Sentenza 21 marzo 2006 - 3 maggio 2006, n. 346
MOTIVAZIONE
Nel corso delle indagini avviate dalla Polizia Postale di Udine ai fini di prevenzione e repressione di reati commessi tramite web, emerse che era coinvolto in un giro di rapporti che rendevano possibile intrattenere via web.chat conversazioni con delle giovani che, a richiesta dell'interlocutore, si esibivano in atteggiamenti sessualmente espliciti e verso un corrispettivo rappresentato dal costo della chiamata. Pertanto, con decreto in data 18.11.2005 il PM presso il Tribunale di Udine dispose, nei confronti del predetto T. e in relazione ai reati di cui agli artt.81 capv-UO cp e 3 co.l n.8 1.75/58, perquisizione locale ed eventuale sequestro, in forza del quale venne sequestrato vario materiale informatico dettagliatamente descritto nel relativo verbale.
Avverso tale provvedimento l'indagato propose istanza di riesame, eccependo, tra l'altro, l'insussistenza del fumus del reato ipotizzato. Il Tribunale di Udine, in accoglimento dell'istanza di riesame, con ordinanza del 23.12.2005 revocò il sequestro, non ravvisando il fumus del menzionato reato, dal momento che il concetto di prostituzione, non espressamente definito dal legislatore, dovrebbe necessariamente collegarsi a un rapporto sessuale reale e non virtuale; si sosteneva che "non pare si possa estendere la nozione di prostituzione sino a comprendervi le esibizioni delle ragazze", in quanto certamente "non ogni esibizione del proprio corpo a fini sessuali e dietro corrispettivo può essere considerata prostituzione". Il Tribunale citava le sentenze di segno contrario di questa Corte, dalle quali tuttavia apertis verbis dichiarava di dissentire.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal PM presso quel Tribunale, il quale, richiamando in termini le citate decisioni di questa Corte, deduce che "l'ubi consistam dell'attività di meretricio deve ravvisarsi non certo nel semplice compimento di un atto sessuale verso corrispettivo finalizzato al soddisfacimento dell'altrui istinto di concupiscenza, ma bensì in un atto di disposizione e commercio del proprio corpo, tale per cui il compimento della prestazione divenga oggetto di un rapporto sinallagmatico tra il singolo cliente e la singola prostituta, la quale si presti al compimento di atti sessuali determinati, assecondando la specifica richiesta del cliente per soddisfarne l'istinto sessuale".
Il ricorso è fondato. La questione, come puntualizzato anche nell'ordinanza impugnata, consiste nel verificare se la condotta posta in essere dalle ragazze che si esibiscono, con le modalità sopra precisate, in atti a carattere esplicitamente sessuale e le cui performances sono cedute a pagamento per via telematica, possa qualificarsi come prostituzione. Questa Corte ha costantemente precisato che la nozione di prostituzione, anche se non definita legislativamente, corrisponde a un tipo normativo, che è stato delineato dalla giurisprudenza e non può, perciò, essere individuata in base a criteri di valutazione meramente sociali o culturali. In tale ottica è stato ripetutamente affermato che l'elemento caratterizzante l'atto di prostituzione non è necessariamente costituito dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e risulti finalizzato, in via diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o che è destinatario della prestazione (interpretazione ormai consolidata di questa Corte regolatrice, sez.III, 22.4.2004 n.534, Marinone; 22.4.2004, Verzetti; 3.6.2004 n.737, Bongi). In effetti, l'aspetto che prima di ogni altro lede la dignità della prostituta è quello per cui ella mette il proprio corpo alla mercè del cliente, disponendone secondo la volontà dello stesso. Alla stregua di tali criteri, non può revocarsi in dubbio che l'attività di chi si prostituisce può consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di chi, pagando un compenso, ha chiesto una determinata prestazione al fine di soddisfare la propria libidine, senza che avvenga alcun contatto fisico tra le parti. Tale nozione è conforme allo spirito della 1.75/58 che -nel sanzionare penalmente i comportamenti diretti alla induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione e gli altri descritti dalla norma- rende chiaro, in relazione alla gravità delle pene previste per tali fatti, il disvalore sociale attribuito, secondo il comune sentire, ad atti che implicano l'uso strumentale della propria sessualità per riceverne un corrispettivo. Non può, pertanto, essere ritenuto determinante, ai fini della configurabilità dell'atto di prostituzione, l'elemento del contatto fisico tra il soggetto che si prostituisce e il fruitore della prestazione, mentre lo è quello della interazione tra l'operatrice e il cliente, che sussiste nella fattispecie in esame. Ed invero, precisata nel senso indicato la nozione di prostituzione -ovviamente legata per la sua rilevanza penale all'esistenza di condotte vietate dalla 1.75/58- è irrilevante il fatto che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, allorché gli stessi risultino, come appunto nel caso in esame, collegati, tramite internet, in videoconferenza, che consente all'utente della prestazione, non diversamente da quanto si verifica nell'ipotesi di contemporanea presenza nello stesso luogo, di interagire con chi si prostituisce, in modo da poter chiedere a questo il compimento di atti sessuali determinati, che vengono effettivamente eseguiti e immediatamente percepiti da colui che chiede la prestazione sessuale a pagamento.
Peraltro, l'elemento della interazione -che consente di distinguere tra prostituzione, anche se virtuale o a distanza, e mera esibizione del proprio corpo- chiaramente non è ravvisabile in riferimento alle ipotesi similari (o ritenute tali) -elencate nell'ordinanza impugnata a dimostrazione della paventata eccessiva dilatazione della nozione di prostituzione che conseguirebbe a quella qui accolta- quali il rapporto tra fruitore e attrice di film ovvero riviste a contenuto pornografico; il rapporto tra lap dancers e clienti dei locali ove le stesse si esibiscono (salve, beninteso, la riconducibilità al concetto di prostituzione di quelle attività ulteriori rispetto alla semplice esibizione, in relazione alle quali il cliente cessi di porsi come mero spettatore passivo).
L'assunto del Tribunale da un lato non è sorretto da un convincente apparato argomentativo, perché fondato in sostanza in riferimento alle dette ipotesi pacificamente non integranti il meretricio (e che, trascurando l'elemento distintivo della interazione, si sostiene assimilabili a quella in esame); e dall'altro, condurrebbe all'assurdo di espungere dalla nozione di prostituzione anche quei casi -notoriamente non infrequenti- in cui la prostituta, per assecondare desideri particolari del paziente, compia, alla presenza dello stesso e dietro sua specifica richiesta, atti sessuali su se stessa o su altra donna, senza che intervenga contatto fisico alcuno con il cliente stesso. La valutazione del giudice del riesame non è, pertanto, conforme alla corretta interpretazione della 1.75/58, nella parte in cui esclude che le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza con il fruitore della stessa tramite internet -in modo da consentire a quest'ultimo di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, chiedendogli il compimento di determinati atti sessuali-assuma il valore di atto di prostituzione e possano configurarsi i reati oggetto di indagine a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet, o ne abbiano tratto un guadagno. L'ordinanza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, nella conseguente valutazione, si uniformerà ex art.627 co.3 cpp ai principio di diritto qui affermato.
P.Q.M.
La Corte annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Udine.
Così deliberato il 21.3.2006.
Depositata in cancelleria il 3 maggio 2006.
IL CONSIGLIERE EST.
IL PRESIDENTE
Nel corso delle indagini avviate dalla Polizia Postale di Udine ai fini di prevenzione e repressione di reati commessi tramite web, emerse che era coinvolto in un giro di rapporti che rendevano possibile intrattenere via web.chat conversazioni con delle giovani che, a richiesta dell'interlocutore, si esibivano in atteggiamenti sessualmente espliciti e verso un corrispettivo rappresentato dal costo della chiamata. Pertanto, con decreto in data 18.11.2005 il PM presso il Tribunale di Udine dispose, nei confronti del predetto T. e in relazione ai reati di cui agli artt.81 capv-UO cp e 3 co.l n.8 1.75/58, perquisizione locale ed eventuale sequestro, in forza del quale venne sequestrato vario materiale informatico dettagliatamente descritto nel relativo verbale.
Avverso tale provvedimento l'indagato propose istanza di riesame, eccependo, tra l'altro, l'insussistenza del fumus del reato ipotizzato. Il Tribunale di Udine, in accoglimento dell'istanza di riesame, con ordinanza del 23.12.2005 revocò il sequestro, non ravvisando il fumus del menzionato reato, dal momento che il concetto di prostituzione, non espressamente definito dal legislatore, dovrebbe necessariamente collegarsi a un rapporto sessuale reale e non virtuale; si sosteneva che "non pare si possa estendere la nozione di prostituzione sino a comprendervi le esibizioni delle ragazze", in quanto certamente "non ogni esibizione del proprio corpo a fini sessuali e dietro corrispettivo può essere considerata prostituzione". Il Tribunale citava le sentenze di segno contrario di questa Corte, dalle quali tuttavia apertis verbis dichiarava di dissentire.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal PM presso quel Tribunale, il quale, richiamando in termini le citate decisioni di questa Corte, deduce che "l'ubi consistam dell'attività di meretricio deve ravvisarsi non certo nel semplice compimento di un atto sessuale verso corrispettivo finalizzato al soddisfacimento dell'altrui istinto di concupiscenza, ma bensì in un atto di disposizione e commercio del proprio corpo, tale per cui il compimento della prestazione divenga oggetto di un rapporto sinallagmatico tra il singolo cliente e la singola prostituta, la quale si presti al compimento di atti sessuali determinati, assecondando la specifica richiesta del cliente per soddisfarne l'istinto sessuale".
Il ricorso è fondato. La questione, come puntualizzato anche nell'ordinanza impugnata, consiste nel verificare se la condotta posta in essere dalle ragazze che si esibiscono, con le modalità sopra precisate, in atti a carattere esplicitamente sessuale e le cui performances sono cedute a pagamento per via telematica, possa qualificarsi come prostituzione. Questa Corte ha costantemente precisato che la nozione di prostituzione, anche se non definita legislativamente, corrisponde a un tipo normativo, che è stato delineato dalla giurisprudenza e non può, perciò, essere individuata in base a criteri di valutazione meramente sociali o culturali. In tale ottica è stato ripetutamente affermato che l'elemento caratterizzante l'atto di prostituzione non è necessariamente costituito dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e risulti finalizzato, in via diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o che è destinatario della prestazione (interpretazione ormai consolidata di questa Corte regolatrice, sez.III, 22.4.2004 n.534, Marinone; 22.4.2004, Verzetti; 3.6.2004 n.737, Bongi). In effetti, l'aspetto che prima di ogni altro lede la dignità della prostituta è quello per cui ella mette il proprio corpo alla mercè del cliente, disponendone secondo la volontà dello stesso. Alla stregua di tali criteri, non può revocarsi in dubbio che l'attività di chi si prostituisce può consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di chi, pagando un compenso, ha chiesto una determinata prestazione al fine di soddisfare la propria libidine, senza che avvenga alcun contatto fisico tra le parti. Tale nozione è conforme allo spirito della 1.75/58 che -nel sanzionare penalmente i comportamenti diretti alla induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione e gli altri descritti dalla norma- rende chiaro, in relazione alla gravità delle pene previste per tali fatti, il disvalore sociale attribuito, secondo il comune sentire, ad atti che implicano l'uso strumentale della propria sessualità per riceverne un corrispettivo. Non può, pertanto, essere ritenuto determinante, ai fini della configurabilità dell'atto di prostituzione, l'elemento del contatto fisico tra il soggetto che si prostituisce e il fruitore della prestazione, mentre lo è quello della interazione tra l'operatrice e il cliente, che sussiste nella fattispecie in esame. Ed invero, precisata nel senso indicato la nozione di prostituzione -ovviamente legata per la sua rilevanza penale all'esistenza di condotte vietate dalla 1.75/58- è irrilevante il fatto che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, allorché gli stessi risultino, come appunto nel caso in esame, collegati, tramite internet, in videoconferenza, che consente all'utente della prestazione, non diversamente da quanto si verifica nell'ipotesi di contemporanea presenza nello stesso luogo, di interagire con chi si prostituisce, in modo da poter chiedere a questo il compimento di atti sessuali determinati, che vengono effettivamente eseguiti e immediatamente percepiti da colui che chiede la prestazione sessuale a pagamento.
Peraltro, l'elemento della interazione -che consente di distinguere tra prostituzione, anche se virtuale o a distanza, e mera esibizione del proprio corpo- chiaramente non è ravvisabile in riferimento alle ipotesi similari (o ritenute tali) -elencate nell'ordinanza impugnata a dimostrazione della paventata eccessiva dilatazione della nozione di prostituzione che conseguirebbe a quella qui accolta- quali il rapporto tra fruitore e attrice di film ovvero riviste a contenuto pornografico; il rapporto tra lap dancers e clienti dei locali ove le stesse si esibiscono (salve, beninteso, la riconducibilità al concetto di prostituzione di quelle attività ulteriori rispetto alla semplice esibizione, in relazione alle quali il cliente cessi di porsi come mero spettatore passivo).
L'assunto del Tribunale da un lato non è sorretto da un convincente apparato argomentativo, perché fondato in sostanza in riferimento alle dette ipotesi pacificamente non integranti il meretricio (e che, trascurando l'elemento distintivo della interazione, si sostiene assimilabili a quella in esame); e dall'altro, condurrebbe all'assurdo di espungere dalla nozione di prostituzione anche quei casi -notoriamente non infrequenti- in cui la prostituta, per assecondare desideri particolari del paziente, compia, alla presenza dello stesso e dietro sua specifica richiesta, atti sessuali su se stessa o su altra donna, senza che intervenga contatto fisico alcuno con il cliente stesso. La valutazione del giudice del riesame non è, pertanto, conforme alla corretta interpretazione della 1.75/58, nella parte in cui esclude che le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza con il fruitore della stessa tramite internet -in modo da consentire a quest'ultimo di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, chiedendogli il compimento di determinati atti sessuali-assuma il valore di atto di prostituzione e possano configurarsi i reati oggetto di indagine a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet, o ne abbiano tratto un guadagno. L'ordinanza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, nella conseguente valutazione, si uniformerà ex art.627 co.3 cpp ai principio di diritto qui affermato.
P.Q.M.
La Corte annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Udine.
Così deliberato il 21.3.2006.
Depositata in cancelleria il 3 maggio 2006.
IL CONSIGLIERE EST.
IL PRESIDENTE
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