, concernente la colpa in generale e, più precisamente, relativo alle modalità di formulazione delle regole cautelari, dovendosi chiarire quali siano le conoscenze che stanno alla base del giudizio di prevedibilità-evitabilità. Si tratta di un profilo preliminare, perché, come vedremo, dal modo in cui esso viene risolto dipende anche la soluzione di ulteriori problematiche (concretizzazione del rischio, valutazione dell’efficacia del comportamento alternativo lecito, etc.). In estrema sintesi, si può dire che rispetto a tale questione esistono tre orientamenti diversi: uno fa riferimento alle conoscenze scientifiche e, in particolare, alle medesime leggi causali utilizzabili per spiegare un decorso causale reale; un altro orientamento ritiene invece sufficiente il riferimento al sapere esperienziale, il quale può anche non essere scientificamente corroborato in termini esplicativi, ma tuttavia deve basarsi su una sorta di razionalità/ragionevolezza che trova il proprio fondamento nell’osservazione empirica e nel bilanciamento fra gli interessi sottesi all’attività lecita e quelli suscettibili di offesa; infine, per un ultimo orientamento le regole cautelari possono essere formulate anche a prescindere dalla dimensione conoscitiva umana, ragion per cui è ben possibile che ci si debba attenere a determinati comportamenti per il solo fatto che essi siano imposti dall’ordinamento, soprattutto se si tratta di fonti positivizzate. L’adozione dell’una o dell’altra visione, come accennato, ha conseguenze di enorme rilievo. Ed infatti, se ci si muove nella prospettiva “scientista”[48], non c’è dubbio che, anzitutto, la dimensione oggettiva della colpa, e quindi la pretesa comportamentale, finisce per essere forgiata più sul concetto di pericolo che su quello di rischio. Senza potersi addentrare troppo nel tema, occorre tuttavia ricordare che il pericolo, pur consistendo in un giudizio prognostico ex ante, si basa su una valutazione relativa a una situazione di fatto rispetto alla quale l’interrelazione tra fattori risulta scientificamente nota (l’interazione dei fattori si esprime in termini potenzialmente eziologici verso un evento di danno)[49]. Inoltre, si deve osservare come la prospettiva scientista determini una concezione della c.d. concretizzazione “del rischio” particolarmente stringente e rigorosa[50]. Se infatti si muove dall’idea che alla base del giudizio di prevedibilità ed evitabilità stanno le stesse leggi causali che valgono per la spiegazione dell’evento, coerenza vuole che una concretizzazione “del rischio” nell’evento verificatosi si abbia quando quest’ultimo risulta il prodotto di specifiche modalità concrete di svolgimento di un determinato procedimento causale: poiché lo stesso dovere di diligenza si basa su determinati procedimenti causali, ai fini dell’imputazione dell’evento concretamente verificatosi è necessario che il decorso causale che ha prodotto l’evento concreto rientri nell’ambito dei possibili sviluppi causali che stanno alla base della regola cautelare. Infine, conseguenze si hanno anche rispetto all’evitabilità. Posto infatti che nella prospettiva scientista risulta impossibile forgiare regole cautelari in assenza di certezze scientifiche, se si viene a scoprire una discrasia tra conoscenze al momento del fatto e conoscenze al momento del processo ovvero si scopre, al momento del processo, che al momento del fatto non si conoscevano le leggi di copertura del fenomeno, allora si deve concludere nel senso della irresponsabilità del soggetto agente[51]. Se ci si muove nella prospettiva del sapere esperienziale, non c’è dubbio che la colpa viene forgiata sulla base del rischio[52]. Il rischio infatti è una situazione non soltanto prodromica rispetto a quella del pericolo, ma anche qualitativamente diversa. Essa, infatti, è caratterizzata o dalla incertezza della interazione di fattori che tuttavia presi di per sé sono scientificamente noti (l’oggetto del rischio non è un fattore determinato, ma l’interazione dinamica di un complesso di fattori) oppure dalla vera e propria incertezza scientifica rispetto al singolo fattore[53]: com’è stato efficacemente affermato, «rispetto al pericolo, dunque, il rischio si caratterizza in ragione di almeno tre elementi differenziali, rispettivamente costituiti dall’ulteriore anticipazione della soglia della tutela penale, dal maggiore dinamismo dei fattori che lo compongono e, last but not least, dal dubbio epistemologico che avvolge le leggi scientifiche, allorquando si tratti di valutare i possibili sviluppi verso l’offesa delle attività intrinsecamente rischiose»[54]. Inoltre, si deve considerare che nella prospettiva esperienziale la c.d. concretizzazione del rischio viene concepita in termini molto più flessibili, per cui si realizza quando esiste un nesso tra il rischio espresso dalla situazione che si intende dominare (es. lavorazione di una determinata sostanza) e “classi” di eventi omogenei derivanti dalla situazione rischiosa (patologie derivanti da tale lavorazione)[55]. E questa omogeneità si valuta attraverso un criterio offerto da alcune caratteristiche della stessa situazione di rischio (es. inalazione o ingestione della sostanza pericolosa). Detto in altri termini, posto che l’evento che si doveva evitare non può essere concepito in termini astratti, tuttavia si deve escludere che si debba trattare di un evento specifico frutto di un particolare procedimento causale, potendosi invece fare riferimento a una categoria di sottoeventi che presentano caratteri comuni ed omogenei connessi alla situazioni rischiosa. Infine, per quanto riguarda l’evitabilità, si deve osservare come nella prospettiva esperienziale non solo è possibile forgiare regole cautelari nell’incertezza scientifica, ma anche che, se al momento del processo si scopre che le regole cautelari non erano capaci di fronteggiare il rischio, la responsabilità deve essere esclusa, a causa dell’inefficacia in astratto della cautela, mentre se si scopre che tali regole erano efficaci, l’evento si imputa egualmente[56]. Infine, se si adotta la prospettiva che potremmo definire “positivistica”, è evidente che il concetto di colpa finisce per perdere il suo substrato empirico-conoscitivo, divenendo così un concetto artificiale e suscettibile di manipolazione. In questa prospettiva, inoltre, diviene impossibile parlare di concretizzazione del rischio e di evitabilità, per la semplice ragione che si è perduto ogni legame con il contesto fattuale, mentre ciò che conta è la mera adozione della regola imperativisticamente imposta. Quale di questi orientamenti è meritevole di accoglimento? Sul piano dei principi mi pare che sia da escludere soltanto l’ultimo. Esso, infatti, attribuendo rilevanza alla mera voluntas ordinamentale rischia di elaborare misure arbitrarie, dando luogo a una forma di responsabilità oggettiva. Nel momento in cui non esiste alcun nesso tra il comportamento dovuto e la situazione reale esistente, si determina un’ipotesi in cui una responsabilità può essere accollata a prescindere dall’esistenza di un legame oggettivo. Al contrario i primi due orientamenti risultano essere rispettosi dei principi di garanzia, perché si basano su questo legame. In particolare, il legame dell’orientamento scientista è indubbio, proprio perché risulta scientificamente fondato. Ma anche l’orientamento basato sul sapere esperienziale ci pare rispettoso dei principi di garanzia, in quanto richiede un contatto con la vicenda concreta, che se non è frutto di quel rigore tipico della conoscenza scientifica, tuttavia si basa su valutazioni razionalmente controllabili e ragionevolmente equilibrate. E sul piano dell’opportunità/coerenza, quale delle due concezioni adottare? Ebbene, è sicuro che la prospettiva scientista sbilancia notevolmente il sistema a favore delle garanzie rischiando tuttavia di frustrare la stessa funzione cautelare della colpa, la quale non potrebbe operare non solo nelle ipotesi di vera e propria incertezza assoluta, in cui non si sa nemmeno se una determinata sostanza è pericolosa, ma anche in quelle in cui si conosce la pericolosità della sostanza, mentre resta ignota l’intera capacità nociva. Al contrario, la prospettiva esperienziale ha il vantaggio di raggiungere un buon punto di equilibrio tra le esigenze di prevenzione e quelle di garanzia, risultando inoltre perfettamente sintonica alle funzioni cautelari proprie della colpa, visto che da un lato permette di affermare una responsabilità quantomeno in presenza di situazioni in cui si conosce la pericolosità della sostanza, e, dall’altro lato, proprio questa pericolosità nota consente di vagliare la razionalità delle scelte cautelari. E la vicenda dell’amianto sembra confermare tutto questo. 6. La prevedibilità in astratto: le conoscenze utilizzate per la formulazione della regola cautelare Ed infatti, per quanto riguarda la questione delle conoscenze da impiegare nella formulazione delle regole cautelari, la giurisprudenza ha aperto all’idea di fare riferimento a conoscenze diverse da quelle scientifiche: «non valgono per l’accertamento dell’esistenza della colpa le regole di spiegazione causale dell’evento. Per l’accertamento della causalità ex art. 40 c.p., come è noto, il criterio per ricollegare l’evento alla condotta è fondato, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite, 10 luglio 2002, Franzese, sull’alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica. Ai fini della imputazione soggettiva dell’evento al soggetto agente, ai sensi dell’art. 43 c.p., la prevedibilità dell’evento dannoso, ossia la rappresentazione in capo all’agente della potenzialità dannosa del proprio agire, può riconnettersi, invece, anche alla probabilità o anche solo alla possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze dannose si producano, non potendosi limitare tale rappresentazione alle sole situazioni in cui sussista in tal senso certezza scientifica»[57]. Di opinione decisamente contraria la maggioranza della dottrina, secondo la quale, invece, la formulazione del giudizio di prevedibilità ed evitabilità deve «basarsi sul medesimo tipo di leggi scientifiche “di copertura” che, ex post, vengono utilizzate per la spiegazione causale dell’evento»[58], poiché, «secondo il paradigma classico, alla base del giudizio di prevedibilità, riferito all’evento, stanno le medesime leggi causali utilizzabili per stabilire una relazione di causa ed effetto»[59]. Come accennato in precedenza, a me pare preferibile la soluzione adottata dalla giurisprudenza, la quale consente di raggiungere un buon punto di equilibrio tra le esigenze di garanzia e quelle preventivo/cautelari espresse dalla colpa. In particolare, anzitutto si deve considerare che la formulazione delle regole cautelari, in quanto regole di condotta, implica di per sé, sempre e necessariamente, una valutazione – per così dire – politica, avente carattere discrezionale, che determina un inevitabile allontanamento dal rigore della prospettiva scientifica esplicativa. E tale valutazione politica riguarda non solo il giudizio di evitabilità (si pensi soltanto alla incidenza che i costi hanno nella individuazione di un comportamento dovuto), ma riguarda anche il giudizio di prevedibilità, essendo rimesso nelle mani dell’ordinamento l’individuazione delle situazioni che si intendono controllare e disciplinare ai fini di contenere il rischio. Di fondamentale importanza, come accennato, è che tale valutazione, soprattutto quando riguarda la prevedibilità, non risulti arbitraria, vale a dire del tutto priva di fondamento razionale e quindi svincolata dalla realtà fattuale. E non c’è dubbio che in presenza di una situazione in cui un’osservazione empirica scientificamente condotta (es. ricerche epidemiologiche) rivela l’esistenza di una consistente associazione tra l’impiego di determinate sostanze e la realizzazione di certi eventi; così come in presenza di una acclarata pericolosità di una sostanza (es. amianto) per una certo patologia (es. asbestosi) che lascia ipotizzare una più ampia pericolosità per eventi simili, risulta del tutto plausibile circondare l’attività di alcune cautele, anche in attesa che la ricerca scientifica possa offrire maggiori informazioni e conoscenze. In secondo luogo, si deve notare come pretendere un sapere scientificamente fondato ai fini della formulazione delle regole cautelati abbia come conseguenza quella di ritenere che in assenza di tali conoscenze non risulta possibile formulare pretese comportamentali. E qui si apprezza proprio lo sbilanciamento a favore della garanzia e a totale discapito delle esigenze preventivo-cautelari, trattandosi senza dubbio di una posizione molto unilaterale. Al contrario, accordare legittimità alle regole cautelari forgiate in assenza di leggi scientifiche di copertura, consente di raggiungere un equilibrio tra tali esigenze, in quanto, da un lato, permette di porre limiti, dall’altro lato, fa salva poi la possibilità di verificare la reale efficacia impeditiva alla luce dell’eventuale successivo progresso scientifico. D’altra parte, ad un’analisi più dettagliata, ci si rende conto di come la vicenda dell’amianto presenti alcuni caratteri del tutto peculiari, che devono far riflettere anche i sostenitori di una colpa basata su leggi scientifiche. Ed infatti, se è vero che al momento dell’omissione delle cautele non si era in grado di conoscere la connessione tra amianto e mesotelioma (e carcinoma), tuttavia è altrettanto indubbio che già a partire dagli anni ’30 del secolo scorso si era a conoscenza della pericolosità dell’amianto, in quanto si avevano conoscenze scientifiche certe in ordine al processo causale relativo all’asbestosi. In sostanza, fino alla fine degli anni ‘70 la “situazione scientifica” dell’amianto era scomponibile in due profili: certezza scientifica per quanto riguarda la nocività della sostanza; incertezza scientifica in ordine all’intera portata di tale nocività. Ebbene, a me pare che la conoscenza scientifica della nocività dell’amianto collochi la sua intera vicenda a metà strada tra il pericolo da conoscenza nomologica e il rischio da incertezza scientifica. In altre parole ancora, anche in una prospettiva che basa la colpa su leggi scientifiche, c’è da chiedersi se ai fini della elaborazione di regole cautelari queste ultime debbano riferirsi solo agli eventi spiegabili oppure non possano riguardare anche eventi ulteriori che, in virtù della pericolosità della sostanza, risultano senza dubbio ipotizzabili. Altro discorso è poi quello di compiere ulteriori verifiche. 7. La prevedibilità in concreto: la c.d. concretizzazione del rischio Ecco allora aprirsi la questione della concretizzazione del rischio: posto che esistevano conoscenze causali in ordine all’asbestosi, le regole cautelari elaborate al fine di prevenire tale patologia erano destinate ad impedire anche altre patologie la cui relazione con l’amianto era ignota, come il mesotelioma (e il carcinoma)? A dire il vero un problema di concretizzazione del rischio è stato prospettato anche per l’asbestosi. Secondo una linea difensiva abbastanza diffusa nei processi relativi a responsabilità da amianto, gli artt. 4, 19 e 21 del d.P.R. n. 303/1956 non costituirebbero norme cautelari miranti a prevenire malattie, ma soltanto l’inalazione di polveri moleste o fastidiose[60], con la conseguenza che in presenza dell’asbestosi, mancherebbe la c.d. concretizzazione del rischio, visto che l’evento verificatosi non concretizza il rischio per il quale era stata elaborata la regola cautelare. La giurisprudenza ammette invece che la disposizione sia orientata ad evitare l’asbestosi, osservando che la ratio complessiva del d.P.R. n. 303/1956 è volta alla tutela della salute dei lavoratori[61]. D’altra parte, anche là dove si volesse aderire all’idea che tale disposizione non sia finalizzata a prevenire malattie, non c’è alcun dubbio che siffatto obiettivo era perseguito dall’art. 377 e, soprattutto, dall’art. 387, d.P.R. 19 marzo 1955, n. 547 (intitolato Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), i quali erano stati previsti proprio ai fini della prevenzione di infortuni sul lavoro[62]. Inoltre, anche nell’ipotesi in cui si volesse ritenere che pure queste ultime disposizioni non erano dirette a prevenire l’asbestosi, considerato che la connessione tra questa patologia e l’amianto era scientificamente nota fin dal 1930 e che nel 1943 l’asbestosi era stata qualificata malattia professionale, coperta da assicurazione obbligatoria (v. l. 12 aprile 1943, n. 455), si deve ritenere che esistessero comunque regole cautelari non scritte che imponevano ai datori di lavoro di dotare i lavoratori di strumenti idonei ad abbattere la circolazione delle polveri. Tornando alla questione del mesotelioma (e del carcinoma), come accennato ci si chiede se, una volta riconosciuto che le regole cautelari erano dirette a prevenire l’asbestosi, si possa affermare che esse erano orientate a prevenire anche il mesotelioma e il carcinoma che, in sostanza, al momento della realizzazione della condotta, non si sapevano essere scientificamente relazionate all’amianto[63]. Ebbene, per chi muove dalle leggi scientifiche, l’evento morte per mesotelioma non si può imputare in quanto frutto di un decorso causale diverso da quello che produce l’asbestosi[64]. Al contrario, per chi muove dal sapere esperienziale e quindi dal concetto di rischio, la regola cautelare che imponeva al datore di lavoro di impedire e ridurre la diffusione di polveri non era diretta ad evitare qualsiasi morte, ma nemmeno la morte per asbestosi, bensì la morte connessa a malattie dell’apparato respiratorio (anche mesotelioma, quindi), in quanto è il rischio dell’amianto per l’apparato respiratorio che porta a coprire tutte le patologie respiratorie connesse all’amianto: «l’art. 21 d.P.R. n. 303/1956, pur se “pensato” in relazione alle malattie respiratorie connesse all’inalazione di polveri all’epoca conosciuta, è norma generale ed astratta, dettata per impedire qualsiasi danno al lavoratore da polveri che si producano nello svolgimento del lavoro, e quindi tanto per evitare la produzione dei danni che sono conosciuti quando la norma è posta, quanto di qualsiasi altro danno la cui derivazione causale dall’inalazione di polveri era sconosciuta nel 1956 (il mesotelioma fu scoperto alla fine degli anni 60 dal Selikoff»[65]. Al di là di alcune espressioni non sempre felici (come ad esempio il riferimento a un generico danno alla salute), ancora una volta a me pare preferibile la soluzione adottata dalla giurisprudenza. Anzitutto, si deve osservare come basarsi sulla certezza nomologica determini una omologazione tra dimensione causale esplicativa e dimensione cautelare normativa non del tutto opportuna. Detto in altri termini, se il riferimento alle leggi causali serve per dare spazio ad una verifica concernente la reale idoneità impeditiva del comportamento alternativo lecito, tuttavia tale spazio non può aprirsi all’interno della fase in cui si pone il comportamento dovuto, bensì in un momento successivo per l’appunto dedicato interamente al problema della efficacia del comportamento alternativo lecito. Diversamente, si finirebbe per ancorare la scelta politica criminale al sapere scientifico, il quale però è il substrato, non il contenuto della scelta. Inoltre, basare il giudizio sulle leggi scientifiche significa nella sostanza ridescrivere le singole fattispecie in termini tali da tipizzare l’evento come il prodotto di specifiche patologie. Più opportuno quindi fare riferimento alle conoscenze esperenziali e ad una concretizzazione del rischio – per così dire – ermeneuticamente e funzionalmente orientata. In questa prospettiva, quindi, si ha una concretizzazione del rischio allorquando l’evento è cagionato dai medesimi canali di rischio[66]. Poi si tratterà di stabilire il criterio alla luce del quale determinare tale canale. Così, ad esempio, se si fa leva sul meccanismo di inalazione delle fibre, pericoloso per le vie respiratorie, non c’è dubbio che anche il mesotelioma e il carcinoma finiscono per concretizzare il rischio. Se invece si dettaglia il rischio ulteriormente, facendo riferimento alla dose-dipendenza, allora è pacifico che il carcinoma concretizza il rischio, mentre per il mesotelioma permangono problemi. Tuttavia, come accennato in precedenza, ancora una volta c’è da chiedersi se la vicenda dell’amianto non presenti delle peculiarità che devono spingere anche i sostenitori della colpa basata su leggi scientifiche verso una certa flessibilizzazione del concetto di concretizzazione del rischio. E la peculiarità è offerta proprio dalla conoscenza scientifica della pericolosità della sostanza. Ebbene, quanto meno rispetto al carcinoma, si dovrebbe davvero concludere nel senso della mancata concretizzazione del rischio in virtù della ignoranza scientifica del rapporto tra amianto e carcinoma? E’ proprio del tutto irrilevante che il meccanismo di produzione di tale patologia sia nella sostanza identico a quello dell’asbestosi? In sostanza, ai fini della concretizzazione del rischio si deve porre proprio l’accento sulla conoscenza degli specifici meccanismi causali oppure è sufficiente la conoscenza generale, ma non generica, del meccanismo patogenetico? 8. L’evitabilità in astratto: l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito Là dove si decida di accogliere l’idea che le regole cautelari elaborate per prevenire l’asbestosi erano finalizzate a prevenire anche eventuali patologie ignote al momento di tale elaborazione, si apre la questione dell’efficacia impeditiva (già in astratto) di tali regole di condotta. Posto infatti che nella prospettiva del rischio le regole cautelari possono essere state elaborate in assenza di una conoscenza scientifica, è ben possibile che scoperte scientifiche successive ne rivelino l’inefficacia. Se ciò accade, si deve affermare l’irresponsabilità del soggetto che ha omesso di tenere comportanti inidonei ad impedire o comunque a ridurre il rischio di verificazione dell’evento. Nell’affrontare questa problematica, preliminarmente si deve osservare come essa sia strettamente connessa a quella della esatta individuazione delle regole cautelari che si sarebbero dovute adottare per impedire l’evento. Fino a quando la giurisprudenza non ha descritto in modo dettagliato le modalità di comportamento che dovevano accompagnare l’attività lavorativa, non v’è stata la possibilità di estendere la riflessione al problema della efficacia impeditiva[67]. Soltanto quando si è passati a individuare in modo circostanziato il comportamento dovuto, la questione della efficacia ha assunto un ruolo tanto importante quanto quello della spiegazione del decorso causale[68]. In particolare, le regole cautelari volte a contenere il rischio amianto sono state individuate nelle seguenti condotte: organizzazione dell’attività lavorativa in modo tale da separare i lavoratori che svolgevano mansioni che comportavano la dispersione delle polveri da tutti gli altri; adozione di aspiratori localizzati in prossimità dei luoghi ove veniva effettuata la lavorazione con l’amianto; bagnatura del materiale in amianto oggetto della lavorazione e pulizia degli ambienti; messa a disposizione di tutti i lavoratori esposti al rischio di inalazione di polveri di amianto mascherine idonee a impedire o comunque ridurre il più possibile l’inalazione di polveri; informazione dei lavoratori sul “rischio amianto”. Ciò premesso, per quanto riguarda l’asbestosi e il carcinoma, sembra essere pacifica l’efficacia impeditiva dei comportamenti appena descritti: «il rispetto delle regole cautelari avrebbe ridotto notevolmente la possibilità del concretizzarsi del rischio, tenuto conto che le lavorazioni con impiego di amianto sono state svolte senza cautele a volte elementari (bagnare le polveri; evitare di intervenire durante lo svolgimento dell’ordinaria produzione; prevedere efficienti impianti di aspirazione; rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici di esposizione), così determinando la diffusione negli ambienti di lavoro delle fibre di asbesto, il loro deposito in detti ambienti e la possibilità di inalazione anche per i lavoratori non addetti alle operazioni di manutenzione»[69]. In particolare, dal punto di vista scientifico risulta pacifico che «solo il drastico abbattimento delle concentrazioni ai posti di lavoro e l’uso di dispositivi di protezione individuale messi in atto dopo gli anni ’70 ha visto pressoché scomparire in Italia casi si asbestosi polmonare»[70]. Con riferimento al mesotelioma tornano invece a porsi problemi sia sul piano scientifico che giuridico. Sotto il primo profilo infatti v’è chi si è espresso nel senso della inevitabilità dell’evento a causa della assoluta inefficacia delle cautele utilizzate ad intercettare le polveri ultrafini: «sulla base delle conoscenze fin qui riportate in merito al fatto che il mesotelioma è causato dalle fibre ultrafini passate dal polmone alla pleura peritale si può affermare con certezza che le misure applicabili fino agli anni ‘90 per eliminare o ridurre i rischi da polveri erano efficaci per prevenire, tra i danni da amianto, la asbestosi che è provocata da tutte le fibre inalate, medie, fini e ultrafini, ma non il mesotelioma che è provato soltanto dalle ultrafini. Queste fibre non erano né visibili né eliminabili con le misure preventive allora disponibili. E’ noto infatti che fino alla seconda metà degli anni 80 sia le maschere antipolvere individuali che i filtri per gli impianti di aspirazione fissi e mobili erano completamente inefficaci perché sicuramente permeabili alle fibre di diametro submicronico»[71]. Altri Autori, invece, si sono dichiarati nel senso della evitabilità: «tale tesi [inevitabilità] è contraddetta in primo luogo dalla letteratura internazionale più recente […] è inoltre contraddetta sia dal fatto che una quota di fibre più fini e più corte diventa tale per trasformazione – all’interno dell’organismo – di fibre più lunghe […] sia dalla dimostrata efficacia (anche nei confronti di fibre più fini e più corte) dei sistemi di aspirazione e di abbattimento delle polveri»[72]. Per quanto riguarda la giurisprudenza, occorre distinguere tra quella di legittimità e quella di merito. La prima tratta assai raramente il tema della efficacia e tende ad adottare una soluzione unitaria che non distinguendo tra le diverse patologie, non distingue nemmeno tra fibre ultrafini e fibre di maggiori dimensioni, in quanto tutte le patologie potrebbero derivare da queste seconde[73]. Nella più recente giurisprudenza di merito si è determinato invece un vero e proprio contrasto, ragion per cui da un lato v’è un orientamento che non distingue tra tipologie di fibre e quindi conclude nel senso della efficacia[74], mentre, dall’altro lato, v’è invece un orientamento che distingue e che rispetto alle ultrafini afferma l’inefficacia e quindi l’inevitabilità[75]. Per impostare correttamente il problema, si deve osservare come in ordine all’efficacia/inefficacia di un comportamento dovuto sia opportuno aver chiara la differenza tra l’inefficacia in astratto e quella in concreto. Mentre, infatti, quest’ultima è frutto di un giudizio normo-valutativo discrezionale (ancorché scientificamente supportato), la prima invece ha carattere esclusivamente scientifico. In particolare, nella verifica in concreto si accerta se nella situazione reale che si doveva fronteggiare fossero o meno presenti alcuni fattori realmente esistenti che si ritiene, là dove fosse stato tenuto il comportamento dovuto, avrebbero invalidato l’efficacia ipotizzata in astratto, con la conseguenza che se tali fattori risultano presenti, si ritiene più opportuno che il soggetto abbia violato la regola cautelare. Il punto che interessa sottolineare è che sia l’ipotesi derivante dalla violazione della regola cautelare, sia quella derivante dal suo rispetto danno luogo a giudizi strutturalmente ipotetici (perché in entrambe le ipotesi il comportamento dovuto non c’è stato), con la conseguenza che si viene a formulare una sorta di comparazione valutativa tra la situazione di rischio derivante dalla violazione della regola cautelare e quella derivante dalla sua osservanza, comparazione che si concluderà o con il maggior rischio derivante dall’omissione (affermando quindi la responsabilità) oppure con il maggior rischio derivante dall’adozione del comportamento dovuto (affermando quindi irresponsabilità). Di tenore decisamente diverso è il giudizio relativo all’efficacia/inefficacia in astratto della regola cautelare, in quanto si tratta di una valutazione che nella sostanza è rimessa nelle mani del mondo scientifico e che si deve presentare nella sostanza certa. I due aspetti della scientificità e della certezza sono strettamente legati tra loro e derivano dal fatto che soltanto la scienza può essere in grado di affermare l’inidoneità “astratta” di un comportamento dovuto, e dal fatto che in un contesto prognostico, soltanto se v’è certezza assoluta in ordine alla impossibilità che il comportamento avrebbe impedito l’evento, allora si può escludere l’efficacia. Mentre se permane una incertezza, si deve concludere nel senso della efficacia, in quanto, rispetto alla c.d. causalità della colpa ci si muove all’interno di un paradigma prognostico che può essere invalidato soltanto dalla assoluta inidoneità del comportamento alternativo lecito[76]. Ciò precisato, con riferimento alle vicende dell’amianto, il nodo da sciogliere riguarda il meccanismo scatenante l’inizio della patogenesi, per cui, posto che anche dosi basse di fibre possono generare il decorso del mesotelioma, si tratta di stabilire se tali fibre debbano consistere soltanto in quelle corte oppure anche in quelle medio-lunghe, c.d. normate. Non c’è dubbio che non sta a noi prendere una posizione sulla diatriba scientifica, tuttavia sul piano giuridico è opportuno suggerire come impostare la questione: se si riscontra e permane una incertezza scientifica in ordine alla idoneità impeditiva delle regole cautelari, si deve concludere nel senso della responsabilità; se invece si afferma con certezza la loro inidoneità, individuando un legame certo tra fibre ultrafini e mesotelioma, si dovrà concludere nel senso della irresponsabilità[77]. D’altra parte, non si può del tutto trascurare la circostanza che con la legge 27 marzo 1992, n. 257, siano stati individuati valori limite di esposizione così bassi, dai quali è possibile dedurre come l’ordinamento abbia finito per considerare nella sostanza impossibile un contenimento del rischio amianto[78]. 9. La questione del “residuo di colpa” La quarta e ultima questione attinente all’ambito oggettivo della colpa, concerne l’eventuale residuo di una responsabilità colposa nonostante il rispetto delle regole cautelari generalmente imposte. Sul punto è necessaria una precisazione preliminare. Il problema di un eventuale residuo di responsabilità colposa non si pone soltanto in presenza del rispetto di determinate regole cautelari scritte (colpa generica che residua nonostante l’assenza di una colpa specifica), ma anche quando si rispettano regole cautelari non scritte, e ciò nonostante si ritiene che possa comunque sussistere un’altra regola cautelare non scritta che si doveva comunque adottare. Detto diversamente, un residuo di colpa generica si può avere anche quando il soggetto ha tenuto comportamenti conformi a regole cautelari non scritte, e ciò perché alla base della plausibilità di un residuo di colpa sta l’esistenza di un mutamento della situazione di pericolo che si deve fronteggiare, mutamento che determinarsi anche se il rischio è fronteggiabile attraverso regole non scritte. Ciò premesso, sono due le problematiche che pone l’amianto sotto questo profilo. La prima, relativa al mesotelioma: se si ritiene che soltanto le fibre ultrafini sono in grado di cagionare il mesotelioma, non c’è dubbio che le cautele imposte negli anni ‘60 e ‘70 erano inidonee a ridurre il rischio, visto che soltanto mascherine con filtri c.d. assoluti avrebbero consentito di evitare l’evento. Ci si potrebbe chiedere, però, se all’epoca dell’omissione delle cautele, tali mascherine esistessero o venissero comunque utilizzate. E un indagine sul punto, anche non molto approfondita, porta a scoprire che effettivamente, in tali anni erano già state prodotte mascherine con filtri assoluti, le quali venivano impiegate esclusivamente nell’industria nucleare e in quella farmaceutica. D’altra parte, nonostante l’obbligo per il lavoratore di adottare le misure più evolute, si deve ritenere che non possa essere mosso alcun rimprovero ai titolari di posizioni di garanzia dell’epoca, non potendosi dimenticare che il parametro che forgia la pretesa nella colpa deve essere costruito sulla base delle caratteristiche del soggetto che agisce in un determinato settore. La seconda problematica riguarda invece sia l’asbestosi che il mesotelioma, là dove si ritenga che la riduzione della sua latenza sia dose-correlata: cosa accade se il livello di polverosità determinatosi nei luoghi di lavorazione risulta essere inferiore a quello considerato limite tollerabile e di sicurezza per la salute dei lavoratori o comunque si “scopra” che si potevano adottare comportamenti ulteriori che avrebbero consentito di diminuire ulteriormente il rischio? Anche su questo punto esistono due orientamenti contrastanti: la maggior parte delle linee difensive, conclude per la irresponsabilità: posto che il limite massimo di esposizione suggerito dai migliori esperti del settore avrebbe a quell’epoca espresso il parametro di riferimento, e che i datori di lavoro sono rimasti al di sotto di tale limite, dovrebbe escludersi la responsabilità. Per altro orientamento, sostenuto soprattutto dalla giurisprudenza, si deve affermare invece la responsabilità[79]. A me sembra corretto affermare la possibilità di una responsabilità, tuttavia si deve precisare la ragione. Sul punto infatti si aprono due alternative molto diverse tra di loro. Da un lato, si può ritenere che si tratti di una vera e propria ipotesi di residuo di colpa. Comunemente si è indotti ad affermare che le ipotesi in cui residua una colpa generica siano quelle in cui è mutata sul piano oggettivo la situazione del pericolo. Tuttavia si deve ritenere che una colpa (generica) può residuare anche quando il soggetto aveva conoscenze superiori rispetto a quelle medie, per cui era in grado di adottare cautele più efficaci: «in questo senso non basterà che l’agente abbia rispettato le regole preventive scritte (attenendosi ad esempio alle prescrizioni dell’autorità pubblica che abbia consentito l’esercizio dell’attività), laddove le sue conoscenze superiori gli permettessero di percepire una rischiosità della condotta superiore a quella trasfusa nella regola cautelare (ed espressione del “solo” livello di informazioni di cui disponeva l’ente autorizzatore). Questa misura di tutela non è indifferente alla misura cui rapportare i parametri della riconoscibilità ed evitabilità. In presenza di conoscenze maggiori sulla fonte di pericolo, proprio il rilievo conferito al principio di precauzione suggerisce un’elevazione dello standard di diligenza»[80]. In questa prospettiva quindi si deve andare a verificare se il soggetto agente concreto aveva conoscenze superiori, e se la risposta è affermativa, allora si può concludere nel senso della responsabilità. Si tratta di una soluzione quindi che finisce per dipendere dalle caratteristiche del soggetto agente, il quale, presentando conoscenze ulteriori rispetto a quelle del parametro medio, diviene il parametro di riferimento. In sostanza, la presenza nel soggetto concreto di conoscenze superiori determina una residuo di colpa generica basata su un parametro consistente in quanto di meglio il soggetto reale era in grado di fare (soggetto reale c.d. astratto). Dall’altro lato, si può fare riferimento ad un’altra prospettiva, basata non sulle conoscenze superiori del soggetto agente, bensì sulla migliore scienza ed esperienza del momento storico, pretendendo da tutti sempre il massimo della diligenza e quindi un costante dovere di aggiornamento. Ed infatti, la responsabilità di chi si è attenuto alle regole cautelari “medie” si può affermare facendo leva sul fatto che è lo stesso parametro che impone la conoscenza di tecniche superiori e quindi impone un costante aggiornamento. E proprio quest’ultima strada sembra essere quella percorsa dalla giurisprudenza. Con riferimento all’asbestosi si è osservato come anche in presenza del rispetto delle cautele poste soprattutto dagli artt. 4, 377 e 387 d.P.R. n. 547/1955 e dall’art. 21 d.P.R. n. 303/1956, si possa affermare una responsabilità a titolo di colpa generica: «nel caso in cui le attività produttive siano intrinsecamente rischiose più intenso è l’obbligo per il datore di assicurare la “massima sicurezza tecnologicamente fattibile” […] L’ordinamento giuridico tollera l’esercizio di tali attività in virtù della loro utilità sociale ma a condizione che esse siano esercitate nel rispetto delle “misure di precauzione massime” relative alle varie situazioni produttive. Ciò genera un più intenso obbligo di diligenza […] Scaturisce da tali disposizioni il dovere-obbligo giuridico per il datore di lavoro di aggiornarsi costantemente sua sponte ed indipendentemente dalle comunicazioni e sollecitazioni effettuate dagli organi di controllo»[81]. In ordine al mesotelioma, si è precisato che «l’inosservanza dei c.d. T.L.V. (ovverosia dei valori limite di esposizione agli agenti dannosi, ivi comprese le polveri) non assurge certo ad elemento necessario per l’integrazione della violazione delle prescrizioni di cui agli artt. 20 e 21 del d.P.R. 303/56, e ciò in ragione del fatto che l’obbligo di prevenzione contro gli agenti chimici scatta a carico del datore di lavoro pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri quantitativi ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriore abbattimento […] con conseguente necessità per il datore di lavoro […] di aprirsi il più possibile agli spazi delle nuove acquisizioni tecnologiche»[82]. Ebbene, da queste affermazioni si possono ricavare due punti fermi. Da un lato, non v’è alcun dubbio che la giurisprudenza sembra abbandonare il parametro dell’uomo medio, basato su quanto mediamente si compie in un determinato contesto e in un certo momento storico, facendo invece riferimento a parametri che innalzano la pretesa rispetto alla media. Dall’altro lato, tra i due parametri che innalzano la pretesa, si sceglie quello senza dubbio più rigoroso, basato sulla migliore scienza ed esperienza. La soluzione ha una sua plausibilità, ma necessita di alcuni chiarimenti. Anzitutto, sarebbe opportuno argomentare molto bene l’esclusione del parametro medio e l’adozione di quelli che esprimono una pretesa più alta[83]. Non ci pare sufficiente, infatti, trincerarsi dietro l’idea che i limiti indicati dalle agenzie costituivano soltanto raccomandazioni o semplici soglie di allarme prive di valenza normativa[84], poiché ragionando in questi termini si escluderebbe la possibilità che le regole cautelari possono essere formulate anche dalla prassi[85]. Al contrario, si deve ritenere che gli usi siano fonti legittimate a produrre regole comportamentali anche perché molto spesso esse sono il frutto di un sapere esperienziale molto più consolidato e consapevole di una valutazione del giudice che rischia a volte di essere arbitraria. Così come non ci pare del tutto corretto affermare che il riferimento a quanto si fa nella normalità dei casi avalla prassi scorrette e impedisce il progresso, in quanto non ha senso parlare dei parametri in termini astratti e assoluti, essendo essi condizionati dalla realtà delle attività che si esercitano. Ecco allora che in questa prospettiva è più opportuno ritenere che mentre il parametro medio si sposa ad attività diffuse e suscettibili di standardizzazione (es. attività mediche “ordinarie”), al contrario quelli superiori sono più funzionali ad attività sperimentali o comunque caratterizzate da margini di incertezza scientifica. Detto diversamente, più il sapere è stabile e diffuso, più ha senso fare riferimento alle prassi consolidate, mentre più si tratta di un sapere di frontiera (quindi esposto all’effetto paradossale della maggiore ignoranza determinata dal progresso scientifico) più ha senso innalzare la pretesa. In secondo luogo, con riferimento ai due parametri che innalzano la pretesa, si deve mettere in evidenza il loro diverso significato. Mentre infatti il parametro che fa riferimento a quanto di meglio un soggetto può fare, può definirsi solidaristico-individualizzante, spingendo il singolo ad utilizzare le proprie conoscenze superiori, quello basato sulla migliore scienza ed esperienza del momento storico può essere definito solidaristico-generalizzante, spingendo tutti i consociati che intraprendono una certa attività a tenere un comportamento particolarmente diligente. Ebbene, anche in questo caso risulta opportuno giustificare molto bene l’adozione di un parametro così elevato come quello della migliore scienza ed esperienza. E sul punto non pare plausibile fare riferimento ai beni che possono essere offesi, visto che anche in altri settori dove si tende a pretendere sulla base della media o comunque di conoscenze superiori di meno (es. circolazione stradale) i beni offendibili sono gli stessi. Più convincente basarsi sul particolare rapporto che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore, non potendosi dimenticare che tale relazione è senza dubbio fortemente antagonista, drasticamente sbilanciata a favore del datore, con la conseguenza che l’ordinamento può avere tutto l’interesse a riequilibrarare la situazione a favore del lavoratore, innalzando la pretesa. Anche perché non si può dimenticare come esista una sorta di resistenza da parte del datore a dare ingresso alle scoperte scientifiche, le quali possono contrastare con il perseguimento dei propri interessi produttivi. D’altra parte non si può trascurare che rispetto al parametro della migliore scienza ed esperienza del momento storico, la maggioranza dei soggetti finisce per essere in colpa, per la semplice ragione che è sempre possibile individuare “nel mondo” una realtà dalla quale ci si doveva informare perché in possesso di conoscenze superiori. Se quindi di per sé non si tratta di un parametro illegittimo, tuttavia è indubbio il rischio di convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva, potendo quindi diventarlo nel momento in cui non si approfondisce la dimensione soggettiva. Detto diversamente, come vedremo nel prossimo paragrafo, l’alta pretesa comportamentale finisce per scaricare il rispetto del principio di personalità della responsabilità sulla misura soggettiva della colpa. 10. La prevedibilità del soggetto agente ovvero la misura c.d. soggettiva della colpa La questione della prevedibilità nella colpa concerne due profili diversi. Da un lato, si pone il problema della prevedibilità – per così dire – in astratto, da parte di un soggetto modello. In questa prospettiva, che abbiamo già esaminato, la questione della prevedibilità attiene al problema delle conoscenze che devono stare alla base della formulazione della regola cautelare (scientifiche o no) e del parametro che si intende utilizzare. Dall’altro lato, si pone il problema della prevedibilità in concreto, da parte cioè dello specifico soggetto concreto in carne ed ossa. Con la prevedibilità in concreto si passa dalla dimensione oggettiva a quella soggettiva della colpa. Ed è questa prevedibilità che adesso si deve esaminare. Mi pare opportuno distinguere tra la prevedibilità dell’evento e la conoscibilità della regola cautelare che è stata violata. Per quanto riguarda la prima, un contributo alla sua elaborazione viene dalla giurisprudenza in tema di colpa in attività illecita. Sia quest’ultima, infatti, che la prevedibilità di un elemento costitutivo del fatto tipico, danno luogo a un giudizio concernente un mero potere, così strutturabile: da un lato, attraverso un agente modello elaborato in termini – per così dire – di ragionevolezza, si selezionano i fattori indizianti che se conosciuti determinano la possibilità di conoscere; dall’altro lato, la conoscenza di tali fattori viene accertata in capo al soggetto reale. Ebbene, rispetto alla vicenda dell’amianto, non c’è alcun dubbio che una di queste conoscenze indizianti fosse offerta proprio dalla consapevolezza della pericolosità dell’amianto per le vie respiratorie, senza che sia necessaria una consapevolezza del meccanismo causale[86]. E non è un caso che sul punto la giurisprudenza affermi che «non occorre, per ritenere integrata la colpa, la rappresentazione dell’evento morte ma è sufficiente che l’agente fosse in condizioni di prefigurare un danno grave alla salute o alla vita»[87]. Certo, il riferimento al danno grave alla salute può generare alcune perplessità, tuttavia o si ritiene che le conoscenze causali sono poste fuori dalla dimensione soggettiva, ampliando lo spettro della conoscibilità, oppure si deve avere il coraggio di accogliere l’opinione isolata, ma coerentissima, di parte della dottrina, secondo cui i meccanismi causali devono essere coperti dalla dimensione soggettiva[88], restringendo così notevolmente l’ambito soggettivo della prevedibilità. Ai fini delle responsabilità è necessaria anche la conoscenza o conoscibilità della regola cautelare. E qui i problemi diventano più consistenti. Se infatti si fa riferimento alle conoscenze medie, posto che chi ha le conoscenze superiori è in colpa anche se si è attenuto alle conoscenze medie, chi ha conoscenze inferiori non è in colpa, a meno che non si sia in presenza di una colpa per assunzione, e cioè il soggetto abbia agito nella consapevolezza che l’attività che andava ad intraprendere necessitava di conoscenze maggiori. Se invece si fa riferimento al parametro della migliore scienza ed esperienza e al dovere di aggiornamento, al fine di evitare scivolamenti verso ipotesi di responsabilità oggettiva, vi devono essere fondate ragioni per attivarsi ai fini delle nuove acquisizioni tecnologiche. In questa prospettiva si apre quindi la problematica del c.d. Anlass, per l’accertamento del quale si deve prendere in considerazione la situazione di fatto. E non c’è dubbio che la presenza di dati fattuali anomali (come ad esempio il sospetto di un incremento di malattie o decessi o la comparsa di malattie o accadimenti ambientali mai osservati prima) possa indurre all’aggiornamento. Così come potrebbero assumere rilevanza anche eventuali segnalazioni di problematiche connesse all’amianto da parte del Consiglio di fabbrica, del Comitato ambiente o del Sindacato. Vero tutto questo in termini generali, per quanto riguarda la vicenda dell’amianto ci si deve rendere conto di come, soprattutto con riferimento al mesotelioma, fosse davvero difficile che in capo ad un soggetto sorgessero motivi per far scattare un dovere di aggiornamento[89], sia perché la stessa scienza si trovava (e si trova ancora) divisa; sia perché, anche quando dai primi anni Ottanta si è iniziato a dare attenzione al problema dell’amianto, la stessa legislazione si è sempre mossa nel senso della utilizzabilità, essendo giunto solo nel 1992 il bando assoluto dell’impiego dell’amianto; sia perché, e direi soprattutto, la stessa modalità di sviluppo della malattia del mesotelioma, caratterizzata da una notevole latenza, ha impedito che si manifestassero quei dati fattuali anomali la cui percezione avrebbe indotto all’aggiornamento. Senza considerare infine che, come accennato, con riferimento al mesotelioma, tale aggiornamento non avrebbe mai permesso di individuare un comportamento autenticamente idoneo a prevenire le patologie, visto che soltanto il bando totale sembra aver scongiurato il rischio di inalazione della dose killer. 11. Considerazioni conclusive La vicenda dell’amianto è molto istruttiva, perché consente di fare un po’ di chiarezza su alcune problematiche di più ampio respiro. Anzitutto, ci permette di compiere alcune precisazioni sul tema della c.d. modernità e sulle torsioni che le categorie penalistiche subirebbero in presenza dei nuovi fenomeni criminosi emersi soprattutto con il progresso tecnologico. E’ affermazione costante e diffusa, infatti, che sempre di più si stia assistendo a mutamenti di paradigma, a trasformazioni della configurazione di alcuni istituti a seguito della pressione di nuove istanze di tutela. A volte si parla addirittura di crisi della legalità, della causalità, della colpa. Ebbene, a me pare che in crisi non siano questi istituti, ma il modo in cui sono stati concepiti fino ad oggi. Detto diversamente, la modernità solo in parte sta ponendo qualcosa di nuovo, mentre tende soprattutto a disvelare ciò che da tempo era presente nella realtà, e che tuttavia non si era in grado di vedere. La modernità smitizza. E la vicenda dell’amianto, da molti considerata una vicenda della modernità che la giurisprudenza avrebbe finito per governare alterando l’istituto della colpa attraverso logiche cautelative (non più cautelari) ispirate al principio di precauzione, a ben vedere, altro non è che una vicenda della colpa. Più precisamente, se da un lato non si può considerare una vicenda classica della colpa, in quanto, rispetto al mesotelioma e al carcinoma, le regole cautelari non si basano su leggi scientifiche, dall’altro, però, non si può parlare nemmeno di una vicenda della modernità, visto che essa non era caratterizzata da una totale ignoranza scientifica in ordine alla pericolosità dell’amianto. Con la conseguenza che tale vicenda può essere forse considera una delle frontiera estreme della colpa. Ecco allora che, proprio grazie alla vicenda dell’amianto, appare possibile distinguere una pluralità di “fenomeni rischiosi” assai diversi tra di loro. Anzitutto, vi sono le ipotesi in cui sussiste una certezza scientifica, rispetto alle quali si elaborano regole cautelari che tengono conto della relazione eziologica tra i fattori (colpa classica, basata sul pericolo). In secondo luogo, vi sono ipotesi in cui ci si distacca dalla interazione potenzialmente eziologica dei fattori, aprendosi così al rischio. All’interno di queste ipotesi si possono poi distinguere alcune varianti. La prima: pur muovendosi in un contesto scientificamente noto, l’interazione tra i fattori viene valutata in una prospettiva dinamica, dando rilevanza a tutta una serie di circostanze che interagiscono tra di loro in termini tali superare la logica eziologica. Così, ad esempio, la regola cautelare che vieta di porsi alla guida in stato di ubriachezza, pur muovendosi in un contesto eziologicamente noto, non può dirsi scientificamente fondata. Ed anche questa è un’ipotesi di colpa classica, basata non più sul pericolo, ma sul rischio. La seconda variante invece si ha quando alla certezza scientifica in ordine alla pericolosità di un determinato fattore si affianca anche una indiscussa incertezza scientifica in ordine alla complessiva portata nociva della fattore. E’ l’ipotesi dell’amianto, che, come accennato, ci pare costituire un’ipotesi di colpa, se non classica, comunque rientrante in un concetto di rischio tutto sommato dominabile dalle conoscenze esistenti al momento della condotta. Infine, v’è la terza variante, in cui l’incertezza scientifica regna assoluta, in quanto nulla si sa in ordine alla stessa pericolosità della sostanza. E, come vedremo a breve, è questa l’ipotesi senza dubbio più problematica, perché se da un lato la totale incertezza eziologica porta a ritenere che ci troviamo al di fuori della colpa, tuttavia c’è da chiedersi se non vi siano ancora margini per immaginare anche in questo caso eventuali regole di condotta derivanti da un giudizio di prevedibilità ed evitabilità. In secondo luogo, in considerazione della vera e propria strage di ex lavoratori che si sta consumando e che, a quanto pare, è destinata a protrarsi per molto ancora[90], è impossibile non chiedersi chi sia il vero responsabile di tutto questo. Anche perché, là dove vi sono tutti i (difficili) presupposti per affermare una responsabilità penale, non me la sento di identificare i datori di lavoro come gli unici colpevoli, in considerazione del contesto di enorme incertezza in cui essi hanno svolto la loro attività. A ben vedere, a me pare che il vero, grande responsabile delle morti da amianto sia soprattutto lo Stato, la dimensione pubblica, le istituzioni, il cui operato è caratterizzato da estrema lentezza e sostanziale disinteresse. Due i profili che devono far riflettere: da un lato, il nostro Paese si è sempre adeguato con discreto ritardo alle normative europee concernenti l’utilizzo dell’amianto; dall’altro lato, nonostante la presenza di numerosi studi condotti anche da scienziati italiani e pubblicati su riviste scientifiche italiane, il potere pubblico non si è mai adoperato per assumere tali conoscenze come base per le proprie scelte politiche. E la vicenda assume contorni davvero oscuri, se non inquietanti, nel momento in cui si considera che la maggior parte delle imprese che hanno utilizzato amianto sono state soprattutto imprese riconducibili in termini più o meno diretti allo Stato (es. Ferrovie dello Stato etc.). Infine, e soprattutto, la domanda fondamentale alla quale si dovrebbe dare una risposta è la seguente: cosa fare affinché tutto questo non possa più accadere? Si tratta di una questione molto complessa, perché apre a tutta una serie di problematiche davvero centrali, e strettamente legate tra di loro, come il rapporto tra Stato, privati e ricerca scientifica e il rapporto tra legislatore, pubblica amministrazione e giurisprudenza. Sotto il primo profilo, a grandissimi linee, si possono distinguere due possibili modelli: quello in cui la ricerca scientifica è quasi interamente nelle mani pubbliche e quello in cui tale attività è condotta soprattutto dai privati, mentre lo Stato gioca un ruolo di controllo. Senza potersi addentrare troppo nel tema, posto che negli ultimi decenni, in termini più o meno consapevoli, si sta passando dal primo al secondo modello e posto che non è da escludere la possibilità di sapienti integrazioni, non c’è dubbio che mentre la ricerca concentrata nelle mani pubbliche è consentanea a una concezione interventista dello Stato, il modello basato sulla ricerca privata è invece coerente con una concezione dello Stato basato sulla governance. Mentre il primo modello presuppone un potere pubblico forte anche dal punto di vista economico e quindi della ricerca, il secondo modello invece riconosce una certa supremazia cognitiva agli operatori economici privati. Ed ancora, mentre il primo modello ha come protagonista potere pubblico avente carattere normativo, al contrario il secondo modello si basa soprattutto sulla attività organizzativa della pubblica amministrativa. Infine, dal punto di vista – per così dire – giuridico-penalistico, mentre il primo modello, se non può essere considerato il modello delle conoscenze scientifiche, quanto meno può essere visto come il modello della colpa e dei reati di pericolo astratto, al contrario il secondo modello, se non può essere considerato il modello della incertezza scientifica, quanto meno è il modello della autogestione “privata” del rischio affiancata a momenti di controllo da parte del pubblico. Ebbene, ed eccoci al secondo profilo, quale che sia il modello che si adotta, si deve ritenere che la giurisprudenza, e quindi anche la colpa, avranno sempre e comunque un ruolo importante da giocare. In particolare, in presenza del primo modello, là dove lo Stato si trova in tutt’altre faccende affaccendato e quindi persiste nella lentezza o addirittura nella latitanza a recepire le indicazioni che provengono dalla scienza, è proprio la giurisprudenza che finisce per svolgere una funzione se non suppletiva, quanto meno integrativa, elaborando standard cautelari tali da responsabilizzare ulteriormente il soggetto privato, come accaduto proprio nella vicenda dell’amianto. Ma pure in presenza del secondo modello, anche là dove il privato svolge la sua funzione di valutazione e monitoraggio dei rischi e la pubblica amministrazione si adopera in un puntuale e costante controllo, c’è sempre il rischio di una preoccupante intempestività del sistema “negoziato” di tutela, rispetto alla quale torna a giocare un ruolo fondamentale la colpa e la giurisprudenza. In entrambe le ipotesi non c’è dubbio, infatti, che si potranno aprire margini di responsabilità colposa basata sulla violazione di un obbligo di approfondimento o aggiornamento scientifico attivato dal manifestarsi di dati fattuali anomali capaci di generare un sospetto in ordine alla pericolosità del fenomeno. Tuttavia, se questi dati fattuali anomali non saranno percepibili, una responsabilità penale non potrà essere affermata. [1] Per un tentativo di ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali più recenti in tema di causalità e colpa in alcune attività rischiose, v. D. Petrini, Rischi di responsabilità oggettiva nell’accertamento della colpa del datore di lavoro e dei dirigenti, in AA.VV., Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), a cura di R. Bartoli, Firenze, 2010, 285 ss.; A. di Martino, Danno e rischio da prodotti. Appunti per una rilettura critica di un’esperienza giurisprudenziale italiana, ivi, 437 ss.; A. Madeo, Attività rischiose socialmente utili e repressione di disastri colposi da parte della giurisprudenza, ivi, 547 ss.; nonché, volendo, R. Bartoli, Paradigmi giurisprudenziali della responsabilità medica. Punti fermi e tendenze evolutive in tema di causalità e colpa, ivi, 75 ss.[2] F. Stella, L’allergia alle prove della causalità individuale. Le sentenze sull’amianto successive alla sentenza Franzese (Cass. IV sez. pen.), in Riv. it. dir. proc. pen., 380; Id., Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali. L’attività medico-chirurgica, in Cass. pen., 2005, 422 ss.; E. Lanza, Il giudizio di causalità per la responsabilità omissiva colposa del medico nelle decisioni della Suprema Corte, in S. Aleo-F. Centonze -E. Lanza, La responsabilità penale del medico, Milano 2007, 166 ss., il quale, dopo aver affermato che la ricostruzione del nesso di causalità contenuta nella sentenza Franzese ha costituito un indubbio punto di riferimento per la giurisprudenza successiva, precisa che «non sono mancate, però, delle soluzioni interpretative che hanno riproposto le ambiguità che avevano caratterizzato la giurisprudenza precedente all’intervento del 2002».[3] Nello stesso senso v. R. Blaiotta, Causalità giuridica, Torino 2010, 363 ss., il quale parla della probabilità logica come di una vera e propria “chiave di volta”.[4] Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2002-11 settembre 2002, Franzese, in Cass. pen., 2002, 3650.[5] In argomento v. per tutti R. Blaiotta, Causalità giuridica, cit., 367 ss.[6] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Bartoli, Il problema della causalità penale. Dai modelli unitarî al modello differenziato, Torino, 2010, 90 ss.; nonché, anche per i riferimenti giurisprudenziali, Id., Paradigmi giurisprudenziali, cit., 129 ss.[7] Sul punto v. per tutti F. D’Alessandro, Le frequenze medio-basse e il nesso causale tra omissione ed evento, in Cass. pen., 2007, 4831 ss. e, in particolare, 4837, dove si afferma che «la prima condizione per poter accedere fruttuosamente ad una dimostrazione della causalità attraverso la “prova per esclusione”, è quella di conoscere tutte le possibili cause di un evento, in modo che non residui alcun caso in cui eventi del tipo di quello considerato non abbiano avuto effettiva e convincente spiegazione».[8] Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 1999, Giannitrapani, in Foro it., 2000, II, 260 ss.[9] Pret. Padova, 3 giugno 1998, Macola, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, rispettivamente 732 e 735; Pret. Torino, 9 febbraio 1995, Barbotto Beraud, in Foro it., 1996, II, 107 ss., con nota di L. Termini; anche in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, con nota di C. Piergallini, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di “diritto penale del rischio”, ivi, 1996, 1473 ss.; anche in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, 217 ss., con nota di D. Micheletti, Tumori da amianto e responsabilità penale, ivi, 1996, 218 ss., sentenza in cui i piani del decorso causale reale e di quello ipotetico si intrecciano costantemente, giungendo a volte a confondersi: prima si esamina il decorso causale ipotetico (122 ss.) parlando di «spiegazione probabile» [corsivo nostro]; poi si esamina il decorso causale reale (128 ss.), facendo riferimento all’esistenza di una «prova scientifica del rapporto eziologico fra asbesto e mesotelioma maligno», ma richiamando rilevazioni epidemiologiche; infine, si torna ad esaminare il decorso causale ipotetico, là dove si scioglie «il nodo della prova del nesso causale nel caso concreto verificando se l’omissione generica e specifica di idonee misure di prevenzione dal rischio di esposizione all’amosite sia stata conditio sine qua non della morte» (135 s.).[10] Cass. pen., Sez. IV, 18 febbraio 2003-2 maggio 2003, Trioni, in CED, n. 20032/2003; anche in Igiene e Sicurezza del Lavoro, 2003, 418; anche in Diritto e pratica del lavoro, 2003, 1685 s.[11] Sul punto v. di recente G. Marinucci, Causalità reale e causalità ipotetica nell’omissione impropria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 523 ss.[12] Nella letteratura scientifica cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, Procedimento penale n. 757/2000 RGNR, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia, 3 febbraio 2004, 6 e 11, dove si afferma che «asbestosi e cancro polmonare sono patologie dose-correlate: possono cioè insorgere solo per esposizioni di una certa rilevanza quantitativa condizionante un accumulo di fibre di asbesto nel polmone importante»; G. Chiappino, Mesotelioma: il ruolo delle fibre ultrafini e conseguenti riflessi in campo preventivo e medico legale, in Medina del lavoro, 2005, 6 dove si precisa che «il mesotelioma pleurico si distingue come patologia che fa eccezione, perché nei soggetti suscettibili esposti ad amianto l’effetto cancerogeno può essere conseguente ad una “dose” estremamente bassa. Per tutti gli altri tumori, al contrario, compreso il carcinoma polmonare da amianto, dosi basse non producono effetti epidemiologicamente dimostrabili»; G. Dondi, Esposizione ad amianto, mesotelioma del lavoratore e responsabilità del datore, in AA.VV., Il rischio da amianto. Questioni sulla responsabilità civile e penale, a cura di L. Montuschi e G. Insolera, Bologna, 2006, 64, secondo il quale «a proposito del carcinoma polmonare, esso è in rapporto sicuro con l’amianto se vi è asbestosi o “l’evidenza di un’affezione pleurica causata dall’amianto” (in difetto di ciò, può essere conseguenza, ad esempio, del fumo di sigarette). Il che presuppone obiettivi riscontri anatomo-patologici e il rinvenimento di fibre di amianto nei polmoni in quantità rilevanti».In giurisprudenza, per quanto riguarda l’asbestosi, v. Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, in CED n. 38911/2010; anche in Dir. pen. proc., 2011, in corso di pubblicazione, con nota di F. Palazzo, Morti da amianto e colpa penale (un banco di prova nell’evoluzione della responsabilità colposa; anche in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 58 s., secondo cui «l’asbestosi è una malattia “dose-correlata”, nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione di fibre. In sostanza la quantità di asbesto che viene inalata nei polmoni e la sua pericolosità sono legati alla durata dell’esposizione: è per tale motivo che l’asbestosi è ritenuta una malattia in cui esiste una stretta correlazione fra “dose” di asbesto inalata e “risposta” dell’organismo»; Cass. pen., Sez. IV, 29 ottobre 2008-19 dicembre 2008, Pilato, in CED, n. 47380/2008, secondo la quale «pur essendo naturale un aggravamento dell’asbestosi anche nel caso di eliminazione dell’esposizione, la continuazione della sottoposizione all’esposizione è invece idonea ad aggravare significativamente la malattia soprattutto se le esposizioni […] siano proseguite con particolare intensità anche se si fosse ridotta nel tempo l’esposizione lesiva. E’ dunque corretta anche l’ulteriore conclusione della Corte di merito sull’irrilevanza dell’accertamento del momento iniziale della contrazione della asbestosi una volta che sia comunque accertato che le esposizioni verificatesi presso SIMAC abbiano significativamente contribuito all’aggravamento della malattia». Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 38 ss.; Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, ivi; anche in Foro ambr., 2007, 316 ss., con nota di C. Beccaredda Boy, Esposizione professionale ad amianto e criteri di imputazione del delitto di omicidio colposo, ivi, 2007, 304 ss.; Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, inedita, 174 ss.Con riferimento al carcinoma, Cass. pen., Sez. IV, 24 novembre 2009-26 gennaio 2010, Cavallucci, in CED, n. 3344/2010, dove si nota come secondo un orientamento scientifico consolidato, un tumore polmonare può essere spiegato sulla base della esposizione all’amianto, se il soggetto è stato colpito in precedenza da asbestosi (asbestosi come precondizione necessaria) o comunque se negli interstizi polmonari risultano presenti numerosissime fibre di amianto; Cass. pen., Sez. IV, 2 febbraio 2001-16 marzo 2001, Biorci, in CED, n. 10770/2001; anche in Igiene e sicurezza del lavoro, 2001, 331, sentenza in cui si parla di «certo condizionamento della patologia oncogena [carcinoma polmonare] dalla asbestosi»; Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999-20 marzo 2000, Hariolf, in CED, n. 3567/2000; anche in Giur. it., 2001, 1709 ss.[13] Cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 17 e 18 ss., il quale, con riferimento alla latenza afferma che «il periodo medio di latenza si colloca tra i 35 ed i 40 anni» e, in ordine alle dosi basse, precisa che «il mesotelioma può essere il risultato di bassi livelli e/o relativamente brevi esposizioni […] Esiste un’importante differenza di comportamento tra le lesioni che l’amianto provoca in sede pleurica […] che non sono legate all’entità dell’esposizione e quelle che l’amianto provoca a livello polmonare (asbestosi e cancro) che sono invece strettamente correlate all’entità dell’esposizione […] Il mesotelioma con questa sua caratteristica di indipendenza dalla quantità di amianto inalata, si differenzia non solo da asbestosi e cancro polmonare da amianto, ma anche da tutti gli altri tumori da causa o concausa nota, professionali e non […] per i quali è costantemente ritrovabile una netta correlazione dose/risposta»; G. Chiappino, Mesotelioma, cit., 14, il quale, con riferimento alle dosi basse, precisa che «per il mesotelioma la letteratura ed anche l’esperienza recente dei registri evidenzia casi sempre più numerosi attribuibili ad esposizioni tanto basse da essere sovrapponibili a quella esistente nell’ambiente generale di vita», e, con riferimento al periodo latenza, ritiene che esso è «nella grande maggioranza dei casi superiore a 20 anni e spesso protratto ben oltre i 40»; B. Terracini-F. Carnevale-F. Mollo, Amianto ed effetti sulla salute: a proposito del più recente dibattito scientifico-giudiziario, in Foro it., 2009, V, 148, i quali affermano: «le conoscenze raccolte nel corso degli anni connotano rigorosamente le caratteristiche del mesotelioma: una sopravvivenza molto breve dal momento della diagnosi; un lungo intervallo dall’inizio dell’esposizione (quando esso è definibile con precisione) alla comparsa del tumore; il manifestarsi anche a seguito di inalazione di dosi di amianto più basse di quelle che abitualmente producono l’asbestosi».In giurisprudenza, sottolinea bene l’esistenza di una legge scientifica statistica in ordine alla relazione causale tra polveri da amianto e mesotelioma Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 17 s., con nota di S. Zirulla, Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell’evento in relazione alle morti derivate da mesotelioma pleurico, sentenza in cui si afferma che «nel giudizio in esame è ammessa senza contestazioni l’esistenza di una legge scientifica inerente alla relazione causale probabilistica tra inalazione delle polveri di amianto e l’affezione tumorale denominata mesotelioma pleurico».[14] In ordine al problema della individuazione del tipo di patologia v. Cass. pen., Sez. IV, 30 marzo 2000-6 febbraio 2001, Camposano, in CED, n. 5037/2001; anche in Foro it., 2001, II, 278 ss.[15] In argomento v. Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999-20 marzo 2000, Hariolf, cit., 1709; App. Genova, 30 marzo 2005, O.P., in Corr. mer., 2005, 1184 ss., con nota di L. Masera, Esposizione ad amianto e nesso causale: nuovi spunti di riflessione, ivi, 2005, 1186.[16] Nella giurisprudenza di merito v. App. Genova, 30 marzo 2005, O.P., cit., 1185; Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, cit., 317 s.; Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 192 ss.; Pret. Bergamo, 3 aprile 1997, Covili, in Foro it., 1998, II, 499 s., con nota di L. Tramontano, Ancora in tema di morte per intossicazione da amianto: brevi rilievi problematici sulla “ri-descrizione dell’evento” nella verifica del nesso causale, ivi, 1998, II, 484 ss.Nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001-13 febbraio 2002, Covili, in CED, n. 5716/2001; anche in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 737, con nota di D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte ci Cassazione sull’ “oltre ogni ragionevole dubbio, ivi, 202, 743 ss., sentenza che con riferimento al mesotelioma contesta la dose dipendenza, ma non sul piano del fondamento scientifico (come dimostra il fatto che non si adotta la soluzione opposta della dose indipendenza), bensì in ordine al suo carattere statistico-probabilistico, di per sé incompatibile con l’idea della certezza assoluta posta a base della spiegazione causale: «la Corte [d’Appello] parla di probabilità di sviluppo della malattia e, poco più avanti, insiste nel dire che “il perdurare dell’esposizione a sostanze mutagene non può essere privo di influenza sulla probabilità che il tumore si sviluppi o addirittura progredisca e – aggiunge – è siffatta adesione ad un modello di causazione multipla della patologia degenerativa in esame che porta il perito a concludere che, più che parlare di aggravamento di essa dopo l’innesco biologico, causato dal protrarsi dell’esposizione e penalmente rilevante, si debba, invece, più correttamente parlare di aumento delle probabilità che la patologia progredisca”. Come può notarsi, nulla del più semplice aumento della probabilità che il protrarsi della esposizione faccia progredire la patologia e questa semplice probabilità è molto lontana […] da quel giudizio di elevato grado di credibilità razionale che la corte formula nel momento in cui collega gli eventi-morte, quanto meno, in termini di aggravamento della malattia alla permanente esposizione delle vittime alle polveri di amianto».[17] Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2002-14 gennaio 2003, Macola, in CED, n. 988/2002; anche in Foro it., 2003, II, 324 ss., con nota di R. Guariniello, Tumori professionali da amianto e responsabilità penale, ivi, 2003, II, 324 s.; anche in Cass. pen., 2003, 3383 ss., con nota di R. Blaiotta, Causalità e neoplasie da amianto, ivi. 2003, 3391 ss. Nello stesso senso v. Cass. pen., Sez. III, 21 gennaio 2009-17 marzo 2009, Chivilò, in CED, n. 11570/2009, la quale fa riferimento ad una generica «morte da amianto» e poi precisa che «la Corte territoriale, mediante un esame puntuale e preciso del contesto ambientale in cui si era svolta l’attività lavorativa delle persone offese […] ha accertato, con congrua motivazione: […] b) che il perdurare delle esposizioni nocive nell’intervallo di tempo in cui gli attuali ricorrenti avevano svolto attività dirigenziale presso le vetrerie Lodi/Gav […] aveva prolungato ed aggravato in modo significativo il rischio malattia con conseguente incidenza causale nella determinazione dell’evento morte»; sullo stesso caso, e sempre nello stesso senso, già Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 2005-27 ottobre 2005, Chivilò, in CED, n. 39393/2005, secondo cui «va in sostanza ribadito che aumentando le assunzioni di dosi cancerogene aumenta l’incidenza dei tumori e si abbrevia la durata del periodo di latenza con accelerazione nella produzione dell’ evento morte. Sussiste il nesso causale allorché la condotta considerata abbia avuto durata apprezzabile»; Cass. pen., Sez. IV, 11 aprile 2008-3 giugno 2008, Mascarin, in CED, n. 22165/2008; anche in Cass. pen., 2010, 205, con nota di M. Surace, La morte del lavoratore per l’esposizione a polveri di amianto: condizione perché sussista la responsabilità del datore di lavoro, ivi, 2010, 211 ss., sentenza che qualifica la patologia tumorale come «mesotelioma maligno epiteliomorfo» e poi, nel condividere le conclusioni della Corte di Appello, conclude che «la scienza medica riconosce un rapporto esponenziale tra dose cancerogena assorbita determinata dalla durata e dalla concentrazione dell’esposizione e risposta tumorale […] Nel caso di specie la corte territoriale, servendosi delle conclusioni e delle spiegazioni del perito, indica le conoscenze scientifiche attraverso le quali giunge ad affermare che sussiste nesso di causa tra condotta ed evento anche quando non si può stabilire il momento preciso dell’insorgenza della malattia tumorale, perché è sufficiente che la condotta abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza»; Cass. pen., Sez. IV, 29 novembre 2004-1° marzo 2005, Marchiorello, in CED, n. 7630/2005; Cass. pen., Sez. IV, 9 maggio 2003-9 maggio 2003, Monti, in CED, n. 37432/2003; anche in Foro it., 2004, II, 69 ss., con nota di R. Guariniello; Cass. pen., sez. IV, 12 marzo 2002-16 aprile 2002, Balbo di Vinadio, in CED, n. 14400/2002; anche in Diritto e pratica del lavoro, 2002, 1711.Nella giurisprudenza di merito v. App. Venezia, Sez. IV, 15 gennaio 2001, Macola, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, 445 s.; Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 77 ss.; Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, cit., 35 s.; Trib. Cuneo, 20 dicembre 2008, Chino, ivi, 9; Trib. Bologna, 18 luglio 2005, Sambri, in Giust. pen., 2007, II, 186 ss., con nota di M. Ricciarelli, Il punto sulla correlazione causale tra mesotelioma ed esposizione ad amianto ai fini della responsabilità penale, ivi, 2007, 168 ss.In argomento si v. anche Cass. Sez. IV, 29 ottobre 2008-19 dicembre 2008, Pilato, cit. e Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2008-30 settembre 2008, Rizza, in CED, n. 42128/2008; anche in Dir. pen. proc., 2009, 152 ss., le quali, pur ritenendo la questione irrilevante nel proprio giudizio, accennano al problema se sia vero che l’innesco del mesotelioma pleurico possa avvenire anche in base ad una sola inalazione. In particolare, la prima sentenza, che distingue tra asbestosi, cancro polmonare e mesotelioma pleurico, finisce per prendere una posizione là dove afferma che «di questa ricostruzione causale [dose indipendenza] è stata da varie fonti scientifiche evidenziata la natura congetturale ma, ovviamente, non è questa la sede per un dibattito di natura scientifica, dovendosi però rilevare che la tesi riferita in altre vicende processuali non è stata accolta dagli esperti nominati dai giudici di merito in altri processi». La seconda sentenza, invece, non prende posizione, accennando solo al fatto che sulla questione «è reiteratamente intervenuta questa Corte suprema, chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’utilizzazione delle discusse enunciazioni scientifiche in ordine all’effetto acceleratore della latenza determinato dalla protratta esposizione».Infine, in argomento si v. Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2003, Giacomelli, in Foro it., 2004, 69 ss., con nota di Guariniello, sentenza relativa a un adenocarcinoma alle fosse nasali derivante dall’esposizione a polveri da legno.[18] Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, in CED, n. 5117/2008.[19] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 58.[20] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 72. Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 42 «sul tema scientifico dell’accelerazione dei processi eziologici si registra nella giurisprudenza una situazione che, magari giustificata all’interno di ciascun processo e delle informazioni e valutazioni scientifiche che vi penetrano, risulta tuttavia inaccettabile nel suo complesso. Si fa riferimento al fatto che, come nel presente giudizio, il ridetto effetto acceleratore viene ammesso, escluso, o magari riconosciuto solo parzialmente, con apprezzamenti difformi dai giudici di merito»; Cass. pen., Sez. IV, 24 novembre 2009-26 gennaio 2010, Cavallucci, cit., la quale, pur non entrando nel merito della vicenda in virtù dell’estinzione del reato per la morte sopravvenuta dell’imputato, nel riportare con puntualità i motivi del ricorso per Cassazione, delinea con rigore la distinzione tra mesotelioma pleurico e tumore polmonare. Nella stessa prospettiva sembra muoversi anche Cass. pen., Sez. IV, 15 maggio 2003-1° luglio 2003, Eva, in CED, n. 27975/2003; anche in Cass. pen., 2005, 424 ss., con nota di Di Salvo, Tumori da amianto e nesso di causalità, ivi, 2005, 429 ss., sentenza che però sembra accogliere anche l’idea della latenza del mesotelioma come indipendente dalla esposizione, nel momento in cui lega l’efficacia causale delle successive esposizioni alla formazione di «altri focolai di malignità», lasciando così intendere che la successiva esposizione non sembra aver accelerato il decorso causale, avendo eventualmente contribuito a sviluppare ulteriori focolai rispetto a quelli già formatisi.[21] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 73; Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 50, la quale precisa che «si tratterà di appurare: 1. se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico; 2. nell’affermativa, occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico; 3. nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica occorrerà chiarire se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali».[22] Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, cit. Si v. anche Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 90, la quale ammette che l’asserito rapporto tra riduzione della latenza e aumento dell’esposizione ha natura osservazionale o epidemiologica.[23] Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, cit. Negli stessi termini v. Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, cit., 36. Nella giurisprudenza di merito cfr. anche Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 55 s., in cui si afferma: «anche nell’ipotesi in cui la legge di copertura sia in grado di spiegare ed affermare il rapporto tra una determinata condotta ed un determinato evento in termini solo probabilistici ovvero attestando una successione tra le due entità non rilevabile nella totalità o nella quasi totalità dei casi osservati, non solo per questo si imporrà la conclusione che il rapporto di causalità non può affermarmi come sussistente nel caso concreto […] Pertanto, qualora all’esito dell’attenta e completa valutazione del materiale istruttorio […] non sia possibile individuare spiegazioni causali alternative suscettibili di venire in rilievo nel caso concreto ovvero l’interferenza di fattori alternativi in grado di porsi (ovviamente non solo sulla base di mere congetture) quale causa alternativa rispetto a quella ipotizzata dalla legge di copertura anche non dotata di valenza universale e probabilistica prossima al 100%, il giudice potrà senz’altro ritenere la spiegazione fornita da quest’ultima, nel caso concreto, non sia smentita o comunque posta in dubbio dalle risultanze istruttorie e sia perciò in grado di spiegare, con alto grado di credibilità razionale [corsivo nostro], il rapporto eziologico tra la condotta e l’evento, rapporto che potrà quindi ritenersi processualmente accertato in modo certo [corsivo nostro], nonostante il fatto che la legge di copertura – evidentemente a causa dei limiti delle conoscenze acquisite dalla scienza sul fenomeno oggetto di indagine – non sia ancora di per sé in grado di illustrare in modo completo il meccanismo eziologico che porta al verificarsi dell’evento, e, quindi, possa allo stato affermare sotto il profilo scientifico solo in termini non confinanti con la certezza la ricorrenza di rapporti di successione [corsivo nostro]». E alla luce di questa premessa si giunge alla conclusione che «la spiegazione fornita dal Ricci per sostenere l’efficacia patogena delle esposizioni successive, con effetti sia sull’insorgenza del mesotelioma, sia sulla riduzione del tempo di latenza (nei casi in cui la dose inalata sarebbe comunque stata di per sé in grado di indurre il processo neoplastico irreversibile, seppur in un tempo maggiore), appare quindi dotata di alta credibilità razionale [corsivo nostro] e, comunque, trova conforto nei dati sia di laboratorio, sia di natura epidemiologica illustrati dai periti nel presente dibattimento» (92; ma si v. anche 95.).[24] Sulla inutilizzabilità delle rilevazioni epidemiologiche in funzione esplicativa, cfr. di recente C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, 486 ss. In giurisprudenza, per considerazioni interessanti, che sembrano alla fine escludere l’efficacia esplicativa di rilevazioni epidemiologiche in sé e per sé considerate, v. Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 17, in cui si afferma che «con tutta la cautela suggerita dall’incombente rischio di errore, è ben possibile che possa essere infine enunciata una affidabile relazione causale di tipo probabilistico accolta dalla comunità scientifica […] D’altra parte, si è pure compreso che, anche in presenza di un dato statisticamente significativo, oltre alla correttezza metodologica dell’indagine epidemiologica, assumono grande importanza sia la presenza di informazioni d’ordine biologico che spieghino [corsivo nostro] “dall’interno” i meccanismi della relazione causale che l’epidemiologia stessa ha assunto dalla relazione probabilistica, sia il positivo riscontro dell’utilità delle misure preventive adottate dopo la scoperta della relazione causale».[25] V. per tutti P. Veneziani, Regole cautelari “proprie” e “improprie”. Nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003, 121 ss.; L. Masera, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir. pen. proc., 2006, 499.[26] C. Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili dommatici e politico-criminali, Milano, 2004, 198 ss.[27] V. ancora G. Chiappino, Mesotelioma, cit., 17, dove si precisa che recenti ricerche «hanno definitivamente indicato per il mesotelioma l’agente ed il punto d’innesco del meccanismo patogenetico: fibre ultrafini ed ultracorte in concentrazioni puntiformi nella pleura peritale»; B. Terracini-F. Carnevale-F. Mollo, Amianto ed effetti sulla salute, cit., 152, in cui si afferma che «le fibre di asbesto di tutte le lunghezze inducono risposte patologiche». In giurisprudenza v. la dettagliata ricostruzione in Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit. 70 ss.; Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, cit.[28] B. Terracini-F. Carnevale-F. Mollo, Amianto ed effetti sulla salute, cit., 152.[29] G. Chiappino, Mesotelioma, cit., 14. Nello stesso senso cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., secondo il quale «si deve concludere che, quando una quantità di amianto, anche assai modesta è stata inalata (dose innescante: “trigger dose”) qualche altro fattore o insieme di fattori agisce nel corso dei successivi due-tre decenni per far comparire in alcuni soggetti il mesotelioma, anche indipendentemente da altre successive esposizioni a fibre di asbesto».[30] G. Chiappino, Mesotelioma, cit.,15.[31] Senza volersi addentrare in campi a noi del tutto estranei, in buona sostanza il punto scientifico ancora da chiarire sembra essere il seguente: posto che è pacifico che il processo di cancerogenesi del mesotelioma si caratterizza per una struttura multistadio; posto che è pacifico che la prima fase di c.d. iniziazione innesca il meccanismo di proliferazione di alcune cellule bersaglio presenti nel mesotelio; posto che è pacifico che nella terza fase di latenza propriamente detta la cellula è ormai divenuta neoplastica e l’esposizione successiva è del tutto irrilevante; ebbene, tutto ciò posto: la seconda fase c.d. di promozione, nella quale le cellule iniziate assumono un vantaggio proliferativo per effetto del cancerogeno, innesca o meno un processo cancerogeno autonomo, vale a dire un processo rispetto al quale le eventuali esposizioni successive sono irrilevanti, come avviene senza dubbio nella terza fase? In altre parole, rispetto a un processo già iniziato, ulteriori fibre di amianto che raggiungono la pleura hanno soltanto una funzione iniziante di un altro processo (e in seguito anche promovente dello stesso processo iniziato) oppure anche promuovente dell’altro processo già in corso?[32] Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, cit.; Cass. pen., Sez. IV, 22 maggio 2007-4 luglio 2007, Orlando, in CED, n. 25528/2007, le quali cassano con rinvio sentenze che avevano adottato la soluzione della dose-indipendenza, in quanto le Corte territoriali non hanno valutato se l’inalazione prolungata, benché non necessaria per l’induzione, avesse abbreviato il processo di latenza conclusosi con la morte del lavoratore; Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 71 ss., la quale invece cassa con rinvio una sentenza che aveva adottato la soluzione opposta della dose-dipendenza.[33] In quest’ultima prospettiva v. Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 50, la quale però tuttavia successivamente afferma che un nesso può esistere anche in presenza di una legge probabilistica, purché si sia in grado di chiarire «se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali [corsivo nostro]».[34] Trib. Milano, 20 dicembre 1999, Montigelli, in Foro ambr., 2000, 293 s., con nota di F. Mucciarelli, Colpa e causalità: una sentenza contro il brocardo “qui in re illecita versatur, teneatur etiam pro casu”, ivi, 2000, 294 ss.; soluzione avallata poi da Cass. pen., Sez. IV, 18 febbraio 2003-2 maggio 2003, Chiliberti, in Foro ambr. 2003, 303, con nota di F. Mucciarelli, La Corte di Cassazione e la causalità omissiva: il termine d’una contrastata vicenda, ivi, 2003, 303 ss.[35] Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, cit.[36] Trib. Bari, Sez. II, 13 dicembre 2004, D.S., in Corr. mer., 2005, rispettivamente 451 e 454, con nota di L. Masera, Un nuovo caso di responsabilità penale per esposizione ad amianto, ivi, 2005, 458 ss.[37] Trib. Bari, Sez. II, 13 dicembre 2004, D.S., cit., 455.[38] Isolatamente, nel senso della “monocausalità”, v. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 191 s.[39] Nella letteratura scientifica cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 26; nonché E. Di Salvo, Causalità e responsabilità penale, cit., 137, e gli Autori ivi citati; F. Stella, L’allergia alle prove della causalità individuale, cit., 421 ss. In giurisprudenza v. la puntuale ricostruzione contenuta in Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 64 s.; Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, cit., anche con riferimento alla problematica correlazione tra mesotelioma e virus SV 40 (detto anche Simian Virus).[40] Nella giurisprudenza cfr. la corretta impostazione di App. Venezia, Sez. IV, 15 gennaio 2001, Macola, cit., 444: «poiché è processualmente assente qualsiasi sospetto di esposizioni significative a erionite o a radiazioni ionizzanti da parte dei dipendenti delle O.M.S. morti, mentre per tutti è accertato l’espletamento di attività professionale che metteva a contatto con le polveri d’amianto […] è processualmente certo che le morti per mesotelioma siano riconducibili all’esposizione all’amianto nel corso dell’attività lavorativa»; Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 63, in cui si afferma: «così individuate le possibili cause (certe ovvero in corso di studio e valutazione) del mesotelioma alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, va detto che all’esito dell’istruttoria deve senz’altro escludersi che qualcuno dei cinque lavoratori deceduti avesse potuto contrarre il mesotelioma per effetto di una delle possibili cause indicate dai periti come alternative all’esposizione a fibre di amianto. D’altra parte dall’istruttoria non è emerso alcun elemento che potesse anche solo far sospettare che la causa della morte fosse riconducibile ad altra e diversa patologia»; Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 25 ss.[41] Cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, 10, secondo il quale, le conoscenze scientifiche attuali indicano che, a differenza di quanto avviene per il mesotelioma, il cancro polmonare è una complicanza dell’asbestosi che “prepara l’insorgenza della neoplasia”».[42] Cass. pen., Sez. IV, 29 ottobre 2008-19 dicembre 2008, Pilato, in CED, n. 47380/2008, secondo la quale «contrariamente a quanto si afferma nei ricorsi, la sentenza impugnata ha adeguatamente e logicamente motivato su questa efficienza concausale, perché ha ricordato come l’asbestosi avesse già seriamente compromesso il sistema respiratorio di Calì G.C., prima ancora che il mesotelioma si manifestasse, perché nel 1998 il paziente (deceduto il 21 febbraio 2000) già soffriva di “dispnea sempre più ingravescente accompagnata da toracoalgie” e che la causa immediata della morte è stata individuata nell’insufficienza respiratoria».[43] Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, cit., 28.[44] G. Chiappino, Mesotelioma, cit., 11. In giurisprudenza v. Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, cit., 29; Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 191 s.[45] L. Siracusa, Causalità e colpa nell’esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto tra “caos” e “logos”, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, 1001 s., la quale precisa ulteriormente che «impostato in termini di causalità addizionale, il tema delle dose sufficienti a produrre la malattia tumorale perderebbe dunque di rilievo, se non altro perlomeno sotto il profilo della causalità della condotta, che dovrebbe essere senz’altro ammessa […] Se ci si colloca nella prospettiva di assimilare la questione dei livelli quantitativi di amianto al modello classico della causalità addizionale, si può infatti pervenire all’opposta conclusione di considerare l’accadimento lesivo imputabile a tutti i soggetti che abbiano assunto la direzione dell’impresa nell’arco temporale in cui è avvenuto il contatto con la sostanza nociva, dato che la condotta di ciascuno corrisponderebbe alla somministrazione di una dose di sostanza nociva in grado di ingenerare la malattia, come nell’esempio di scuola del veneficio a piccole dosi».[46] V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 11, secondo il quale «il cancro polmonare può essere attribuito all’amianto soltanto quando compaia su una persistente asbestosi»; G. Dondi, Esposizione ad amianto, cit., 64. In giurisprudenza, in termini problematici, cfr. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 179 ss.[47] Nella letteratura scientifica cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 9 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., Sez. IV, 9 maggio 2003-9 maggio 2003, Monti, cit.; Cass. pen., Sez. IV, 2 febbraio 200-16 marzo 2001, Biorci, cit., 331, secondo la quale ove operino «più fattori cancerogeni cumulativamente e in modo sinergico fra di loro e in modo moltiplicativo […] per il principio di equivalenza delle cause non può ritenersi interrotto il nesso di causalità per il concomitante e sinergico e moltiplicativo operare di altre cause». Nella giurisprudenza di merito v. App. Torino, 30 marzo 2001, Bonicelli, in Giur. it., 2001, 2143 ss., con nota di F. Voltan, Normativa in materia di igiene e sicurezza per i lavoratori esposti ad amianto e nesso di causalità nel reato ex art. 589, 2° comma, c.p., ivi, 2001, 2141 ss.; App. Venezia, Sez. IV, 15 gennaio 2001, Macola, cit., 444; Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 205 ss., dove, però, poi si affronta la questione ancora più specifica del rapporto tra fumo di sigaretta e “bassi livelli” di esposizione all’amianto e rispetto a questo specifico problema si giunge alla conclusione di una mancanza di interazione; Pret. Padova, 3 giugno 1998, Macola, cit., 734.[48] Si muovono in tale prospettiva G. Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 208 s.; C. Piergallini, Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1698 s.; G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole cautelari, ivi, 2005, 29; F. Giunta, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 241 ss. D. Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen. proc., 2008, 648 s. Inoltre, si cfr. V. Attili, L’agente modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, ivi, 2006, 1254; C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, cit., 541 ss., la quale afferma che «il rischio tipico è inscritto (come rischio minore) nella più ampia circonferenza che delimita l’evento tipico; mentre la circonferenza del cerchio minore corrisponde allo spettro della regola cautelare» (553); R. Martini, Incertezza scientifica, rischio e prevenzione. Le declinazioni penalistiche del principio di precauzione, in AA.VV., Responsabilità penale e rischio, cit., 584 ss.[49] G.A. De Francesco, Dinamiche del rischio e modelli d’incriminazione nel campo della circolazione di prodotti alimentari, in Riv. dir. agr., in corso di pubblicazione, 4 (del dattiloscritto).[50] G. Forti, Colpa ed evento, cit., 504; D. Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, cit., 651.[51] V. per tutti D. Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, cit., 652, secondo il quale «ai fini del giudizio di colpa, le regole precauzionali eventualmente emanate in base al principio di precauzione potrebbero rivelarsi idonee a funzionare come regole cautelari solo qualora il sapere scientifico successivamente acquisito abbia trasformato il precedente sapere incerto in un sapere nomologico corroborato».[52] Per tale prospettiva, cfr. C. Ruga Riva, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di incertezza scientifica, in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini e C.E. Paliero, vol. II, Teoria della pena – Teoria del reato, Milano, 2006, 1759 ss.; inoltre, sia consentito rinviare a R. Bartoli, Il problema della causalità penale, cit., 90 ss.[53] G.A. De Francesco, Dinamiche del rischio, cit., 4 (del dattiloscritto).[54] G. Morgante, Spunti di riflessione su diritto penale e sicurezza del lavoro nelle recenti riforme legislative, in Cass. pen., 2010, 3323.[55] C. Ruga Riva, Principio di precauzione, cit., 1768 ss.[56] R. Bartoli, Il problema della causalità penale, cit., 95 ss.[57] Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, cit. Nello stesso senso, cfr. Cass. pen., Sez. IV, 9 maggio 2003-9 maggio 2003, Monti, cit.; Cass. pen., Sez. IV, 30 marzo 2000-6 febbraio 2001, Camposano, cit. Nella stessa prospettiva, rispetto a ipotesi diverse da quelle di esposizione di lavoratori ad amianto, cfr. Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006-6 febbraio 2007, Bartalini, in CED, n. 4675/2007; anche in Foro it., 2006, II, 570, con nota di R. Guariniello, Tumori professionali a Porto Marghera, ivi, 2006, II, 551 ss., sentenza relativa alla sostanza CVM in cui si afferma che «le regole di spiegazione causale dell’evento non possono valere per l’accertamento dell’esistenza della colpa. La soglia […] oltre la quale l’agente può prevedere le conseguenze lesive della sua condotta, non è costituita dalla certezza scientifica ma dalla probabilità o anche delle sola possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze di producano. Naturalmente questa possibilità deve essere concreta e non solo astratta».[58] G. Forti, voce Colpa (dir. pen.,), in AA.VV., Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, vol. II, Milano, 2006, 949.[59] D. Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, cit., 648.[60] L’art. 4, d.P.R. 303/1956 (abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), sanciva che «i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovrintendono alle attività indicate all’art. 1, devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze:a) attuare le misure di igiene previste nel presente decreto;b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti;c) fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione;d) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme idi igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione».L’art. 19, d.P.R. cit., imponeva al datore di lavoro l’obbligo, per quanto possibile, di organizzare l’attività lavorativa in modo tale da consentire che le lavorazione pericolose o insalubri avvengano in luoghi separati da quelli in cui dette lavorazioni non devono essere effettuate.L’art. 21, d.P.R. cit., disponeva che «nei luoghi di lavoro che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione in ambiente di lavoro.Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L’aspirazione deve essere effettuata, per quanto possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveriQuando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all’inumidimento del materiale stesso.Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell’ambiente di lavoro».[61] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 62.[62] L’art. 377, d.P.R. 19 marzo 1955, n. 547, sanciva che «il datore di lavoro, fermo restando quanto specificamente previsto in altri articoli del presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori i mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazione ed operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. I detti mezzi personali di protezione devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità, nonché essere mantenuti in buono stato di conservazione».L’art. 387, d.P.R. cit., disponeva che «i lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi devono avere a disposizione maschere respiratorie o altri dispositivi idonei, da conservarsi in luogo adatto facilmente accessibile e noto al personale».[63] Cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 9 e 16, dove si afferma rispettivamente che «soltanto i grandi lavori epidemiologici degli anni ’60 del gruppo della Mount Sinai School of medicine of New York (Selikoff, Hammond Churg – Ann N Y Acad Sci 1965) […] hanno definitivamente confermato l’esistenza di una connessione eziologica tra i lavoratori dell’asbesto (coibentatori) e cancro polmonare»; e che «la prima segnalazione scientifica che ha stabilito inequivocabilmente il rapporto eziologico tra amianto e mesotelioma e che, nel mondo, è considerata quale ricerca originale di riferimento è stata pubblicata da J.C. Wagner e coll. nel 1960».[64] In tal senso, con specifico riferimento all’amianto, v. C. Piergallini, Esposizione ad amianto e tutela della salute: profili penalistici, in AA.VV., Il rischio da amianto, cit., 35 ss., il quale afferma che «sta di fatto che pretendere di addebitare per colpa la morte per cancro polmonare o per mesotelioma come conseguenza della violazione della citata regola cautelare [art. 21, d.P.R. n. 303/1956] dettata per prevenire una malattia professionale (l’asbestosi), certo grave ma non sempre mortale, significa, pur sempre, imputare l’evento a titolo di responsabilità oggettiva. Fa difetto, infatti, la prevedibilità dell’evento hic et nunc, atteso che la cornice nomologica disponibile per l’agente modello negli anni Sessanta, durante i quali si è verificata l’esposizione ad amianto, non permetteva di classificare il tumore polmonare o il mesotelioma pleurico (mediato o non che fosse da una concomitante patologia asbestosica, alla stregua di un meccanismo di produzione dell’evento-finale morte». In giurisprudenza, v. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 261 s., in cui si afferma: «lo stesso tipo di relazione (c.d. “nesso di rischio”) può dirsi esistente fra le regole di diligenza stabilite dall’art. 21 del DPR 303/56 e un evento come la morte del lavoratore causata da mesotelioma pleurico? Può cioè affermarsi che questa specifica malattia tumorale costituisca la “concretizzazione” del rischio, cioè la realizzazione dello specifico pericolo che la norma cautelare in questione mirava a prevenire? Ad avviso di questo giudice le emergenze processuali impongono una risposta decisamente negativa […] il mesotelioma pleurico rappresenti un evento che “concretizza” il rischio che l’art. 21 mirava a scongiurare per i lavoratori; sembra infatti a chi giudica che questo sia un dato che emerge con assoluta evidenza dal processo».[65] Cass. pen., Sez. IV, 18 febbraio 2003-2 maggio 2003, Trioni, cit. Nello stesso senso Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2002-14 gennaio 2003, Macola, cit., in cui si afferma che «la prevedibilità dell’evento […] non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare, ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta come pericolosa per la salute (o per altri beni tutelati dall’ordinamento). Orbene l’inalazione da amianto è ritenuta da ben oltre i tempi citati di grande lesività della salute […] e la malattia da inalazione da amianto, l’asbestosi […] è ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita […] Ne consegue che la mancata eliminazione, o riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio del tutto prevedibile dell’insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti. Se solo successivamente sono state conosciute altre conseguenze di particolare lesività non v’è ragione per escludere il rapporto di causalità con l’evento e il requisito della prevedibilità dell’evento medesimo»; Cass. pen., Sez. IV, 18 febbraio 2003-2 maggio 2003, Chiliberti, cit.Nella giurisprudenza di merito v. App. Venezia, Sez. IV, 15 gennaio 2001, Macola, cit., 449 s.; App. Milano, Sez. I, 9 aprile 2001, Bellerio, in Foro ambr., 2002, 11 s.; Trib. Cuneo, 20 dicembre 2008, Chino, cit., 11, in cui si afferma che «la mancata conoscenza della correlazione tra amianto e mesotelioma pleurico non escludeva, pertanto, la prevedibilità, in capo agli odierni imputati, dell’insorgenza di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti»; Trib. Milano, 20 dicembre 1999, Montigelli, cit. 293 s.; Pret. Padova, 3 giugno 1998, Macola, cit., 738: «non è necessario per l’attribuzione della colpa che gli imputati potessero prevedere anche lo specifico esito derivante dall’omissione delle misure antinfortunistiche (morte per cancro). In applicazione del principio già richiamato che limita il giudizio di prevedibilità alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità di estensione, si deve ritenere necessario e sufficiente per l’accertamento della colpa il fatto che gli imputati potevano prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un danno grave alla salute e all’incolumità dei lavoratori, e cioè un danno dello stresso genere di quello poi effettivamente verificatosi»; Pret. Torino, 9 febbraio 1995, Barbotto Beraud, cit., 137.[66] Per una penetrante critica a questa impostazione v. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 263 s., dove si afferma: «resta però un ultimo interrogativo: posto che il mesotelioma non era sicuramente l’evento che il legislatore mirava direttamente a prevenire con le disposizioni degli artt. 19 e 21 del DPR 303/56 si può sostenere (come sembra fare la sopra citata sentenza Macola) che questa rara patologia tumorale rientri comunque nel “genus” di quegli stessi eventi lesivi che le citate norme intendevano scongiurare e fosse dunque “prevedibile” sul presupposto […] Questo giudice ritiene di dover dare anche qui risposta decisamente negativa alla luce delle concrete emergenze processuali in atti. In particolare, non appare giuridicamente condivisibile (già in astratto) l’assunto secondo il quale il giudizio di prevedibilità ex ante (che costituisce il fulcro della responsabilità colposa) ha ad oggetto non l’evento così come storicamente si è verificato con il suo specifico, concreto decorso causale (in questo caso la morte del lavoratore per mesotelioma pleurico) ma un evento come appartenente ad un “genus” e cioè un generico danno alla salute del lavoratore. Così argomentando, infatti, ad avviso di questo giudice non si fa altro, sia pure per comprensibili ragioni di tutela sociale, che trasformare la responsabilità colposa in responsabilità oggettiva perché si finisce per addossare all’agente anche eventi in concreto tutt’altro che prevedibili nel momento in cui fu posta la condotta che si assume contraria alla norma precauzionale, sostanzialmente sulla base del mero versari in re illecita; nel nostro caso, cioè, il rimprovero nei confronti del datore di lavoro sarebbe soltanto quello di avere obiettivamente causato il mesotelioma in virtù di una indebita esposizione professionale all’amianto sia pure di livello minimo e come tale insufficiente a provocare asbestosi, sul presupposto che - come dice la sentenza Macola nella massima che abbiamo sopra commentato - “le misure di prevenzione da adottare per evitare l’insorgenza di una malattia invece da tempo nota come l’asbestosi erano identiche a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi non conosciuti”, ovvero, in ultima analisi, per il fatto che comunque si è verificato un danno alla salute del lavoratore causalmente collegato alla condotta del datore di lavoro, danno che apparterrebbe allo stesso “genus”di quello (l’asbestosi appunto) che la norma a contenuto precauzionale mirava a prevenire. Un simile di tipo di ragionamento non può essere assolutamente condiviso perché contrasta irrimediabilmente con il principio della responsabilità penale personale; in sostanza è come se si dicesse: poiché era noto che l’amianto è una sostanza pericolosa in quanto a certe condizioni (massiccia esposizione) poteva causare l’asbestosi, non interessa affatto se invece dell’asbestosi il lavoratore sia stato colpito da un mesotelioma pleurico (che può insorgere per l’azione di pochissime fibre anche a distanza di 40 anni dalla prima esposizione) dal momento che si tratta comunque di una malattia che colpisce un organo (la pleura) dell’apparato respiratorio; sulla base di questo ragionamento, ad avviso di chi giudica, si arriva dritti all’affermazione della responsabilità penale sul piano meramente oggettivo del rapporto di causalità trascurando completamente l’essenza, tutta psicologica, del reato colposo, e cioè i requisiti della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento».[67] In argomento v. anche L. Siracusa, Causalità e colpa, cit., 978.[68] Si v. ampiamente Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 99 ss.[69] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 66.[70] Cfr. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 6, il quale precisa ulteriormente che «è opinione diffusa a livello internazionale che il limite di 1-2 fibre/cc, come media ponderata sulle 8 ore, sia adeguato per proteggere dall’asbestosi, ossia dalla fibrosi polmonare, la stragrande maggioranza dei lavoratori che vi rimanga esposta anche per la durata di tutta la vita lavorativa».[71] G. Chiappino, Mesotelioma, cit., 15. Nello stesso senso v. V. Foà, Consulenza tecnica, cit., 27, il quale afferma che «il soggetto suscettibile non deve mai incontrare l’amianto e che la prevenzione del mesotelioma negli ambienti di lavoro non è possibile, neppure con il più potente degli aspiratori […] mentre con interventi tecnologici atti a minimizzare l’esposizione degli addetti, era prevedibile la non insorgenza di asbestosi e cancro polmonare, malattie che insorgono dopo esposizioni a concentrazioni importanti, il mesotelioma sarebbe potuto insorgere anche se si fossero applicati sistemi di aspirazione delle polveri di tale efficacia da rendere la polverosità ambientale di entità simile a quella riscontrabile in zone rurali».[72] B. Terracini-F. Carnevale-F. Mollo, Amianto ed effetti sulla salute, cit., 152.[73] Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2002-14 gennaio 2003, Macola, cit., la quale non distingue tra carcinoma e mesotelioma, e ritiene le misure cautelari idonee per le seguenti ragioni: «innanzitutto va rilevato che le due norme ricordate sono tuttora in vigore; in secondo luogo la circostanza che, in tema di protezione contro le inalazioni di fibre di amianto, siano state adottate misure normative di maggior rigore ed efficacia non esclude l’idoneità di quelle di natura più generica o minor efficacia, in passato e tuttora vigenti, a svolgere una reale azione preventiva quanto meno sotto il profilo già esaminato, attinente ai tempi della latenza o dell’insorgenza della malattia». Sulla prevenibilità dell’evento cfr. anche Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 65 ss.[74] V. Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 114 ss.; Trib. Bari, 16 giugno 2009, Stringa, cit., 36 ss.; Trib. Cuneo, 20 dicembre 2008, cit., Chino, 11 s.[75] Trib. Milano, 4 giugno 2007, Dalla Via, cit., 318 s.[76] Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini, cit., 58 ss., dove si afferma che «quel che è certo è che la collocazione dell’indagine nell’ambito della colpa attribuisce con ragione e senza difficoltà rilievo ad enunciati probabilistici. L’evitabilità si configura allorché, a seguito del giudizio controfattuale, vi è una significativa, non trascurabile probabilità che l’evento sarebbe venuto meno» (60-bis); Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 66, secondo la quale la causalità della colpa «si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno […] in ogni caso non si dubita che sarebbe irrazionale rinunciare a muovere l’addebito colposo nel caso in cui l’agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell’evento o avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto».[77] In argomento si v. anche Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 114, dove si precisa che «anche all’esito delle indagini effettuate con tecnica microscopica elettronica, era stata comunque rilevata nei campioni di tessuto (relativi anche alla pleura) dei soggetto deceduti per mesotelioma la presenza di fibre di dimensioni normate, seppur in quantitativo inferiore a quello delle fibre c.d. ultrafini o ultracorte».[78] Si v. art. 31, d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, come sostituito dall’art. 3, l. 27 marzo 1992, n. 257, nel testo sostituito dall'art. 16, l. 24 aprile 1998, n. 128: «i valori limite di esposizione alla polvere di amianto nell'aria, espressi come media ponderata in funzione del tempo su un periodo di riferimento di otto ore, sono:a) 0,6 fibre per centimetro cubo per il crisotilo;b) 0,2 fibre per centimetro cubo per tutte le altre varietà di amianto, sia isolate sia in miscela, ivi comprese le miscele contenenti crisotilo.Per una considerazione analoga cfr. L. Siracusa, Causalità e colpa, cit., 1012. In giurisprudenza, v. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 260, secondo cui «è stato inconfutabilmente accertato che anche l’adozione dei migliori sistemi di aspirazione, quindi la messa in opera di misure sicuramente idonee a scongiurare l’asbestosi (che infatti non si è riscontrata in BREDA almeno nel periodo che a noi interessa), non è in grado di eliminare completamente il rischio di mesotelioma (che difatti si è in concreto verificato), tant’è che nel 1992 il legislatore italiano ha deciso, proprio per questa ragione, di mettere definitivamente al bando l’amianto, circostanza questa che dimostra in maniera indiscutibile che solo la totale ELIMINAZIONE dell’amianto, piuttosto che l’adozione di misure di prevenzione volte a RIDURRE la “polverosità”, è stata ritenuta misura idonea a eliminare .. gli altri rischi non conosciuti, tra cui appunto rientra quello della possibile insorgenza del mesotelioma anche a minimi livelli di concentrazione di fibre».[79] Cass. pen., Sez. IV, 1° aprile 2010-26 maggio 2010, Giannoni, in CED, n. 20047/2010; anche in Foro it., 2010, II, 429 ss., con nota di R. Guariniello, Mesotelioma pleurico da amianto e colpa dei responsabili aziendali, ivi, 2010, II, 437 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007-1° febbraio 2008, Orlando, cit.; Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999-20 marzo 2000, Hariolf, cit., 1709; Cass. pen., Sez. IV, 20 marzo 1999-5 ottobre 1999, Angele, in Giur. it., 2001, 2134; anche in Foro it., 2000, II, 260. Nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 122 ss.[80] G. Forti, “Accesso” alle informazioni sul rischio e responsabilità: una lettura del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 221. [81] Trib. Bari, Sez. II, 13 dicembre 2004, D.S, cit., 456.[82] Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 123 s. Nello stesso senso v. Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999-20 marzo 2000, Hariolf, cit., dove si precisa che «se, infatti, può dirsi con certezza che è compito proprio degli organi di controllo non solo accertare se la legge sia stata applicata, ma anche indicare all'imprenditore quali siano, in quel momento, le frontiere cui si siano spinte, in materia di infortuni e di malattia professionali, la scienza e la tecnica o l'esperienza di altre aziende del settore, è altrettanto certo che, ove quegli organì non forniscano quelle indicazioni per una qualsiasi delle ipotizzabili ragioni, non per questo il datore di lavoro-imprenditore è esonerato da responsabilità se è venuto meno al suo dovere-obbligo giuridico di aggiornarsi sulle tecniche antinfortunistiche o anti malattie professionali»; Cass. pen., Sez. IV, 20 marzo 1999-5 ottobre 1999, Angele, in Giur. it., 2001, 2137; anche in Foro it., 2000, II, 260. In argomento si v. inoltre Cass. pen., Sez. IV, 1° aprile 2010-26 maggio 2010, Giannoni, in CED, n. 20047/2010; anche in Foro it., 2010, II, 433, con nota di R. Guariniello, Mesotelioma pleurico da amianto e colpa dei responsabili aziendali, ivi, 2010, II, 437 ss., dove si precisa che «se un soggetto riveste una posizione di garanzia per una funzione di protezione del garantito (nella specie il lavoratore subordinato) deve operare per assicurare la protezione richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell’evento dannoso».[83] In ordine al parametro nella colpa cfr. F. Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, 158 ss.; Id., La normatività della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 95 ss.; Id., I Tormentati rapporti fra colpa e regola cautelare, in Dir. pen. proc., 1999, 1295 ss.; G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 29 ss.; V. Attili, L’agente modello nell’era della complessità, cit., 1251 ss. Inoltre, sia consentito rinviare a R. Bartoli, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione, Torino, 2005, 165 ss.[84] Cass. pen., Sez. IV, 20 marzo 1999-5 ottobre 1999, Angele, cit., 2137; Trib. Mantova, 14 gennaio 2010, Belleli, cit., 122 s., in cui si precisa che «i limiti sopra indicati costituivano invero mere raccomandazioni provenienti da agenzie od enti preposti alla tutela dei luoghi di lavoro e non certo parametri dotati di efficacia normativa per effetto del rinvio agli stessi operato da qualche disposizione di legge».[85] Per una valorizzazione delle prassi cautelari e quindi dell’uomo medio, v. per tutti F. Giunta, La legalità della colpa, in Criminalia, 2008, 165 ss. Nella manualistica F. Palazzo, Corso di diritto penale, Torino, 2008, 330 s.; G.A. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, Torino, 2008, 426 ss. In tema cfr. anche Corte cost., sentenza 25 luglio 1996, n. 312, in Giur. cost., 1996, 2575 ss.[86] In termini analoghi sembra esprimersi anche C. Ruga Riva, Principio di precauzione, cit., 1773, secondo cui «il serio dubbio che l’esposizione ad una data sostanza per determinati archi temporali possa causare malattie esiziali di un certo tipo (poniamo all’apparato respiratorio) sarà sufficiente ad integrare la prevedibilità rispetto ad una pluralità di patologie polmonari, della trachea e di tutti gli organi coinvolti nella respirazione, anche qualora la correlazione tra sostanza e specifica patologia non sia ex ante nota o provata».[87] Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, cit., 63.[88] G.A. De Francesco, Diritto penale, cit., 400 ss.; Id., Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa cosciente e “colpa grave”, alla luce dei diversi modelli di incriminazione, in Cass. pen., 2009, 5019 s.[89] In argomento cfr. Trib. Pistoia, 1° giugno 2004, Callerio, cit., 263, in cui si afferma che «la genericità dell’art. 21 con riferimento (anche) alle polveri (rectius: fibre) di amianto era del resto perfettamente in linea con quello che abbiamo visto essere stato l’andamento dei c.d. TLV a livello internazionale nel periodo che interessa (v. cap. 3.2 cui sul punto integralmente si rinvia): fino a tutti gli anni ’70, infatti, sia le maggiori organizzazioni internazionali di settore (v., ad esempio, l’ACGIH americana) che la stessa Comunità Europea avevano stabilito dei valori-soglia di concentrazione di fibre di amianto “ammessi” negli ambienti di lavoro (i TLV appunto e cioè norme precauzionali di fonte non legislativa), valori il cui rispetto pacificamente mirava a scongiurare (soltanto) il rischio di ASBESTOSI per i lavoratori esposti. Solo a partire dai primi anni ’80, in considerazione dei risultati di nuovi studi epidemiologici che avevano evidenziato un rischio anche per esposizioni di livello inferiore, questi TLV subiscono una sensibile flessione, ma non si arriva ancora al divieto dell’uso dell’amianto, chiaro ed univoco segno questo che la Comunità Scientifica non era ancora riuscita a far penetrare nella società, ed in particolare nel mondo industriale, le scoperte sulla pericolosità dell’amianto anche in relazione alla possibile insorgenza di una malattia micidiale come il mesotelioma pleurico che - fu accertato - poteva scaturire anche a seguito di livelli di esposizione all’amianto che negli anni precedenti sarebbero rientrati tranquillamente nei parametri ritenuti di sicurezza (i TLV). La “politica” sull’amianto in quegli anni era dunque quella del contenimento del rischio con evidente riferimento a malattie, come l’asbestosi, correlate alla “dose cumulativa”. Se questo è il contesto generale di riferimento (dal quale non ci si può ovviamente astrarre quando si discute di colpa) risulta del tutto evidente che il datore di lavoro italiano, cui veniva dettata con riferimento alle polveri in genere una norma a contenuto precauzionale come l’art. 21, laddove avesse RIDOTTO la dispersione delle fibre di amianto nell’ambiente di lavoro al di sotto dei parametri stabiliti dai citati TLV poteva senza dubbio considerarsi adempiente al citato precetto, perché avrebbe appunto fatto quanto possibile per portare l’esposizione (in assenza - si badi bene - di qualsiasi normativa ad hoc più vincolante) a livelli ritenuti internazionalmente sicuri, ma così facendo - pur ottemperando sostanzialmente al precetto contenuto in detta norma cautelare - NON avrebbe certamente EVITATO il rischio che qualche lavoratore si ammalasse (magari dopo 30 o 40 anni) di mesotelioma pleurico». [90] Cfr. R. Riverso, La difficile giustizia per i lavoratori esposti all’amianto, in Quest. giust., 2009, 143 s., il quale afferma che «le stime dell’Istituto superiore prevenzione e sicurezza del lavoro (Ispesl) prevedono che l’onda lunga dei decessi cagionati dall’esposizione nociva, consumata nei decessi pregressi, sia ancora di là da venire. Il picco di prevede, per via della lunga latenza di queste malattie […] attorno al 2015-2020: e si tratta di decine di migliaia di morti stimati». Download Documento
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