Cassazione penale , sez. V, sentenza 28.11.2008 n° 44516 (articolo di Simone Marani su http://www.altalex.com/index.php?idnot=45005)
il quesito che si pone l'autore è "Vi può essere riduzione in schiavitù nel caso in cui il minore sia costretto a mendicare per poche ore al giorno? " . Qui di seguito si riporta un estratto sintetizzato dell'articolo evidenziato.
In merito alla prima problematica queste sono le argomentazioni sostenute dalla giurisprudenza:
- Il bene giuridico oggetto di tutela da parte dell’art. 600 c.p. è costituito dallo status libertatis della persona, compromesso da condotte di costituzione o di mantenimento di rapporti di padronanza, anche al fine di reprimere episodi di traffici di donne e uomini provenienti dai Paesi più poveri.
- In merito alla condotta di “accattonaggio”, i giudici della Corte evidenziano come, accanto a fenomeni, per così dire “tradizionali”, posti in essere da famiglie in condizioni di indigenza, oppure da piccoli gruppi etnici con difficoltà di inserimento all’interno del sistema economico del Paese, vi siano forme organizzate di accattonaggio, gestite da soggetti aventi pochi scrupoli che non esitano a sfruttare donne e minori provenienti da zone economicamente disagiate.
- L’art. 600 c.p. contempla un reato “comune” il quale, potendo essere commesso da “chiunque”, può ben configurarsi anche nel caso in cui siano i genitori a impiegare i figli nell’attività in esame, come confermato dal fatto che la norma contempla la condotta commessa con abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità psichica o fisica del minore (situazioni che possono sussistere all’interno di un rapporto familiare).
- Il comportamento diretto a mendicare, in passato contemplato dall’art. 670 c.p., attualmente non costituisce più attività illecita, stante l’abrogazione dell’articolo suddetto ad opera dell’art. 18 l. 25 giugno 1999, n. 205, mentre continua a non essere consentito, per espressa previsione dell’art. 671 c.p., l’impiego di soggetti minorenni nell’accattonaggio, posto che l’attività in questione sottrae il minore all’istruzione ed alla educazione, tradizionalmente intesi come diritti fondamentali del medesimo .
- Come confermato dai giudici della Quinta Sezione Penale “Se l'agente, come nel caso di specie, sia dedita alla mendicità per le necessità della sua famiglia e si dedichi a tale attività per alcune ore del giorno portando con sé i figli è davvero difficile configurare il reato di cui all'art. 600 c.p. perché é ben possibile che, dopo avere esercitato la mendicità nelle ore del mattino, nella restante parte della giornata la donna si prenda cura dei figli in modo adeguato cercando di venire incontro alle loro necessità e consentendo loro di giocare e frequentare altri bambini”.
- In una simile situazione non emergerebbe quella integrale negazione della libertà e della dignità umana del minore, tipica del soggetto che versi in stato di completa servitù, condizione che legittima le gravi sanzioni previste dall'art. 600 c.p..
Per quanto attiene alla seconda delle questioni prospettate la giurisprudenza di legittimità così argomenta:
- Secondo un primo orientamento, con riferimento al testo previgente dell'art. 600 c.p., non sussisterebbe alcun rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di riduzione in schiavitù, trattandosi di reati che tutelano interessi diversi, ovvero la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo status libertatis dell'individuo nella seconda e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto, nell’ipotesi dell'art. 572 c.p., è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni mentre, nel caso di riduzione in schiavitù, è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere .
- Una diversa e contraria impostazione, tenuto conto anche della introduzione, nell'art. 600 c.p., della nuova fattispecie della riduzione in servitù, ha stabilito che le condotte costitutive della fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tra loro in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, e di quest'ultimo implicano il maltrattamento, a prescindere dalla percezione che questi abbia della sua situazione, sicché detto reato non può concorrere, per il principio di consunzione, con quello di maltrattamenti in famiglia .
- La giurisprudenza in commento decide di accogliere tale seconda teoria: “Tale ultimo indirizzo appare da condividere perché coglie con molta maggiore precisione l'ambito operativo delle due fattispecie criminose, nel senso che si può parlare di maltrattamenti in famiglia quando il genitore consenta o favorisca attività del minore lesive della sua integrità fisica e psichica, mentre sarà ravvisabile il più grave reato di riduzione in servitù quando le forme di assoggettamento del minore si traducano in una integrale negazione della libertà e dignità dello stesso. Le due condotte sono, per così dire, in progressione criminosa e quando sia ravvisabile la seconda, la prima deve intendersi consunta. Viceversa quando, invece, la condotta dell'agente non produca un completo asservimento del soggetto passivo, ma cagioni allo stesso sofferenze morali e materiali sarà ravvisabile il meno grave delitto di maltrattamenti in famiglia”.
- Tornando al caso di specie, non è possibile individuare, nella condotta della madre, un totale asservimento del minore sottoposto alla sua autorità ed una eccessiva utilizzazione del medesimo al fine di sfruttamento economico, mentre si può rilevare nella donna una condotta omissiva idonea a produrre al bambino gravi danni, consistenti nel fatto di costringere quest’ultimo a chiedere l’elemosina ai passanti, stando in piedi per oltre quattro ore al giorno, in pieno periodo invernale, senza che fosse vestito in maniera adeguata, in tal modo omettendo di adempiere ai doveri di educazione, di istruzione e mantenimento, che la legge impone ai genitori nei confronti dei figli minori. Una tale condotta appare sicuramente lesiva dell’integrità fisica e morale del bambino, determinando una situazione di grave sofferenza.
- Per tali motivi, la Suprema Corte, qualificando il fatto ex art. 572 [n.d.r. Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli)], annulla la sentenza impugnata.
- Il bene giuridico oggetto di tutela da parte dell’art. 600 c.p. è costituito dallo status libertatis della persona, compromesso da condotte di costituzione o di mantenimento di rapporti di padronanza, anche al fine di reprimere episodi di traffici di donne e uomini provenienti dai Paesi più poveri.
- In merito alla condotta di “accattonaggio”, i giudici della Corte evidenziano come, accanto a fenomeni, per così dire “tradizionali”, posti in essere da famiglie in condizioni di indigenza, oppure da piccoli gruppi etnici con difficoltà di inserimento all’interno del sistema economico del Paese, vi siano forme organizzate di accattonaggio, gestite da soggetti aventi pochi scrupoli che non esitano a sfruttare donne e minori provenienti da zone economicamente disagiate.
- L’art. 600 c.p. contempla un reato “comune” il quale, potendo essere commesso da “chiunque”, può ben configurarsi anche nel caso in cui siano i genitori a impiegare i figli nell’attività in esame, come confermato dal fatto che la norma contempla la condotta commessa con abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità psichica o fisica del minore (situazioni che possono sussistere all’interno di un rapporto familiare).
- Il comportamento diretto a mendicare, in passato contemplato dall’art. 670 c.p., attualmente non costituisce più attività illecita, stante l’abrogazione dell’articolo suddetto ad opera dell’art. 18 l. 25 giugno 1999, n. 205, mentre continua a non essere consentito, per espressa previsione dell’art. 671 c.p., l’impiego di soggetti minorenni nell’accattonaggio, posto che l’attività in questione sottrae il minore all’istruzione ed alla educazione, tradizionalmente intesi come diritti fondamentali del medesimo .
- Come confermato dai giudici della Quinta Sezione Penale “Se l'agente, come nel caso di specie, sia dedita alla mendicità per le necessità della sua famiglia e si dedichi a tale attività per alcune ore del giorno portando con sé i figli è davvero difficile configurare il reato di cui all'art. 600 c.p. perché é ben possibile che, dopo avere esercitato la mendicità nelle ore del mattino, nella restante parte della giornata la donna si prenda cura dei figli in modo adeguato cercando di venire incontro alle loro necessità e consentendo loro di giocare e frequentare altri bambini”.
- In una simile situazione non emergerebbe quella integrale negazione della libertà e della dignità umana del minore, tipica del soggetto che versi in stato di completa servitù, condizione che legittima le gravi sanzioni previste dall'art. 600 c.p..
Per quanto attiene alla seconda delle questioni prospettate la giurisprudenza di legittimità così argomenta:
- Secondo un primo orientamento, con riferimento al testo previgente dell'art. 600 c.p., non sussisterebbe alcun rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di riduzione in schiavitù, trattandosi di reati che tutelano interessi diversi, ovvero la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo status libertatis dell'individuo nella seconda e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto, nell’ipotesi dell'art. 572 c.p., è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni mentre, nel caso di riduzione in schiavitù, è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere .
- Una diversa e contraria impostazione, tenuto conto anche della introduzione, nell'art. 600 c.p., della nuova fattispecie della riduzione in servitù, ha stabilito che le condotte costitutive della fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tra loro in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, e di quest'ultimo implicano il maltrattamento, a prescindere dalla percezione che questi abbia della sua situazione, sicché detto reato non può concorrere, per il principio di consunzione, con quello di maltrattamenti in famiglia .
- La giurisprudenza in commento decide di accogliere tale seconda teoria: “Tale ultimo indirizzo appare da condividere perché coglie con molta maggiore precisione l'ambito operativo delle due fattispecie criminose, nel senso che si può parlare di maltrattamenti in famiglia quando il genitore consenta o favorisca attività del minore lesive della sua integrità fisica e psichica, mentre sarà ravvisabile il più grave reato di riduzione in servitù quando le forme di assoggettamento del minore si traducano in una integrale negazione della libertà e dignità dello stesso. Le due condotte sono, per così dire, in progressione criminosa e quando sia ravvisabile la seconda, la prima deve intendersi consunta. Viceversa quando, invece, la condotta dell'agente non produca un completo asservimento del soggetto passivo, ma cagioni allo stesso sofferenze morali e materiali sarà ravvisabile il meno grave delitto di maltrattamenti in famiglia”.
- Tornando al caso di specie, non è possibile individuare, nella condotta della madre, un totale asservimento del minore sottoposto alla sua autorità ed una eccessiva utilizzazione del medesimo al fine di sfruttamento economico, mentre si può rilevare nella donna una condotta omissiva idonea a produrre al bambino gravi danni, consistenti nel fatto di costringere quest’ultimo a chiedere l’elemosina ai passanti, stando in piedi per oltre quattro ore al giorno, in pieno periodo invernale, senza che fosse vestito in maniera adeguata, in tal modo omettendo di adempiere ai doveri di educazione, di istruzione e mantenimento, che la legge impone ai genitori nei confronti dei figli minori. Una tale condotta appare sicuramente lesiva dell’integrità fisica e morale del bambino, determinando una situazione di grave sofferenza.
- Per tali motivi, la Suprema Corte, qualificando il fatto ex art. 572 [n.d.r. Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli)], annulla la sentenza impugnata.
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