11 Febbraio 2013 |
Cass., sez. III, 19 settembre 2012 (dep. 10 gennaio 2013), n.
1258, Pres. Mannino, Rel. Rosi, imp. Leka
[Francesco
Zacche']
1. Si segnala la presente sentenza della V Sezione, per le
peculiarità della vicenda e per alcune considerazioni ivi contenute in tema di
prove vietate. Durante un'operazione antidroga, originata da
fonti confidenziali, alcuni agenti della polizia municipale di
Sassuolo si fingono imprenditori interessati
all'acquisto di una partita di cocaina per un corrispettivo di 60.000
euro. Nel corso dell'incontro relativo alla vendita della sostanza illecita, la
persona sottoposta alle indagini viene arrestata e, nell'auto del complice,
viene sequestrato il corpo del reato. Disposta la custodia cautelare, il
Tribunale del riesame di Modena conferma la misura limitativa della libertà
personale dell'indagato per detenzione ai fini di spaccio di circa 500 gr. di
cocaina. Di qui, ricorre per cassazione il difensore dell'interessato chiedendo,
tra l'altro, l'annullamento dell'ordinanza cautelare per l'inutilizzabilità sia
delle informazioni confidenziali sia delle prove acquisite, a suo parere,
dall'agente provocatore.
2. La Corte di cassazione, sotto il primo profilo, esclude
che il quadro gravemente indiziario a carico del ricorrente sia costituito da
fonti confidenziali. Anzi, il giudice di legittimità osserva
che, nell'ordinanza impugnata, la prova cautelare è rappresentata dagli esiti
delle complesse operazioni condotte dalla polizia, mentre le notizie
confidenziali hanno svolto un ruolo di mero impulso dell'attività investigativa.
E, scrive la Corte, «nessuna inutilizzabilità derivata dei
risultati della complessa operazione di polizia giudiziaria può ... essere
ravvisata nel fatto che gli agenti ebbero la prima notizia della detenzione
della cocaina ... da una fonte confidenziale».
3. Quanto alla seconda doglianza, la Cassazione ribadisce
che le operazioni dell'agente di polizia giudiziaria sono legittime, ai sensi
dell'art. 51 c.p., quando costituiscono in via prevalente un'attività di
osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui; le
operazioni sottocopertura ex art. 9 l. n. 146 del 2006 - a cui rinvia
il riformulato art. 97 d.p.r. n. 309 del 1990 - includono determinate condotte
attive scriminate; la giurisprudenza della Corte di Strasburgo tollera le
indagini svolte da agenti infiltrati. Tuttavia, aggiunge il giudice di
legittimità, eventuali abusi da parte delle forze di polizia possono avere dei
riverberi sul piano disciplinare e penale, con ulteriori riflessi sul piano
probatorio: più specificamente, ed è questo l'aspetto di maggior interesse nella
pronuncia qui pubblicata, la Cassazione reputa che l'«induzione e
l'incitamento al reato determinano ... non solo la responsabilità penale
dell'agente, ma l'inutilizzabilità della prova acquisita, per contrarietà dei
principi del giusto processo, e rende l'intero procedimento suscettibile di un
giudizio di non equità ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».
4. Enunciato tale principio di diritto, comunque, la Suprema
Corte ritiene l'ordinanza del tribunale del riesame condivisibile. Nella specie,
l'operazione di polizia che ha portato all'arresto del ricorrente non può essere
qualificata come "attività sotto copertura", perché non si trattava di
un'attività specificamente disposta e comunicata alla Direzione centrale
per i servizi antidroga e all'autorità giudiziaria. Né si trattava di
attività riconducibile all'azione tipica dell'agente provocatore, in quanto
il comportamento degli agenti appartenenti alla polizia municipale non
aveva provocato un intento delittuoso prima inesistente: nel caso
concreto, infatti, l'azione delittuosa contestata riguarda la detenzione
di un consistente quantitativo di droga ai fini di cessione; detenzione
realizzata in via autonoma dall'indagato e dal suo complice anteriormente alla
stessa attivazione delle investigazioni.
Ad abundantiam, aggiunge la Corte, va rilevato che risulta pur
sempre legittimo, e utilizzabile come prova, il sequestro probatorio del corpo
di reato, o delle cose pertinenti al reato, rinvenute a seguito di un'attività
di polizia dalla quale pur venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti
dalla legge per le attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti
(cfr. Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Sala).
5. La sentenza della Corte di cassazione tocca punti
nevralgici del sistema probatorio e della sua legalità. Si dà spazio
all'inutilizzabilità della prova raccolta attraverso modalità lesive dell'equità
processuale (e, sullo sfondo, della prova illecita), ma, al contempo, l'addebito
provvisorio (detenzione di stupefacenti) e la controversa giurisprudenza in tema
di perquisizione-sequestro (più sopra citata) spingono la Corte a giudicare il
ricorso infondato. La delicatezza delle questioni sottese rende, senz'altro,
necessaria un'attenta riflessione in sede dottrinale. Per un primo approccio, si
consiglia la lettura di C. Bortolin, Operazioni sotto copertura e "giusto
processo", in Giurisprudenza europea e processo penale italiano. Nuovi
scenari dopo il «caso Dorigo» e gli interventi della Corte costituzionale,
a cura di A. Balsamo - R.E. Kostoris, Torino, 2008 (sul tema specifico); R.
Casiraghi, Prove vietate e processo penale, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2009 (sulle prove vietate); G. Ubertis, Principi di procedura
penale europea. Le regole del giusto processo, Milano, 2009 (sulla
giurisprudenza di Strasburgo in materia di operazioni sotto copertura e agente
provocatore). |
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Sul tema dell'agente provocatore è molto inteerssante anche il documento sottostante.
Agente infiltrato, agente provocatore e utilizzabilità delle prove:
spunti dalla giurisprudenza della Corte EDU |
31 Maggio 2011
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Cass., Sez.III, 7.4.2011 (dep. 3.5.2011), n. 751, Pres.
Squassoni, Rel. Ramacci, ric. Ediale e a.
[Antonio
Vallini]
La sentenza qui allegata affronta, tra le altre, la tematica
dell’ “agente provocatore” . Il caso è quello consueto: un agente di
polizia, celando la propria qualifica, riesce ad entrare in contatto con un
traffico criminale, ed al fine di raccogliere prove e/o far cogliere in
flagranza i suoi ignari interlocutori compie un’attività che, per la sua
componente di “adesione fattiva” al comportamento criminoso, va ben al di là di
una ordinaria “indagine” su fatti commessi o in corso di realizzazione. In
simili evenienze, qualora risulti che il soggetto, lungi dall'operare da
semplice "infiltrato", abbia posto in essere un contributo da
considerarsi a tutti gli effetti concorsuale - circostanza che si verifica
in modo particolarmente evidente in caso di provocazione “in senso
stretto”, cioè quando il provocato venga in vario modo indotto a commettere
un reato che altrimenti non avrebbe realizzato - si pongono fondamentalmente
due questioni. In primo luogo, v’è da interrogarsi circa la
possibile punibilità dello stesso provocatore, o comunque del soggetto
che abbia posto in essere un contributo concorsuale rilevante, al di fuori dei
limiti stabiliti da espresse clausole di non punibilità in tema di operazioni
“sotto copertura”. La corresponsabilità è normalmente riconosciuta dalla
giurisprudenza: v. ad es. Cass., Sez.IV, 24.1.2008, Casaula, Ced 239640;
Cass., Sez.I, 14.1.2008, D’Amico e altri, Ced 239704. Si esclude, ad es.,
la configurabilità di una scriminante putativa (v. ad es. Cass., Sez.IV,
17.12.2008, Grguric, Ced 243439). Della questione non si occupa la
sentenza in oggetto, intervenuta in un procedimento che vedeva come imputati
soltanto i “provocati”. In secondo luogo, emerge il problema della
responsabilità della persona “sollecitata” a delinquere dall’agente di
polizia. Detta responsabilità è normalmente riconosciuta dal punto di
vista sostanziale; si esclude, in particolare, la natura “impossibile” del
reato realizzato (tra le altre Cass., 27.10.1995, Manna e a., Ced 204794; Cass.,
Sez.VI, 17.6.1993, Chianale, Ced 195049; Cass., Sez.IV, 14.3.2008, Varutti, Ced,
2008/239526). Si discute, tuttavia, della utilizzabilità delle prove
raccolte a suo carico mediante una illecita attività di induzione a
delinquere compiuta dagli stessi inquirenti (fermo restando che, ove il
provocatore assuma la qualità di imputato in procedimento connesso o
collegato, saranno applicabili gli artt.210 e 192 c.p.p.: Cass., Sez.II,
28.5.2008, Cuzzucoli, Ced 241441) A quest’ultimo proposito, assume
particolare rilievo la costante giurisprudenza della Corte Europea per i
Diritti dell’Uomo (Corte EDU, 9.6.1998, Teixeira de Castro c. Portogallo;
Corte EDU, 21.2.2008, Pyrgiotakis c. Grecia; Corte EDU 1.7.2008, Malininas c.
Lituania), rammentata nelle motivazioni della sentenza in oggetto, stando alla
quale deve ritenersi violata la clausola del “processo equo” (art.6 CEDU)
nel caso in cui un soggetto venga condannato per un reato provocato “in senso
stretto” dalle stesse forze di polizia. Tale orientamento, dal punto di
vista dell’ordinamento interno, assume senz’altro un rilievo
processuale, avallando appunto la censura di inutilizzabilità ai sensi
dell’art.191 c.p.p. degli atti raccolti mediante provocazione (v. ad es.
Cass., Sez.III, 3.6.2008, Ced 240269); ferma restando, tuttavia, la liceità
dell’eventuale sequestro del corpo di reato, o delle cose pertinenti al reato
(Cass., Sez.IV, 14.3.2008, Varutti, Ced 239525 ) A parer di taluno,
nondimeno, la giurisprudenza europea avrebbe altresì implicazioni di
carattere sostanziale, perché, al di là della «veste processuale
dell’argomentazione», la regula iuris formulata dalla Corte EDU sembra in
fin dei conti disegnare una vera e propria “causa di non punibilità” a favore
del provocato, che il giudice italiano dovrebbe automaticamente applicare
ogni qual volta accerti la portata “causale” del contributo dell’infiltrato, ad
es. al fine di ritenere quest’ultimo penalmente responsabile [così almeno A.di
Martino, Concorso di persone nel reato, in Le forme di manifestazione
del reato, a cura di G.De Francesco, Torino, 2011, 239]. L’ipotesi non
sembra, per adesso, trovare supporto in giurisprudenza. Nel caso di
specie, più in particolare, il poliziotto – agendo al di fuori delle
procedure stabilite dall’art. 97 d.p.r. 390/90 per le operazioni “sotto
copertura”– attraverso l’attività di un’informatrice entrava in contatto con
una banda di trafficanti, organizzando un primo incontro che, nel suo
progetto, doveva essere soltanto interlocutorio. In realtà, i soggetti
contattati gli offrivano sin da subito alcune partite di droga di cui già
disponevano; l’agente, pur colto di sorpresa, si qualificava e faceva
intervenire i colleghi, che attuavano l’arresto in flagranza. La
Corte ha buon gioco a negare qualsiasi provocazione, e dunque a
confermare la condanna pronunciata dai giudici di merito sulla base del
materiale probatorio raccolto nell’operazione. Il contributo del poliziotto non
aveva “determinato” la commissione di una fattispecie criminosa che, altrimenti,
non sarebbe stato realizzata. Il reato contestato è, infatti, quello di illecita
detenzione di stupefacenti per la vendita; ed è indubbio che i soggetti
già detenessero le sostanze e le avessero, per così dire, precedentemente
“offerte al pubblico”, a prescindere dalla richiesta di contatto avanzata
dall’agente in borghese, la quale dunque costituiva solo l’occasione affinché
“venisse alla luce” un’attività criminosa già in atto. Nonostante
l’attenzione rivolta alla giurisprudenza sovranazionale, la sentenza in esame –
conformemente ai suoi precedenti - trascura come dalle non sempre perspicue
motivazioni delle citate decisioni della Corte EDU potrebbe evincersi (il
condizionale è d’obbligo) un ulteriore presupposto di legittimità per
operazioni lato sensu di infiltrazione poliziesca, e cioè il loro
necessario svolgersi sotto l’egida dell’attività giudiziaria. Per altro
verso, v’è da chiedersi se le ormai numerose, espresse clausole di
legittimità dell’attività di infiltrazione – quale appunto quella contenuta
nel cit. art.97 – per il loro contenuto procedurale non debbano considerarsi,
prima ancora che cause di giustificazione dell’attività dell’infiltrato, vere
e proprie norme di disciplina di uno specifico potere
dell’autorità. Se così fosse, i comportamenti che costituiscano
attuazione di quella pubblica prerogativa dovrebbero ritenersi
“illegittimi” per il fatto stesso di essere stati compiuti senza
rispettare quella disciplina (a prescindere, cioè, dalla loro connotazione
“istigatoria”), con tutto quello che potrebbe conseguirne se non altro sul piano
processuale. Su entrambe queste questioni, evidentemente rilevanti rispetto alla
vicenda concreta trattata in sentenza (come si è detto, l’operazione veniva
compiuta al di fuori delle procedure di cui all’art.97 cit., comportanti anche
un coinvolgimento dell’autorità giudiziaria), sia consentito rinviare a A.
Vallini, Il caso “Teixeira de Castro” davanti alla Corte europea per i
diritti dell’uomo ed il ruolo sistematico delle ipotesi “legali” di
infiltrazione poliziesca, in Leg.pen., 1999, 200
ss.
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