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giovedì 14 febbraio 2013

LA TIRANNIDE DELL'ECONOMIA POLITICA. L’analisi di Dani Rodrik

LA TIRANNIDE DELL'ECONOMIA POLITICA. L’analisi di Dani Rodrik, Professore di Economia Politica Internazionale presso l'Università di Harvard

13 Febbraio 2013 - Autore: Redazione (estratto da http://www.finanzaediritto.it/articoli/la-tirannide-dell%E2%80%99economia-politica-l%E2%80%99analisi-di-dani-rodrik-professore-di-economia-politica-internazionale-presso-l%E2%80%99universit%C3%A0-di-harvard-12056.html)


CAMBRIDGE – C'è stato un tempo in cui gli economisti si tenevano alla larga dalla politica, poiché pensavano che il proprio lavoro consistesse nel descrivere il funzionamento, così come il malfunzionamento, delle economie di mercato, e nel sottolineare come delle buone politiche potessero aumentare l'efficienza. Analizzavano le forme di compromesso tra obiettivi concorrenti (ad esempio, equità contro efficienza), e prescrivevamo ricette politiche volte all'ottenimento dei risultati economici auspicati, come la ridistribuzione. Compito dei politici era seguire (o meno) il loro consiglio, e dei burocrati metterlo in atto.
A un certo punto, però, alcuni di loro sono diventati più ambiziosi. Frustrati dal fatto che, nella maggior parte dei casi, il consiglio dato restava inascoltato (sono così tante le soluzioni per il libero mercato ancora in attesa di essere considerate!), hanno tarato i propri strumenti di analisi sul comportamento degli stessi politici e burocrati, e cominciato a esaminarlo in base allo stesso sistema concettuale utilizzato per le decisioni riguardanti consumatori e produttori nell’ambito di un'economia di mercato. I politici sono, così, diventati dei fornitori di favori politici tesi alla massimizzazione del profitto, i cittadini dei gruppi d'interesse a caccia di rendite, e i sistemi politici una sorta di mercati in cui si barattano sostegno politico e voti con vantaggi economici.
Questa è stata la genesi dell'economia politica basata sulla scelta razionale e di uno stile improntato alla teorizzazione, che molti scienziati della politica si sono affrettati a emulare. L'apparente tornaconto era che ora si riusciva a spiegare il motivo per cui i politici hanno così spesso agito contro la razionalità economica. In realtà, non vi era alcun malfunzionamento economico che l'espressione "interessi di parte" non fosse in grado di spiegare.
Perché così tante industrie appaiono blindate nei confronti della concorrenza reale? Perché nelle tasche di chi miete profitti vi sono i politici. Perché i governi innalzano barriere al commercio internazionale? Poiché i beneficiari della protezione commerciale sono raggruppati e politicamente influenti, mentre i consumatori sono sparsi e disorganizzati. Perché le élite politiche bloccano riforme in grado di stimolare la crescita e lo sviluppo economico? Poiché crescita e sviluppo indebolirebbero la loro presa sul potere politico. Infine, perché esistono le crisi finanziarie? Poiché le banche assumono il controllo del processo di definizione delle politiche in modo da potersi assumere rischi maggiori a spese dei cittadini.
Per cambiare il mondo, bisogna capirlo, e questa modalità di analisi sembrava offrire agli economisti l’accesso a una migliore comprensione dei risultati economici e politici.
Ma in tutto questo si annidava un paradosso profondo. Più loro sostenevano di fornire spiegazioni, meno margine di miglioramento c’era. Se il comportamento dei politici è determinato dagli interessi acquisiti verso cui sono debitori, la difesa delle riforme politiche da parte degli economisti è destinata a cadere nel vuoto. Più è completa la scienza sociale degli economisti, più diventa irrilevante la loro analisi politica.
Qui è dove l'analogia tra scienze umane e scienze naturali s'interrompe. Consideriamo il rapporto tra scienza e ingegneria. Man mano che la comprensione delle leggi fisiche da parte degli scienziati si fa più sofisticata, gli ingegneri sono in grado di costruire ponti ed edifici sempre più solidi. I progressi nell'ambito della scienza naturale rafforzano, anziché ostacolare, la nostra capacità di plasmare l'ambiente fisico circostante.
Il rapporto tra economia politica e analisi politica non è affatto così. Rendendo endogeno il comportamento dei politici, l'economia politica indebolisce gli analisti politici. È come se dei fisici avanzassero teorie che non solo spiegano i fenomeni naturali, ma stabiliscono anche che tipo di ponti e di edifici gli ingegneri debbano costruire. Se così fosse, le facoltà d’ingegneria diventerebbero pressoché superflue.
Se sentite che in questa situazione c'è qualcosa che non va, allora siete sulla buona strada. In realtà, gli attuali quadri di riferimento della politica economica sono zeppi di congetture inespresse sul sistema d’idee alla base del funzionamento dei sistemi politici. Dando voce a queste congetture, verrebbe meno il ruolo decisivo degli interessi di parte. E l'elaborazione delle politiche, la leadership politica e l'agenticità umana riprenderebbero vita.
Sono tre i modi in cui le idee influenzano gli interessi. In primo luogo, le idee determinano il modo in cui le élite politiche definiscono se stesse e i propri obiettivi: il denaro, l'onore, lo status, la longevità al potere, o semplicemente un posto nella storia. Queste domande d’identità sono fondamentali nel determinare la modalità secondo cui scelgono di agire.
In secondo luogo, le idee determinano la visione del mondo da parte degli attori della politica. Potenti interessi economici spingeranno per politiche diverse nel momento in cui credono che lo stimolo fiscale produca solo inflazione, anziché generare una domanda aggregata più elevata. D'altro canto, governi affamati di entrate imporranno tasse più basse se pensano che vi sia un rischio di evasione rispetto a quando pensano il contrario.
Ma ancora più importante dal punto di vista dell'analisi politica è che le idee determinano le strategie che gli attori della politica credono di poter perseguire. Ad esempio, un modo per le élite di restare al potere è sopprimere qualunque attività economica. Un’alternativa, però, consiste nel sostenere lo sviluppo economico diversificando la propria base economica, creare coalizioni, favorire un'industrializzazione a controllo statale, o perseguire una gamma di altre strategie limitata solo dall'immaginazione delle élite. Ampliando la gamma di strategie realizzabili (che è ciò che una buona programmazione politica e una buona leadership fanno), comportamenti e risultati subiscono una radicale trasformazione.  
In effetti, questo spiega alcune delle performance economiche più sorprendenti degli ultimi decenni, come la rapida crescita della Corea del Sud e della Cina (rispettivamente negli anni '60 e verso la fine degli anni '70). In entrambi i casi, i maggiori vincitori sono stati gli "interessi acquisiti" (l'establishment industriale coreano e il Partito comunista cinese). Ciò che, in questi casi, ha reso possibili le riforme non è stata una nuova configurazione del potere politico, ma l'emergere di nuove strategie. Il cambiamento economico spesso ha luogo non quando gli interessi acquisiti sono sconfitti, ma quando si ricorre a strategie alternative per perseguirli.
L'economia politica resta senza dubbio un ambito importante. Senza una chiara comprensione di chi guadagna e chi perde dallo status quo, è difficile dare un senso alle nostre politiche attuali. Tuttavia, un’eccessiva concentrazione sugli interessi acquisiti può facilmente distoglierci dal contributo critico che l'analisi e l'imprenditoria politica possono offrire. Le possibilità di cambiamento economico sono limitate non solo dalla realtà del potere politico, ma anche dalla povertà delle nostre idee.
 
 
Traduzione di Federica Frasca

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