C. cost., 11 marzo 2011, n. 80 (sent.), Pres. De Siervo, Rel. Frigo (pubblicità del procedimento di prevenzione ed attuale efficacia della CEDU nell'ordinamento italiano)
Una fondamentale pronuncia in tema di rapporti tra Convenzione europea e ordinamento italiano: trattando il tema della pubblicità delle udienze in Cassazione, la Consulta conferma l'impianto delle sentenze 'gemelle' del 2007 pur dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona[Guglielmo Leo]
1. Trattando l’annosa questione della pubblicità delle udienze nei procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte costituzionale ha segnato un nuovo passaggio della propria riflessione sul sistema delle fonti, ed in particolare circa l’efficacia, nel nostro ordinamento, delle Carte europee a tutela dei diritti umani. 2. Il problema di partenza è noto. L’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo assicura ad ogni persona il diritto ad un’equa e pubblica udienza per la determinazione dei suoi diritti o per la verifica di fondatezza delle accuse che le vengono rivolte. La Corte di Strasburgo ha più volte stabilito che, in applicazione di tale principio, il nostro ordinamento deve riconoscere la possibilità, per coloro nei cui confronti sia proposta l’applicazione di una misura di prevenzione, di chiedere ed ottenere la trattazione della causa in regime di pubblicità (tra le altre, sent. 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia). Proprio alla luce della giurisprudenza indicata, facendo applicazione del parametro rappresentato dal primo comma dell’art. 117 Cost., la Corte costituzionale ha recentemente stabilito l’illegittimità della norma che precludeva al giudice, nella fase di merito del procedimento di prevenzione, la possibilità di disporre, su richiesta dell’interessato, che il procedimento stesso fosse celebrato in forma pubblica (sentenza n. 93 del 2010). Il problema si è riproposto per la fase di legittimità del procedimento, ed infatti la questione oggi risolta dalla Corte era stata sollevata dalla Cassazione, ancora una volta con riguardo al primo comma dell’art. 117 Cost.: si chiedeva fossero dichiarati illegittimi gli artt. 4 della legge n. 1423 del 1956 e 2-ter della legge n. 575 del 1965, n. 575, che riguardano rispettivamente la prevenzione in materia di criminalità comune e quella concernente la criminalità mafiosa. Lo schema di ragionamento era quello ormai consueto: la norma interna contrasta con la norma convenzionale, che funge da parametro interposto. Ebbene, la Corte ha esordito riconoscendo come, nella prospettiva della C.e.d.u., la pubblicità delle udienze debba rappresentare una regola, che ammette eccezioni solo in base a peculiari caratteristiche del caso concreto, oppure per procedure particolari, di contenuto essenzialmente tecnico. Tali eccezioni, per altro, sono state generalmente ammesse dai giudici di Strasburgo in procedure che, comunque, contemplano una fase pubblica di discussione della causa portata in giudizio. Ora, proprio per effetto della già citata sentenza n. 93 del 2010 (successiva all’ordinanza di rimessione), anche il nostro procedimento di prevenzione è ormai segnato dalla pubblicità (o meglio, dalla possibilità di uno svolgimento in forma pubblica), nella fase che si svolge innanzi al Tribunale ed in quella concernente la Corte di appello. È rimasto tuttavia sul tappeto il dubbio di compatibilità con la Convenzione delle norme, non incise dalla sentenza, che regolano il giudizio di prevenzione innanzi alla Corte di cassazione. 3. Per comprendere come mai la Consulta abbia deciso di verificare l’eventualità di una sopravvenuta efficacia diretta delle norme convenzionali, occorre sapere che la parte privata del giudizio a quo, costituitasi anche nel giudizio di costituzionalità, ha sostenuto proprio la tesi secondo cui la Corte di cassazione avrebbe dovuto disapplicare la norma interna configgente, e disporre direttamente che la trattazione del ricorso fosse compiuta in forma pubblica. Sennonché, ha osservato la stessa Consulta, se l’assunto della parte fosse stato fondato, la questione sollevata dalla Cassazione avrebbe dovuto considerarsi inammissibile per irrilevanza. È un dato acquisito della giurisprudenza costituzionale: se il giudice interno assume che la norma nazionale pertinente alla fattispecie concreta si trovi in conflitto con una disposizione “comunitaria” (ma dovrebbe ormai dirsi “dell’Unione”), e ritiene tale disposizione munita di efficacia diretta nel nostro ordinamento, non deve fare applicazione della norma interna; e tutti sanno, naturalmente, che la necessità di applicare la norma censurata nel giudizio a quo è la prima condizione di rilevanza della questione di legittimità costituzionale. 4. Sono ormai noti gli argomenti principali a sostegno di una «rinnovata» prospettazione di efficacia diretta per la C.e.d.u. e per la Carta di Nizza, dopo che, con riguardo alla prima, le sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 avevano espresso l’assunto contrario. L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore dopo il 30 novembre 2009 per effetto del Trattato di Lisbona, stabilisce al primo paragrafo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Infine, il terzo paragrafo recita che «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Rinviando com’è ovvio alla trattazione analitica che si trova in sentenza, si può dire con sintesi estrema come la Corte abbia «neutralizzato» i tre elementi di novità. Anzitutto l’adesione della UE, quale soggetto della comunità internazionale, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: come in altre occasioni (ad esempio, la sentenza n. 250 del 2010 in materia di diritto penale dell’immigrazione), la Corte ha negato alla norma ogni attualità di effetti, posto che la relativa procedura è ancora in corso (non senza avvertire, con tono incidentale, della possibilità di «altri rilievi»). In secondo luogo, la valenza dei diritti riconosciuti dalla Convenzione quali principi generali del diritto dell’Unione era già stabilita nel testo precedente dell’art. 6 del Trattato UE, e la Corte aveva già ritenuto nel 2007 (con argomenti richiamati nell’occasione odierna) la sua irrilevanza a fini di determinazione dell’efficacia delle norme convenzionali negli ordinamenti nazionali: «i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (…) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale». Altrettanto va detto infine, a parere della Consulta, quanto alla equiparazione ai Trattati della Carta di Nizza. Secondo parte degli interpreti, tale equiparazione conferirebbe alla Carta gli stessi effetti «interni» delle norme trattatistiche. Non solo: poiché il terzo paragrafo dell’art. 52 contiene la nota «clausola di equivalenza» tra i livelli di tutela garantiti dalla Carta e quelli assicurati dalla Convenzione europea, l’effetto di «trattatizzazione» si estenderebbe, appunto, anche alla Convenzione. In realtà – osserva la Corte – gli Stati riuniti a Lisbona hanno molto chiaramente espresso il concetto che, pur doverosamente manifestando un’opportuna tensione verso la generalizzata promozione ed assicurazione dei diritti umani al proprio interno, l’Unione non ha inteso estendere le proprie competenze in siffatta direzione (lo stesso art. 6 del Trattato UE, al paragrafo 1, primo alinea, stabilisce che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati»). Un concetto già espresso nell’ambito della stessa Carta di Nizza, la quale, all’art. 51, stabilisce come le disposizioni in essa contenute si applichino «alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea è stato già escluso più volte dalla Corte di giustizia, sia prima che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (tra le altre, sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU). Insomma, il presupposto per applicabilità della Carta di Nizza è che «la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto». 5. La Corte può dunque tornare al problema di partenza. L’eventuale contrasto della norma censurata con l’art. 6 della C.e.d.u. non potrebbe che condurre ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale. La questione sollevata dalla Corte di cassazione, nella parte in cui non è stata risolta dalla sentenza n. 93 del 2010, è dunque ammissibile. L’ipotizzato contrasto, tuttavia, non sussiste. I giudici di Strasburgo non hanno mai affermato violazioni della norma convenzionale riguardo a procedure non pubbliche che avessero ad oggetto questioni di diritto. L’omissione, secondo la Consulta, corrisponde all’essenza dei principi enunciati nella materia in esame. Per verificarne la compatibilità con il principio di pubblicità, i modelli procedimentali vanno infatti apprezzati nel loro complesso,di talchè, quando è preceduta da udienze che sono (o possono essere) aperte al pubblico, una fase finale dedicata esclusivamente alla verifica di legittimità può utilmente essere celebrata in forma non partecipata (da ultimo, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia). In effetti, l’esigenza del controllo pubblico sul corretto esercizio della giurisdizione è particolarmente pressante nella fase di assunzione delle prove, e delle prove dichiarative in particolare, mentre si attenua riguardo a procedure assolutamente tecniche, centrate sulla discussione tra operatori del processo. 6. In definitiva – e la conclusione sembra valevole per l’intero modello del giudizio camerale di legittimità (art. 611 c.p.p.), almeno quando lo stesso consegue a procedimenti di merito aperti alla partecipazione del pubblico – il giudizio di cassazione può svolgersi nella necessaria assenza di estranei, senza che da questo derivi una violazione dell’art. 6 della C.e.d.u., così come interpretato dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. Download Documento
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