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ALTALEX NEWS


giovedì 22 settembre 2011

D.I.A., D.I.A. ad effetto immediato e tutela dei terzi

D.I.A., D.I.A. ad effetto immediato e tutela dei terzi

di Antonio Macolino


La denuncia di inizio attività rappresenta uno degli istituti giuridici sui quali non si è ancora raggiunta, da parte della dottrina e della giurisprudenza amministrative, una visione comune.

L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della denuncia di inizio attività (che d’ora in poi definiremo d.i.a.) risale al 1990, specificatamente alla entrata in vigore della ormai nota legge n. 241 sul procedimento amministrativo. L’art. 19 della citata legge prevede, infatti, la possibilità di intraprendere l’esercizio di alcune attività, soggette fino ad allora al rilascio di provvedimenti amministrativi di assentimento, in virtù del mero decorso di un termine dalla presentazione della relativa dichiarazione d’intento, accompagnata dai documenti prescritti.

Tale possibilità viene limitata ai casi in cui l’esercizio di un’attività dipenda semplicemente dalla sussistenza di requisiti e presupposti predeterminati dalla legge, mentre non è richiesta alcuna valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione. Sono inoltre esclusi, dalla sfera di applicazione della d.i.a., alcuni settori per i quali risulta sempre necessario un preventivo intervento di assenso da parte dell’autorità pubblica, quali la difesa nazionale, l’immigrazione, la sicurezza e la salute pubblica, l’amministrazione della giustizia e delle finanze.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla d.i.a. è sorto, ed è a tutt’oggi in corso, per la difficoltà di incasellare questo istituto nei tradizionali schemi provvedimentali, tanto soprattutto in relazione all’esigenza di individuare forme di tutela per i terzi le cui posizioni giuridiche vengano coinvolte nelle attività denunciate. Ad alimentare tale dibattito hanno certamente contribuito le modifiche apportate, alla disciplina normativa citata, dalla legge n. 80 del 2005 e, da ultimo, dalla legge n. 69 del 2009.

Le tesi principali sulla natura della d.i.a. e sugli strumenti di tutela dei terzi sono due, entrambe sostenute anche di recente dai giudici amministrativi.

La prima di queste tesi, rinvenibile in alcune pronunzie della quarta (n. 5811/2008) e sesta sezione del Consiglio di Stato (decisione 1550/2007), individua nella d.i.a. un istituto peculiare, assimilabile ad un’istanza autorizzatoria che, col decorso del termine di legge, provoca la formazione di un provvedimento di tacito assenso all’esercizio di una certa attività. Secondo questa impostazione la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione di alcune attività, ma rappresenta un meccanismo che consente al privato di conseguire, grazie al silenzio assenso della pubblica amministrazione, un pur sempre necessario titolo abilitativo.

A sostegno di questa prima tesi vengono invocati vari argomenti, primo tra tutti l’espressa previsione legislativa della facoltà, per l’amministrazione competente, di assumere provvedimenti in via di autotutela anche dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione della d.i.a.. L’autotutela rappresenta, infatti, un’attività amministrativa di secondo grado che presuppone sempre, secondo i fautori della tesi in esame, un provvedimento precedente sul quale incidere.

Un altro argomento a favore della natura provvedimentale del silenzio sulla d.i.a. è offerto, in materia edilizia, dal testo unico di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 che estende alla d.i.a. edilizia sia i poteri sanzionatori del Comune previsti in caso di annullamento del permesso di costruire, sia il potere della Regione di annullare il permesso di costruire assentito dal Comune.

La seconda tesi sulla natura giuridica della d.i.a., che si rinviene in una recente pronunzia del Consiglio di Stato (sez. VI, sentenza 717/2009), qualifica la denuncia di inizio attività come un mero atto di un privato, che non ha alcun valore provvedimentale né produce alcun implicito assentimento da parte della pubblica amministrazione. Secondo questa tesi si può parlare di liberalizzazione per le attività di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 solo se viene meno la necessità di un provvedimento autorizzatorio, espresso o tacito che sia, da parte della amministrazione competente. Solo in quest’ottica si può distinguere, infatti, la disciplina della denuncia di cui all’art. 19 da quella del silenzio assenso di cui all’art. 20 della citata legge. Il silenzio assenso comporta, quello si, la formazione di un provvedimento amministrativo implicito di autorizzazione, in seguito alla presentazione di un’istanza ed al decorso di un certo tempo in assenza di obiezioni da parte dell’amministrazione destinataria dell’istanza.

Alle due contrapposte tesi corrispondono, evidentemente, distinti strumenti di tutela del terzo che ritenga di aver subito lesioni delle proprie posizioni giuridiche.

I sostenitori della prima delle sopra esposte tesi ritengono, infatti, che il terzo possa impugnare, dinanzi all’Autorità giurisdizionale amministrativa, il provvedimento formatosi implicitamente col decorso del tempo dopo la presentazione della d.i.a.. Secondo i fautori della seconda tesi, invece, il terzo può esperire un’azione di accertamento autonomo onde far dichiarare l’insussistenza dei requisiti per l’esercizio dell’attività di cui alla d.i.a..

In passato alcuni studiosi hanno sostenuto, poi, la necessità per il terzo di sollecitare - decorso inutilmente il termine dalla presentazione della d.i.a. - l’intervento in via di autotutela da parte dell’amministrazione competente e, in caso di ulteriore inerzia, di impugnare il silenzio-rifiuto.

Dei tre orientamenti ora richiamati appare, invero, poco convincente quest’ultimo, che imporrebbe al terzo l’onere di presentare, prima di agire in giudizio, un’istanza sollecitatoria alla pubblica amministrazione la quale, peraltro, nell’esercizio dell’autotutela è dotata di un potere ampiamente discrezionale. Nella decisione in merito all’annullamento di un precedente provvedimento, infatti, l’ente pubblico è tenuto a valutare non solo la sussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività de qua, ma anche l’affidamento eventualmente generato in capo a chi ha confidato nella legittimità del provvedimento.

La prima delle tesi in esame consente, senza dubbio, di semplificare il regime della tutela dei terzi, perché permette di individuare un provvedimento sia pur implicito da impugnare. Un colpo mortale a questa tesi è stato però inferto, recentemente, dalla entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 che ha riscritto l’art. 19 della legge n. 241, apportando importanti modifiche al regime della d.i.a.. Per alcuni settori - relativi ad impianti di produzione di beni e servizi ed a prestazioni di servizi di cui alla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio - la riforma prevede, infatti, che la data di inizio dell’attività coincida con quella di presentazione della d.i.a..

L’introduzione nel nostro ordinamento della d.i.a. ad effetto immediato - è questa l’espressione con cui si suole definire tale istituto - impone un ripensamento della tesi sulla natura provvedimentale della d.i.a., non potendosi ipotizzare la formazione di un provvedimento implicito di assentimento in mancanza di un sia pur breve intervallo temporale tra la presentazione della denuncia e l’inizio dell’attività. Più aderente al dettato normativo, specie alla previsione di cui all’art. 9 della legge n. 69/2009 sulla d.i.a. ad effetto immediato, appare pertanto la tesi che individua nella denuncia di inizio attività l’atto di un soggetto privato, da cui la legge fa scaturire il legittimo esercizio di alcune attività.

Anche quest’ultima tesi suscita, però, perplessità in merito ai rimedi giurisdizionali che offre ai terzi. In assenza di un provvedimento da impugnare, infatti, il terzo che si ritenga leso dall’attività denunciata dovrebbe chiedere al giudice amministrativo – entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza dell’attività – di accertare l’insussistenza dei requisiti prescritti dalla legge per l’esercizio dell’attività medesima. In caso di sentenza favorevole spetterebbe, poi, all’amministrazione competente vietare la prosecuzione dell’attività ed ordinare la rimozione di quanto eventualmente già eseguito. L’iter processuale appena descritto confligge, in realtà, con la mancata espressa previsione – nel nostro ordinamento processuale amministrativo – dell’azione di accertamento, che inoltre vedrebbe sottoposta al vaglio del giudice amministrativo non un provvedimento né un comportamento di un’autorità amministrativa, bensì il comportamento di un privato cui la legge attribuisce determinati effetti.

Alla peculiarità dell’istituto in esame dovrebbe corrispondere de iure condendo, a parere di chi scrive, una peculiare e più ampia disciplina sia sul piano sostanziale che su quello processuale.

Sarebbe necessario, in primo luogo, chiarire espressamente che nei settori per i quali è prevista la possibilità di presentazione della d.i.a. è sempre possibile seguire la strada tradizionale dell’istanza volta a conseguire un provvedimento autorizzatorio, specificando che chi intenda avvalersi della via più celere non può poi reclamare alcun affidamento generato dal silenzio della pubblica amministrazione. L’assenza di un intervento inibitorio dell’ente pubblico entro i termini previsti dalla legge, infatti, non può essere equiparato alla emissione di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Anche la tutela dell’affidamento, di conseguenza, può essere correttamente invocata solo in presenza di un vero e proprio provvedimento – qualora lo stesso venga successivamente annullato in via di autotutela - e non in caso di mera inerzia dell’amministrazione in seguito alla presentazione di una d.i.a.. In caso contrario gli effetti del - ahi noi frequente - intempestivo intervento pubblico sarebbero catastrofici, dovendo ogni volta il giudice bilanciare, anche in caso di palese violazione della legge, l’interesse pubblico alla cessazione dell’attività illegittima con quello dell’interessato alla prosecuzione della stessa.

Il ricorso al giudice amministrativo, al quale la norma di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990 si limita ad attribuire la giurisdizione esclusiva in materia di d.i.a., dovrebbe essere a sua volta oggetto di una disciplina specifica, che contempli: a) i casi in cui sussista l’interesse a ricorrere, prevedendolo per tutti coloro che dall’attività denunciata subiscano svantaggi; b) l’oggetto dell’impugnativa, specificando che eccezionalmente va impugnato l’atto del privato (d.i.a.) piuttosto che un provvedimento pubblico espresso o tacito; c) il petitum, che a nostro parere dovrebbe consistere nella declaratoria della illegittimità dell’attività di cui alla d.i.a., con espresso ordine all’amministrazione competente di inibirne la prosecuzione; d) il termine per la proposizione del ricorso, che andrebbe individuato in quello di sessanta giorni dalla cognizione della denuncia de qua.

Grazie alla disciplina puntuale – che qual “debol parere” abbiamo sopra esposto - sugli effetti della d.i.a. ed i rimedi esperibili dai terzi si potrebbero, probabilmente, scoraggiare gli abusi di uno strumento che, specie dopo la riforma del 2009, può incidere in modo notevole nell’organizzazione dei settori di produzione dei beni e servizi
estratto da http://www.altalex.com/index.php?idnot=11334

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