Il controesodo verso sud di centinaia di migliaia di sudanesi, va avanti ormai da settimane. Viaggiano verso Juba, con la speranza di diventare abitanti del 193esimo Stato del mondo. Lasciano il nord, anche nel timore di affrontare anche maggiori discriminazioni, di quelle vissute come profughi di guerra, se il referendum per l'indipendenza di domenica prossima, dovesse trasformarli in cittadini, a tutti gli effetti, di un paese nuovo di zecca, almeno sulla carta. Le previsioni per l'esito dello storico voto del 9 gennaio prossimo, pendono nettamente verso la secessione. Il referendum, segna l'atto conclusivo dell'accordo di pace (Comprehensive Peace Agreement), che nel 2005 ha messo fine a oltre vent'anni di guerra civile, tra il nord musulmano e arabo del Sudan e il suo meridione cristiano-animista.
Il più lungo conflitto africano, combattuto nel paese maggiormente esteso del continente. La guerra civile in Sudan, che causato oltre due milioni di morti, affonda in parte le radici nella spinta "civilizzatrice" del colonialismo britannico, tanto miope da confondere i pastori arabi, nomadi del nord con i contadini neri del sud.
I quattro milioni di sud sudanesi registrati per votare l'indipendenza, con oltre centomila profughi iscritti nelle liste del nord del paese, cui si aggiungono 60mila residenti in paesi stranieri, hanno a disposizione sette giorni per recarsi alle urne. Una necessità dettata dalla carenza di infrastrutture, retaggio del lungo conflitto. In questo senso nord e sud Sudan, sono già due paesi ben distinti. L'arido nord, in cui si parla arabo, dispone di infrastrutture che il sud creerà forse una volta indipendente. Lo skyline di Khartoum, fiore nel deserto cresciuto in fretta e furia, stile Dubai, è ben diverso da quello di Juba, che vanta al massimo le poche strade asfaltate, forse una sessantina di chilometri, che si possono percorrere in un territorio tre volte più esteso dell'Italia. Solo il 15% degli abitanti del Sud Sudan sa leggere e scrivere. Ma il quesito sulla scheda che si ritroveranno tra le mani per scegliere al referendum, è di facile comprensione: una mano, secessione, due, unità.
Il più lungo conflitto africano, combattuto nel paese maggiormente esteso del continente. La guerra civile in Sudan, che causato oltre due milioni di morti, affonda in parte le radici nella spinta "civilizzatrice" del colonialismo britannico, tanto miope da confondere i pastori arabi, nomadi del nord con i contadini neri del sud.
I quattro milioni di sud sudanesi registrati per votare l'indipendenza, con oltre centomila profughi iscritti nelle liste del nord del paese, cui si aggiungono 60mila residenti in paesi stranieri, hanno a disposizione sette giorni per recarsi alle urne. Una necessità dettata dalla carenza di infrastrutture, retaggio del lungo conflitto. In questo senso nord e sud Sudan, sono già due paesi ben distinti. L'arido nord, in cui si parla arabo, dispone di infrastrutture che il sud creerà forse una volta indipendente. Lo skyline di Khartoum, fiore nel deserto cresciuto in fretta e furia, stile Dubai, è ben diverso da quello di Juba, che vanta al massimo le poche strade asfaltate, forse una sessantina di chilometri, che si possono percorrere in un territorio tre volte più esteso dell'Italia. Solo il 15% degli abitanti del Sud Sudan sa leggere e scrivere. Ma il quesito sulla scheda che si ritroveranno tra le mani per scegliere al referendum, è di facile comprensione: una mano, secessione, due, unità.
E se la maggior parte degli ingenti giacimenti petroliferi del Sudan, si trovano nel meridione del paese, l'infrastruttura con cui si estrae il greggio, circa 500mila barili al giorno, appartiene al nord. I risultati del referendum che inizia domenica, saranno noti tra circa trenta giorni. Ma a Juba si prepara già la festa. Perché sia valido sono necessari i voti di almeno il 60% degli aventi diritto. Il governo dello Stato semi-autonomo del Sud Sudan, che conta circa nove milioni di abitanti, ha assicurato una vasta mobilitazione popolare per la registrazione dei votanti. Il convincente messaggio del leader sudsudanese, Salva Kiir, è che il referendum rappresenta la scelta tra «restare cittadini di seconda classe nel proprio paese, o persone libere in un proprio Stato indipendente».
A poche ore dall'apertura delle urne, il presidente sudanese, Omar al-Bashir, primo capo di stato in carica a ricevere una condanna dalla Cpi dell'Aja per Crimini di guerra e contro l'umanità, oltre che genocidio, commessi in Darfur, si è recato a Juba con in mano un ramoscello d'ulivo. La popolazione lo ha salutato con una mano sola alzata. Un segno di benvenuto, ma anche un'indicazione di voto. Anche se la divisione del paese provoca tristezza, occorre rallegrarsi dalla prospettiva di pace che può derivarne, ha dichiarato al-Bashir, nell'ex territorio nemico, dov'è stato accolto col tappeto rosso, come si conviene per le cerimonie di accoglienza dovute al capo di Stato di un paese straniero. L'atteggiamento mostrato dal generalissimo di Khartoum a Juba, segna un netto cambio di tono rispetto a un passato molto prossimo, in cui, insieme ad alleti come il leader libico Gheddafi, aveva indicato la secessione del sud come un percoloso precedente per l'Africa.
Poi, proprio nel corso di un recente vertice a Tripoli, cui ha partecipato anche il presidente egiziano Mubarak, al-Bashir ha rassicurato la comunità internazionale sulle sue buone intenzioni rispetto alla libera scelta sull'autodeterminazione del sud. Ma il lieto fine sul futuro pacifico tra nord e sud Sudan è ancora tutto da scrivere. Tra i sudanesi arrivati in questi giorni da Khartoum a Juba con ogni mezzo, risalendo il Nilo e mettendo a dura prova la schiena dopo giorni di viaggio su autobus claudicanti per i percorsi su vie sterrate, c'è chi dice che se passa la secessione, per i profughi rimasti al nord non sarà più accessibile l'assistenza medica. «Il ministro dell'Informazione ha detto che per noi non ci saranno neanche le siringhe», ha dichiarato Rebecca Nyathiec, 29 anni, arrivata a Juba da Rabak, sulla riva orientale del Nilo a nord del Sudan, dove ha vissuto per tre quarti della sua vita. Come altri sui conterranei, il ritorno verso sud è un viaggio della speranza, ma allo stesso tempo un cammino verso l'ignoto. Se al-Bashir da una parte promette di rispettare l'esito del referendum, dall'altra, le sue truppe sono schierate lungo il confine. Altra incognita è la coesistenza in un sud Sudan indipendente, degli oltre duecento gruppi etnici che popolano il paese. Alcuni leader della ex ribellione dell'Spla (ala armata dell'Splm), di cui Salva Kiir fu comandante, hanno formato proprie fazioni, cercando di stabilire sfere d'influenza nel futuro nuovo Stato. Non si può escludere che alcuni di essi siano manovrati dall'esterno, per destabilizzare un nuovo Stato al sud.
Ultima incognita per un futuro pacifico tra nord e sud Sudan, è l'esito della consultazione di Abyei, capitale petrolifera del paese a cavallo tra nord e sud, che vota separatamente, per decidere da che parte stare. Sarà il risultato di un accordo sulla spartizione dei proventi dell'oro nero a determinare il destino del Sudan. Gli investitori internazionali, dalla Gran Bretagna, che ha di recente annunciato l'inizio di una "nuova epoca" nelle relazioni economiche con il gigante africano, alla Cina, primo partner commerciale di Khartoum, hanno tutto l'interesse a conservare intatte le penne della gallina dalle uova d'oro. A conti fatti, la pace conviene a tutti, più della guerra. Se al-Bashir non mette i bastoni tra le ruote all'indipendeza del Sud, dove non è esclusa, come ha detto il presidente del sud Salva Kiir, l'apertura di un'ambasciata israeliana, gli Usa sarebbero pronti levare le sanzioni a Khartoum, vista oggi da Washington come una diga per arginare l'ondata Jihadista provaniente dalla Somalia. Che poi, in Sudan, in base all'articolo 149 del codice di procedura penale, lo stupro sia equiparato all'adulterio, è un problema marginale. Business is business è la parola magica per la coesistenza. Altro che fate l'amore e non la guerra. Con tutti i nuovi amici che potrebbe ritrovarsi facendo il bravo e lasciando andare il sud per la sua strada, al-Bashir dovrebbe solo fare un po' di attenzione a non essere arrestato e consegnato alla Cpi la prossima volta che mette piede a Juba.
A poche ore dall'apertura delle urne, il presidente sudanese, Omar al-Bashir, primo capo di stato in carica a ricevere una condanna dalla Cpi dell'Aja per Crimini di guerra e contro l'umanità, oltre che genocidio, commessi in Darfur, si è recato a Juba con in mano un ramoscello d'ulivo. La popolazione lo ha salutato con una mano sola alzata. Un segno di benvenuto, ma anche un'indicazione di voto. Anche se la divisione del paese provoca tristezza, occorre rallegrarsi dalla prospettiva di pace che può derivarne, ha dichiarato al-Bashir, nell'ex territorio nemico, dov'è stato accolto col tappeto rosso, come si conviene per le cerimonie di accoglienza dovute al capo di Stato di un paese straniero. L'atteggiamento mostrato dal generalissimo di Khartoum a Juba, segna un netto cambio di tono rispetto a un passato molto prossimo, in cui, insieme ad alleti come il leader libico Gheddafi, aveva indicato la secessione del sud come un percoloso precedente per l'Africa.
Poi, proprio nel corso di un recente vertice a Tripoli, cui ha partecipato anche il presidente egiziano Mubarak, al-Bashir ha rassicurato la comunità internazionale sulle sue buone intenzioni rispetto alla libera scelta sull'autodeterminazione del sud. Ma il lieto fine sul futuro pacifico tra nord e sud Sudan è ancora tutto da scrivere. Tra i sudanesi arrivati in questi giorni da Khartoum a Juba con ogni mezzo, risalendo il Nilo e mettendo a dura prova la schiena dopo giorni di viaggio su autobus claudicanti per i percorsi su vie sterrate, c'è chi dice che se passa la secessione, per i profughi rimasti al nord non sarà più accessibile l'assistenza medica. «Il ministro dell'Informazione ha detto che per noi non ci saranno neanche le siringhe», ha dichiarato Rebecca Nyathiec, 29 anni, arrivata a Juba da Rabak, sulla riva orientale del Nilo a nord del Sudan, dove ha vissuto per tre quarti della sua vita. Come altri sui conterranei, il ritorno verso sud è un viaggio della speranza, ma allo stesso tempo un cammino verso l'ignoto. Se al-Bashir da una parte promette di rispettare l'esito del referendum, dall'altra, le sue truppe sono schierate lungo il confine. Altra incognita è la coesistenza in un sud Sudan indipendente, degli oltre duecento gruppi etnici che popolano il paese. Alcuni leader della ex ribellione dell'Spla (ala armata dell'Splm), di cui Salva Kiir fu comandante, hanno formato proprie fazioni, cercando di stabilire sfere d'influenza nel futuro nuovo Stato. Non si può escludere che alcuni di essi siano manovrati dall'esterno, per destabilizzare un nuovo Stato al sud.
Ultima incognita per un futuro pacifico tra nord e sud Sudan, è l'esito della consultazione di Abyei, capitale petrolifera del paese a cavallo tra nord e sud, che vota separatamente, per decidere da che parte stare. Sarà il risultato di un accordo sulla spartizione dei proventi dell'oro nero a determinare il destino del Sudan. Gli investitori internazionali, dalla Gran Bretagna, che ha di recente annunciato l'inizio di una "nuova epoca" nelle relazioni economiche con il gigante africano, alla Cina, primo partner commerciale di Khartoum, hanno tutto l'interesse a conservare intatte le penne della gallina dalle uova d'oro. A conti fatti, la pace conviene a tutti, più della guerra. Se al-Bashir non mette i bastoni tra le ruote all'indipendeza del Sud, dove non è esclusa, come ha detto il presidente del sud Salva Kiir, l'apertura di un'ambasciata israeliana, gli Usa sarebbero pronti levare le sanzioni a Khartoum, vista oggi da Washington come una diga per arginare l'ondata Jihadista provaniente dalla Somalia. Che poi, in Sudan, in base all'articolo 149 del codice di procedura penale, lo stupro sia equiparato all'adulterio, è un problema marginale. Business is business è la parola magica per la coesistenza. Altro che fate l'amore e non la guerra. Con tutti i nuovi amici che potrebbe ritrovarsi facendo il bravo e lasciando andare il sud per la sua strada, al-Bashir dovrebbe solo fare un po' di attenzione a non essere arrestato e consegnato alla Cpi la prossima volta che mette piede a Juba.
dal sito web http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-07/sudan-172927.shtml?uuid=AYKdnwxC#continue
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