La Corte, in questa importante sentenza, ha escluso che nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità di una società sia ammissibile la costituzione di parte civile.
La Sezione Sesta afferma infatti che la mancanza di qualsiasi riferimento espresso alla parte civile nell’ambito del d.lgs. n. 231 del 2001 non costituisce una lacuna, ma piuttosto la conseguenza di una consapevole scelta operata dal legislatore in ragione del fatto che la persona giuridica è chiamata a rispondere non del reato, bensì di un autonomo illecito inidoneo a fondare una altrettanto autonoma pretesa risarcitoria
Il commento estratto da: http://www.puntosicuro.it/edilizia-cat-6/illecito-amministrativo-231-la-cassazione-esclude-la-parte-civile-art-10570/
A cura di Anna Guardavilla.
Il 22 gennaio 2011 è stata depositata dalla Cassazione Penale l’importante sentenza n. 2251 del 5 ottobre 2010, che ha fatto chiarezza sul tema dell’ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nei procedimenti per la responsabilità amministrativa degli Enti (D.Lgs. 231/01).
In questa pronuncia, con la quale è stata affrontata per la prima volta questa questione in sede di legittimità, la Suprema Corte ha escluso tale possibilità. Vediamo perché.
Va premesso che in questi anni una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, nelle sentenze dei Tribunali e nella letteratura giuridica sull’argomento, aveva ritenuto che la costituzione di parte civile fosse compatibile con le regole sul processo a carico degli enti, in applicazione della clausola generale contenuta nell’art. 34 del D.Lgs. 231/01 che dichiara applicabili, “per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato” anche “le disposizioni del codice di procedura penale”; quindi anche, si osservava, gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.
Queste due ultime norme, la cui applicabilità è al centro della sentenza della Corte, quindi che è bene siano qui illustrate, prevedono rispettivamente quanto segue:
“Art. 185 c.p. (Restituzioni e risarcimento del danno):
Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili.
Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.”
“Art. 74 c.p.p. (Legittimazione all’azione civile)
1. L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’articolo 185 del codice penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile.”
L’impostazione che prevedeva la compatibilità di tali norme con il processo 231 non è stata accolta dalla Cassazione, secondo la quale l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il “reato”, ma costituisce qualcosa di diverso che addirittura lo ricomprende, per cui deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al “reato” in senso tecnico.
L’ostacolo maggiore all’applicazione diretta dell’art. 185 c.p. nella disciplina del processo ai sensi del D.Lgs. 231/2001, secondo la Corte, è dato dal fatto che questa norma “si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest’ultima che non può coprire anche l’illecito dell’ente, cosi come delineato nel citato d.lgs. 231/2001”. E analogamente può dirsi per l’art. 74 c.p.p. [1]
Il concetto viene così chiarito e sintetizzato nella sentenza: “in sostanza, l’impossibilità di procedere all’applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell’illecito amministrativo.”
È interessante a questo proposito il passaggio della pronuncia in cui la Corte entra nel merito delle peculiarità che caratterizzano l’illecito amministrativo della società, di cui il reato commesso dalla persona fisica rappresenta solo un presupposto: “il tentativo di applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due disposizioni menzionate non tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l’ente viene chiamato a rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio.
Il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità dell’ente che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato. In altri termini, all’accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell’interesse ovvero del vantaggio derivato all’ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, in presenza cioè di criteri di collegamento teleologico dell’azione del primo all’interesse o al vantaggio dell’altro che risponde autonomamente dell’illecito "amministrativo". Ne deriva che tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone.”
Queste stesse obiezioni, secondo la Cassazione, sono quelle che portano a rifiutare la tesi sostenuta nella memoria presentata nell’interesse di Eni s.p.a. ed Eni Power s.p.a. (che si erano costituite parte civile nel processo insieme a SnamProgetti s.p.a) che inquadrava l’illecito dell’ente come fatto produttivo di danni risarcibili sulla base dell’art. 2043 c.c. (risarcimento per fatto illecito) e la responsabilità dell’ente come una responsabilità per fatto proprio.
A tal proposito, infatti, la Cassazione sottolinea che la gestione dell’azione civile nel processo penale non è un principio generale dell’ordinamento bensì una deroga al principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale. Inoltre, passando dal livello processuale al livello sostanziale, “non pare individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato”.
Invece, puntualizza la Cassazione,“va ribadita l’autonomia dell’illecito addebitato all’ente, dovendo distinguersi la sua responsabilità da quella della persona fisica e riconoscendo che l’eventuale danno cagionato dal reato non coincide con quello derivante dall’illecito amministrativo di cui risponde l’ente.”
Viene pertanto avallata dalla sentenza quella dottrina che negli anni aveva evidenziato come “i danni riferibili al reato sembrano esaurire l’orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa risarcitoria”, escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente dall’illecito dell’ente.
Di conseguenza, “non possano essere considerati danni prodotti dall’illecito amministrativo quelle ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei creditori e dei dipendenti dell’ente per effetto dell’applicazione delle sanzioni a seguito dell’accertata responsabilità dell’ente, in quanto l’eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua causa diretta nell’illecito amministrativo.”
E “peraltro, anche i danni subiti dai soci e dai terzi incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva contenuta nell’art. 11 lett. v) della legge delega n. 300/2000, a cui non è stata data attuazione, non erano quelli derivanti direttamente dall’illecito amministrativo, ma costituivano anch’essi ricadute negative derivanti dall’applicazione delle sanzioni, pecuniarie o interdittive.”
Infine, osserva la Corte, “se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora “l’ostinato silenzio” del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ ente.”
Infine, osserva la Corte, “se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora “l’ostinato silenzio” del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ ente.”
Va infatti ricordato che tra le principali argomentazioni che hanno spinto la Corte ad escludere l’ammissibilità della costituzione di parte civile nei processi per la responsabilità amministrativa, vi è quella che si basa sul dato letterale: “la constatazione che nel d.lgs. 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile”. Secondo la Corte,“la sistematica rimozione, nel d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla persona offesa)” non è casuale bensì “porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica. La parte civile non è menzionata nella sezione Il del capo III del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell’ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all’udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.”
A ciò poi va aggiunto il fatto che il D.Lgs. 231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di escludere questo soggetto dal processo:
- l’art. 27, che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente la limita all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili;
- la regolamentazione del sequestro conservativo (art. 54), regolamentato in maniera asimmetrica rispetto all’omologo istituto codicistico di cui all’art. 316 c.p.p. nel senso dell’esclusione della funzione di garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della parte civile.
Secondo la Cassazione, in conclusione, “deve ritenersi che nel processo a carico dell’ente, così come disciplinato nel d.lgs. 231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile. Questa deroga rispetto a quanto previsto nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.. La “disparità” di trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da adeguata giustificazione in considerazione dell’illecito oggetto dell’accertamento nel processo a carico dell’ente che, prescindendo dalla definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui, come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali dell’illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la costituzione della parte civile.”
[1] Secondo la Corte, infatti, “anche l’art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell’art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti dall’art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato.”
TESTO DELLA SENTENZA
estratto da: http://www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=5910
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 22 gennaio 2011, n.2251 - Pres. Di Virginio – est. Fidelbo
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
1. - Il G.u.p. del Tribunale di
Milano nell'ambito di un complesso procedimento in cui risultavano imputate
numerose persone e società in ordine a reati di associazione per delinquere,
corruzione, appropriazione indebita, oltre che per illeciti amministrativi ex
d.lgs. 231 del
2. - Contro questa sentenza
hanno presentato distinti ricorsi per cassazione (A) e (B), deducendo i medesimi
motivi.
I ricorrenti, tramite il loro
difensore di fiducia, hanno dedotto l'inosservanza degli arti. 444 e 129 c.p.p.
perché il giudice avrebbe dovuto dichiarare, ai sensi dell'articolo da ultimo
citato, l'estinzione del reato di appropriazione indebita contestato ai capi B)
ed E), essendosi verificata la parziale prescrizione al momento della pronuncia
della sentenza, intervenuta a distanza di quasi un anno dalla domanda di
'patteggiamento' presentata dalle parti, con conseguente necessità di
rideterminare la pena pattuita con riferimento al reato associativo più grave di
cui al capo A).
In ogni caso, eccepiscono
l'avvenuta prescrizione anche degli altri reati, cioè dell'associazione per
delinquere e dei residui episodi di appropriazione indebita.
3. - Con il ricorso presentato
nell'interesse di (C) viene, preliminarmente, impugnata anche l'ordinanza resa
il 10.7.2008 con cui il giudice ha dichiarato inammissibili le richieste di
applicazione della pena - per i reati contestati ai capi P1) e P3) - e di
giudizio abbreviato - per il reato di appropriazione indebita di cui al capo P2)
- avanzate dall'imputato, ritenendo incompatibili le due diverse istanze di
definizione del procedimento.
In ogni caso, il ricorrente ha
eccepito la nullità della sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p. - anche in
relazione al reato di cui al capo P2) -, sostenendo che la richiesta di
applicazione concordata della pena per tutti i reati sarebbe stata una scelta
'obbligata' dal rigetto, illegittimo, dell'istanza di giudizio abbreviato.
Infine, con l'ultimo motivo
censura la medesima sentenza per inosservanza dell'art. 129 c.p.p.,
limitatamente all'ipotesi dell'appropriazione indebita, rilevando
l'insussistenza del reato.
4. - Ha proposto ricorso per
cassazione anche la società (X), per mezzo del suo difensore di fiducia,
deducendo l'erronea qualificazione giuridica del fatto. Dopo aver premesso che
alla società è stato contestato l'illecito amministrativo di cui all'art. 25
comma 3 d.lgs. 231 del 2001 dipendente dal reato di corruzione commesso
dall'amministratore delegato, (D), nei confronti di (E), dipendente dell'ufficio
tecnico di (W), al fine di ottenere commesse industriali relative all'impianto
di Wafa, in Libia, si assume che la sentenza ha erroneamente ritenuto che (E)
rivestisse la qualifica di pubblico ufficiale, presupposto indefettibile per la
configurabilità del reato di cui all'art. 321 c.p. - contestato
all'amministratore delegato - e per poter ipotizzare lo stesso illecito
amministrativo a carico della società. In realtà, secondo la ricorrente il
presunto corrotto sarebbe un dipendente di una società per azioni, con capitale
detenuto interamente da (U) s.p.a., svolgente attività d'impresa in regime di
diritto privato, a cui non si applica né la legge quadro in materia di appalti
pubblici, né la normativa in materia di appalti pubblici di pubbliche forniture,
pertanto estranea a pubbliche funzioni. Si rileva come la commessa relativa alla
fornitura di tubi per la costruzione di un impianto presso il sito di Wafa è
consistita nell'esercizio di una comune attività imprenditoriale, regolata
interamente da strumenti di diritto privato. D'altra parte, anche prendendo in
esame la collocazione e i poteri di (E) nell'ambito della (W) deve comunque
escludersi la qualifica di pubblico ufficiale, non avendo alcuno dei poteri
autoritativi sintomatici di tale qualifica, né poteri deliberativi.
Infine, si esclude che possa
ritenersi la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo a (E), in
quanto non è rinvenibile alcuna finalità diretta al conseguimento di interessi
pubblici.
5. - Con il ricorso proposto
dalla società (Y), tramite il difensore di fiducia, si lamenta l'errore
contenuto nel dispositivo della sentenza impugnata là dove indica la somma da
confiscare in € 325.000,00 ricomprendendovi anche la sanzione pecuniaria di €
42.000,00, già indicata nello stesso dispositivo. In questo modo non sarebbe
stato correttamente ratificato l'accordo delle parti.
Con un secondo motivo la
società ricorrente chiede l'annullamento della sentenza nella parte in cui ha
pronunciato la condanna alle spese e onorari in favore delle parti civili
costituite. Si assume, infatti, che nel processo nei confronti degli enti di cui
al d.lgs. 231/2001 non è prevista la possibilità di costituzione di parte
civile.
6. - Nella sua requisitoria
scritta il procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi
di (A), di (B) e di (C), nonché quello presentato nell'interesse della società
(X).
Per quanto riguarda il ricorso
della (Y), il procuratore generale ha ritenuto infondato il motivo con cui la
società censura la sentenza per avere ritenuto ammissibile la costituzione delle
parti civili, mentre ha chiesto che sia accolta l'istanza di correzione del
dispositivo della sentenza in relazione alla somma oggetto di confisca.
7. - I difensori di (A), (B) e
(C) hanno presentato memorie difensive con cui hanno replicato alla requisitoria
scritta del procuratore generale; lo stesso hanno fatto i difensori delle due
società.
Nell'interesse delle parti
civili costituite, (U) s.p.a. e (V) s.p.a., è stata depositata un'articolata
memoria difensiva per sostenere l'ammissibilità della costituzione di parte
civile nel processo a carico degli enti di cui al d.lgs. 231/2001, proponendo in
via subordinata, qualora si dovesse ritenere che il sistema del d.lgs. 231/2001
non consenta la costituzione di parte civile, questione di costituzionalità
degli artt. 74 c.p.p. e 185 c.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
Per l'Agenzia delle Entrate,
anch'essa costituitasi parte civile nei confronti di (A), (B) e (C),
l'avvocatura generale dello Stato ha chiesto l'inammissibilità dei ricorso da
questi presentati.
Infine, il difensore di (A) e
(B) ha depositato una sentenza del Tribunale di Milano che, nei confronti di
altri imputati, ha ritenuto prescritti gli stessi reati contestati ai due sopra
menzionati.
MOTIVI DELLA
DECISIONE
8.- I ricorsi presentati
nell'interesse di (A) e (B) sono inammissibili.
8.1. - I motivi dedotti, comuni
ad entrambi i ricorrenti, riguardano la mancata dichiarazione di prescrizione
dei reati.
Sotto un primo profilo si
lamenta che il G.u.p. non abbia rilevato l'estinzione parziale per prescrizione
del reato di appropriazione indebita intervenuta dopo l'accordo tra le parti e
prima della sentenza di patteggiamento, con riferimento ad alcune condotte.
Preliminarmente, deve
confermarsi il più recente orientamento della Cassazione, che esclude che con il
'patteggiamento' l'imputato rinunci alla prescrizione, con conseguente
impossibilità di farla valere quando sia maturata prima della sentenza ex art.
444 c.p.p. La rinuncia alla prescrizione presuppone, ai sensi dell'art. 157
c.p.p., così come novellato dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, una
dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti,
sicché la domanda di patteggiamento non può considerarsi una implicita rinuncia
alla prescrizione, anche perché lo stesso art. 444 comma 2 c.p.p. prevede
l'ipotesi che il giudice prosciolga per una delle cause previste dall'art. 129
c.p.p., in cui rientra anche il caso dell'estinzione del reato per prescrizione.
Il limite temporale per rilevare tale causa di estinzione del reato - così come
una delle altre ipotesi di proscioglimento previste dall'art. 129 c.p.p. - è
costituito dalla verifica cui è tenuto il giudice ai sensi dell'art. 444 comma 2
c.p.p.
Tuttavia, occorre considerare
che il giudice del patteggiamento riscontra l'eventuale esistenza di una delle
cause di non punibilità attraverso una ricognizione allo stato degli atti, che
può condurre a una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.
soltanto se le risultanze disponibili rendano palese l'obiettiva esistenza di
una di queste cause, indipendentemente dalla valutazione compiuta dalle parti e
senza la necessità di alcun approfondimento probatorio e di ulteriori
acquisizioni (in questi termini, Sez. un., 25 novembre 1998, n. 3, Messina). Per
quanto riguarda la prescrizione, il giudice è tenuto a dichiararla quando
accerta l'avvenuto decorso del termine stabilito per il reato enunciato nel capo
di imputazione, ma il controllo che deve operare non deve implicare alcun tipo
di accertamento, dovendo la prescrizione risultare dagli atti.
Nel caso in esame, invece, per
rilevare la prescrizione parziale, così come dedotta dai ricorrenti, il giudice
avrebbe dovuto procedere ad accertamenti di fatto non compatibili con il rito
speciale di cui all'art. 444 c.p.p.
Così, riguardo alla posizione
di (A) deve rilevarsi che le date dei bonifici costituenti le condotte
appropriative, cui fanno riferimento i ricorrenti per sostenere la intervenuta
prescrizione parziale, non sono nemmeno menzionate nel capo di imputazione, né
indicate nella sentenza; in ordine alla posizione di (B), per il quale si assume
l'intervenuta prescrizione anche del reato associativo, l'accertamento della
estinzione dei reati viene dedotta nello stesso ricorso attraverso una serie di
dati di fatto e di valutazioni circa il tipo di concorso nei reati il cui
accertamento si rivela del tutto incompatibile con il rito prescelto.
8.2. - Con un distinto motivo i
ricorrenti, inoltre, rilevano che, successivamente alla pronuncia della
sentenza, si sarebbe verificata la prescrizione anche dei residui reati, per cui
chiedono che questa Corte ne dichiari l'estinzione.
A questo proposito si rileva
che una volta richiesta ed ottenuta pronuncia ai sensi dell'art. 444 c.p.p. non
può essere sollevata, con apposito ricorso per cassazione, la questione della
prescrizione, se maturata successivamente, in quanto il procedimento speciale
consensuale è stato già concluso con l'accordo delle parti e con la ratifica di
esso da parte del giudice, sicché sarebbe contraddittorio considerarlo in piedi
ai fini della prescrizione (Sez. III, 17.4.1998, n. 1241, Manovella; Sez. III,
25 giugno 1997, n. 2535, Esposito). In questo caso, infatti, risulta superato il
limite entro cui il giudice è tenuto a verificare la sussistenza delle cause di
non punibilità indicate dall'art. 129 c.p.p.
Peraltro, i ricorrenti hanno
dedotto solo l'intervenuta prescrizione dei reati, senza avanzare alcuna
ulteriore doglianza relativa alla decisione, sicché deve ritenersi che si tratti
di un ricorso apparente, inidoneo a instaurare il rapporto di impugnazione (Sez.
un., 27 giugno 2001, n. 33542, Cavalera). Anche sotto quest'altro profilo il
ricorso deve considerarsi inammissibile.
9. - Il ricorso proposto
nell'interesse di (C) è inammissibile.
9.1. - L'imputato nel suo
ricorso lamenta l'illegittimità dell'ordinanza del 10 luglio 2008, con cui il
G.u.p. del Tribunale di Milano aveva ritenuto inammissibile la richiesta di
giudizio abbreviato per il reato di appropriazione indebita, contestuale
all'istanza di patteggiamento presentata, nella medesima udienza preliminare, in
ordine agli altri reati oggetto di contestazione. Secondo il ricorrente il
giudice ha erroneamente ritenuto l'incompatibilità delle distinte richieste e, a
sostegno della sua tesi, cita un precedente di questa Corte, che ha ritenuto
ammissibile la richiesta di rito abbreviato in relazione ad alcuni dei reati
contestati nel caso in cui l'imputato richieda, per gli altri reati,
l'applicazione della pena concordata (Sez. V, 24 ottobre 2000, n. 4511,
Torello).
Deve, effettivamente,
riconoscersi che vi è compatibilità tra richieste distinte di riti speciali
quando non viene eluso il fine di deflazione processuale di tali giudizi, a
differenza di quanto accade nel caso in cui l'imputato si limiti a presentare
una domanda di giudizio abbreviato solo per alcuni reati, in cui la mancata
definizione del processo, nella sua interezza, rende ingiustificato l'effetto
premiale derivante dallo speciale rito voluto dal legislatore, al fine di
deflazionare il ricorso alla fase dibattimentale per ciascun processo e non per
ciascun reato, come è esplicitamente previsto dall'art. 438 c.p.p., là dove
parla di richiesta di definizione nell'udienza preliminare del processo
riguardante il singolo imputato (così, Sez. II, 27 marzo 2008, n. 20575, Di
Paola; Sez. IV, 5 luglio 2006, n. 30096, Arcari; Sez. I, 19 novembre 1999, n.
380, Favara).
Tuttavia, in questa sede si
deve prescindere dalla legittimità della decisione adottata dal G.u.p. del
Tribunale di Milano, in quanto occorre considerare che le censure rivolte alla
citata ordinanza sono contenute nel ricorso avverso la sentenza di
patteggiamento che ha ratificato l'accordo delle parti, avente ad oggetto anche
il reato di appropriazione indebita: in sostanza, dopo il provvedimento del 10
luglio 2008 (C) ha modificato la sua strategia difensiva, estendendo la
richiesta di 'patteggiamento' al reato di cui all'art. 646 c.p., sicché oggi non
può dolersi di una scelta processuale che egli stesso ha consapevolmente
compiuto.
Né può sostenere che si sia
trattato di una 'scelta obbligata', conseguente all'ordinanza del 2008. E' vero
che l'imputato non avrebbe potuto limitare la definizione anticipata della sua
responsabilità lasciando fuori dalla richiesta di patteggiamento il reato di
appropriazione indebita, perché la richiesta stessa sarebbe stata dichiarata
inammissibile proprio in ragione della mancata definizione integrale del
processo a suo carico (Sez. II, 8 luglio 2010, n. 28696, P.G. in proc. Azzolina;
Sez. I, 12 novembre 2006, n. 6703, P,G. in proc. Ignacchiti); tuttavia, avrebbe
potuto impugnare l'ordinanza del 28 luglio 2008 per abnormità chiedendone
l'annullamento. Tale impugnazione sarebbe stata possibile, in considerazione del
fatto che si trattava di una richiesta di giudizio abbreviato 'incondizionato',
rispetto alla quale il giudice non aveva il potere di rigetto (Sez. I, 7 ottobre
2004, n. 43451, Riccardi; Sez. I, 2 aprile 2004, n. 22287, Petrucci; Sez. I, 2
luglio 2001, n. 30276, Sangani), e che il provvedimento di diniego causava una
stasi processuale dell'udienza preliminare, stasi che nella specie è stata
rimossa proprio dalla determinazione dell'imputato di modificare l'oggetto delle
sue richieste processuali, proponendo per tutti i reati domanda di applicazione
concordata di pena.
9.2. - Con l'altro motivo
proposto il ricorrente lamenta il mancato proscioglimento in sede di
patteggiamento in ordine al reato di cui all'art. 646 c.p., deducendo però non
il vizio di motivazione, ma l'erronea applicazione dell'art. 129 c.p.p.
Al riguardo si osserva che nel
caso in esame non sussiste alcuna ipotesi di violazione di legge, non potendosi
ritenere che il giudice avesse l'obbligo di emettere una sentenza di
proscioglimento, così come assume il ricorrente. Ad escludere la denunciata
violazione dell'art. 129 c.p.p. è sufficiente la constatazione che il giudice ha
motivato, seppure in maniera succinta, la mancanza dei presupposti per la
pronuncia di proscioglimento.
Anche a voler ritenere che il
ricorrente abbia, in realtà, voluto censurare la motivazione della sentenza, si
dovrebbe concludere ugualmente per l'insussistenza del vizio, dal momento che il
giudice ha dato atto dell'avvenuta verifica richiesta dalla legge, escludendo
che ricorrano le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ai sensi
dell'art. 129 c.p.p. (Sez. un., 27 settembre 1995, n. 10372, Serafino).
10. - Il ricorso presentato
nell'interesse della società (X) s.p.a. è inammissibile.
Il problema posto dalla società
ricorrente riguarda i limiti entro cui l'erronea qualificazione giuridica del
fatto, così come prospettata nell'accordo delle parti e recepita dal giudice del
patteggiamento, possa essere fatta valere davanti alla Cassazione, impugnando la
relativa sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
Su questo tema
Tuttavia, in tali casi il
controllo che deve effettuare il giudice di legittimità circa la corretta
qualificazione giuridica ha un ambito necessariamente limitato, riferibile alla
imputazione e alla motivazione della sentenza impugnata.
Nella specie, da quanto
contenuto nella contestazione e da quanto riportato nella sentenza appare
corretta la valutazione compiuta dal giudice di merito, emergendo la descrizione
di fatti rientranti in una serie di condotte corruttive poste in essere
nell'interesse della società ricorrente da parte del suo amministratore, (D), e
nei confronti di soggetti - non solo del dipendente della (W) - appartenenti a
società e imprese 'partecipanti alle gare', quindi coinvolte in un pubblico
servizio, rispetto ai quali deve quanto meno riconoscersi la qualifica di
incaricato di pubblico servizio, anche in considerazione del fatto che il capo
di imputazione menziona espressamente l'aggravante di cui all'art. 319-bis c.p.,
da intendere riferita alla stipulazione di contratti nei quali sia interessata
la pubblica amministrazione. Peraltro, la qualifica di incaricato di pubblico
servizio non determina alcuna ricaduta negativa sull'accordo oggetto del
patteggiamento, in quanto l'art. 25 d.lgs. 231 dei 2001, ai commi 3 e 4, prevede
la medesima sanzione pecuniaria in relazione al reato di corruzione commesso nei
confronti di un pubblico ufficiale ovvero di un incaricato di pubblico
servizio.
La circostanza che i soggetti
cui si riferisce l'imputazione fossero società per azioni non appare
sufficiente, allo stato degli atti, per escludere ogni connotazione
pubblicistica all'attività da questi svolta, tenuto conto che la giurisprudenza
della Cassazione ritiene che la qualità di incaricato di pubblico servizio va
accertata, da parte del giudice di merito, esclusivamente sulla base della
disciplina dell'attività oggettivamente considerata ed indipendentemente dal
fatto che il suo esercizio sia affidato allo Stato o ad altri soggetti pubblici
ovvero a privati.
Il limitato spazio che residua
al giudice per accertare la qualifica giuridica del fatto in sede di
patteggiamento porta a ritenere giustificata la decisione adottata dal G.u.p.
del Tribunale di Milano.
11. - Il ricorso presentato
nell'interesse della società (Y) è fondato.
11.1. - Il rilevato contrasto
tra dispositivo e motivazione della sentenza circa l'importo della confisca può
essere eliminato con la procedura della correzione degli errori materiali.
Dalla sentenza risulta che
l'accordo delle parti prevedeva il pagamento della sanzione pecuniaria di €
42.000,00, nonché la messa a disposizione del prezzo e del profitto del reato in
vista della confisca per € 283.000,00 (di cui € 190.000,00 relativi alla
tangente contestata ed € 93.000,00 pari a circa il 2% della somma dell'appalto
in contestazione), per un importo complessivo di € 325.000,00; nel dispositivo
il giudice, nel ratificare l'accordo, ha riportato correttamente l'ammontare
della sanzione pecuniaria, ma a titolo di confisca ha indicato, erroneamente,
l'importo complessivo di € 325.000,00, che già comprendeva la sanzione
pecuniaria.
Si è trattato di un mero errore
materiale, che deve essere corretto sostituendo l'importo relativo alla confisca
nella misura originariamente indicata nell'accordo, pari cioè a complessivi €
283.000,00.
11.2. - Va accolto anche il
motivo con cui si censura la sentenza per aver condannato, ai sensi dell'art.
444 comma 2 seconda parte c.p.p., la società ricorrente al pagamento delle spese
processuali in favore delle parti civili costituite, (U) s.p.a., (V) s.p.a. e
(W) s.p.a., deducendo la violazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. sul
presupposto che la costituzione delle parti civili non è ammessa nel processo a
carico degli enti.
La questione sull'ammissibilità
della costituzione di parte civile nel processo in cui si accerta la
responsabilità amministrativa della persona giuridica ai sensi del d.lgs. 231
del 2001 deve essere esaminata in termini generali, non condividendosi le
argomentazioni utilizzate dal procuratore generale, secondo cui la costituzione
della parte civile (riv231) sarebbe ammissibile solo nel rito speciale del
patteggiamento. Non si comprende, infatti, per quali ragioni la possibilità di
costituirsi come parte civile sarebbe preclusa nel procedimento ordinario, ma
ammessa unicamente nel procedimento speciale del c.d. patteggiamento, sulla base
di un argomento formale costituito dal richiamo contenuto nell'art. 63 d.lgs.
cit. al titolo II del libro VI del codice di procedura penale. Una simile
differenziazione di disciplina non trova alcuna ragionevole giustificazione.
11.2.1. - Il problema
dell'ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico
degli enti ha dato luogo a interpretazioni contrastanti sia nella dottrina, che
nella giurisprudenza di merito.
In alcuni casi l'esclusione
della parte civile è stata giustificata con riferimento alla natura formalmente
amministrativa della responsabilità prevista nel d.lgs. n. 231/2001, mentre
quanti propendono per la natura sostanzialmente penale di questo tipo di
responsabilità da reato sono favorevoli a riconoscere tale possibilità in capo
alla parte civile. In altri termini, il dibattito sulla questione in oggetto ha
finito per investire il tema della natura della responsabilità degli enti, tema
quanto mai incerto, su cui la giurisprudenza, almeno quella di legittimità, non
si è ancora pronunciata in termini definitivi, mentre la dottrina si è divisa,
proponendo una molteplicità di interpretazioni, che vanno dal riconoscimento
della natura di vera e propria responsabilità penale, alla negazione di essa,
per affermare che si tratti di una responsabilità amministrativa, fino a
ritenere che ci si trovi dinanzi ad una sorta di tertium genus di
responsabilità, diversa dalle tradizionali categorie della responsabilità penale
e amministrativa, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale,
in cui vengono coniugati elementi del sistema penale e amministrativo, nel
tentativo di 'contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle,
ancor più ineludibili, della massima garanzia'.
Sebbene questa Corte si sia
pronunciata, per incidens, sulla natura della responsabilità, ritenendo che si
tratti di un tertium genus (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Brill Rover
s.r.l. ed altro), tuttavia deve ritenersi, condividendo quanto sostenuto da
autorevole dottrina, che lo specifico problema relativo alla ammissibilità della
costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti non dipenda,
in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura della responsabilità prevista
nel d.lgs. 231/2001. La soluzione, infatti, può essere svincolata dal tema
relativo alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che
rischia di diventare una questione meramente nominalistica, per essere
affrontata attraverso l'esame positivo dei contenuti della speciale normativa
che disciplina il processo nei confronti degli enti, vagliandone la
compatibilità con l'istituto codicistico della costituzione di parte civile.
In questo approccio ermeneutico
il punto di partenza non può che essere la constatazione che nel d.lgs. 231/2001
manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione, nel
d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla
persona offesa) porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna
normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha
voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione
codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del
decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell'ente, né ad essa si
fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari,
all'udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero
nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli
previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla
parte civile e sulla persona offesa.
Peraltro, accanto alla
materiale 'assenza' di riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs.
231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di
escludere questo soggetto dal processo. Da un lato, vi è l'art. 27 che nel
disciplinare la responsabilità patrimoniale dell'ente la limita all'obbligazione
per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle
obbligazioni civili; dall'altro lato, appare particolarmente significativa la
regolamentazione del sequestro conservativo, di cui all'art.
11.2.2. - Già queste
osservazioni, che fanno leva sull'interpretazione letterale delle norme che
disciplinano il processo a carico degli enti, evidenziano la scelta, compiuta
dal legislatore del 2001, favorevole ad escludere la parte civile e dimostrano
come il tentativo di proporre un'interpretazione che porti ad applicare, in via
estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione della
parte civile si presenti di difficile attuazione, soprattutto perché manca una
vera e propria 'lacuna normativa' da colmare. L'ampliamento della competenza del
giudice penale ad occuparsi anche dell'azione civile avrebbe dovuto avvenire
attraverso una esplicita previsione di legge e a questo proposito si è rilevato,
da parte di attenta dottrina, che l'art. 111 Cost., così come modificato,
pretende il rispetto del principio di stretta legalità quale 'criterio direttivo
di tutta la disciplina del processo penale', sicché non sarebbe ammissibile
ricorrere ad una interpretazione analogica degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.
Tuttavia, parte della
giurisprudenza di merito e della dottrina ritiene che sia possibile applicare
direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di
cui all'art. 34 d.lgs. 231/2001, sul presupposto della piena compatibilità
dell'istituto della costituzione di parte civile nel processo a carico degli
enti.
Invero, il tentativo di
applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due disposizioni menzionate non
tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l'ente viene chiamato a
rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio. Il reato
che viene realizzato dai vertici dell'ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo
uno degli elementi che formano l'illecito da cui deriva la responsabilità
dell'ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato
rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della
persona fisica e alla sussistenza dell'interesse o del vantaggio che l'ente deve
aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o
subordinato. In altri termini, all'accertamento del reato commesso dalla persona
fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di
questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del
vantaggio derivato all'ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità
si estende dall'individuo all'ente collettivo, in presenza cioè di criteri di
collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio
dell'altro, che risponde autonomamente dell'illecito 'amministrativo'. Ne deriva
che tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica,
ma semplicemente lo presuppone.
Di conseguenza, se l'illecito
amministrativo ascrivibile all'ente non coincide con il reato, ma costituisce
qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa
farsi un'applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un
espresso ed esclusivo riferimento al 'reato' in senso tecnico. L'ostacolo
maggiore all'applicazione diretta dell'art. 185 c.p. nella disciplina del
processo ex d.lgs. 231/2001 - non importa se attraverso una interpretazione
estensiva o analogica - è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed
applicativi della norma citata, che si riferisce esclusivamente ai danni
cagionati dal reato, nozione quest'ultima che non può coprire anche l'illecito
dell'ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo,
anche l'art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di
chiusura contenuta nell'art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la
costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti
dall'art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal
reato.
In sostanza, l'impossibilità di
procedere all'applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per
entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato
dalla commissione di un reato, non dell'illecito amministrativo.
11.2.3. - Queste stesse
obiezioni valgono anche nei confronti della tesi sostenuta nella articolata e
approfondita memoria presentata nell'interesse di (U) s.p.a. ed (V) s.p.a. che,
riprendendo argomentazioni proposte da un'autorevole dottrina, ritiene
ammissibile la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti,
assumendo che la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs. 231/2001 è,
comunque, fonte di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c.,
sicuramente azionabile in sede civile e poiché costituisce principio generale
che anche in sede penale vi sia la possibilità di azionare tali pretese in base
agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., una volta che la competenza del giudice penale
è stata estesa all'illecito dell'ente non vi sarebbero ragioni per introdurre
una diversa disciplina in materia, soprattutto considerando che l'ente risponde
per fatto proprio e in misura del tutto autonoma rispetto alla condotta della
persona fisica. Il ricorso all'art. 185 c.p. viene giustificato sia per la
sostanziale natura civilistica della norma, che ne consente l'applicazione anche
analogica, sia per l'inscindibile collegamento della responsabilità dell'ente
con l'illecito penale, situazione questa che legittima l'ingresso nel processo a
carico dell'ente delle disposizioni in materia di costituzione della parte
civile.
Invero, tanto l'inquadramento
dell'illecito dell'ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043
c.c., quanto il riconoscimento che quella dell'ente sia una responsabilità per
fatto proprio, non paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo
debba trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte civile, in
mancanza di dati normativi positivi che autorizzino una tale conclusione.
Sotto un primo profilo, si
osserva come la gestione dell'azione civile nel processo penale, lungi
dall'essere un principio generale dell'ordinamento, si presenti in realtà sotto
specie di una deroga al principio della completa autonomia e separazione del
giudizio civile da quello penale, affermato nel codice del 1988 (in particolare
dall'art. 75 c.p.p., espressione del c.d. favor separationis), tanto che le
disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale
dell'azione civile sono da considerare di natura quasi eccezionale. Sicché deve
convenirsi con chi, in assenza di ogni esplicito riferimento ad azioni diverse
da quella penale e in mancanza di una qualunque base normativa al riguardo,
esclude che nel processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un'azione
civile nei confronti dell'ente: per ritenere che il giudice competente a
conoscere l'illecito dell'ente sia anche competente a conoscere i danni
derivanti da esso sarebbe stata necessaria una previsione espressa.
Inoltre, la scelta del
legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a
carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il
profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante
dall'illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato.
Non convince la tesi, sostenuta
nella memoria depositata dal difensore dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a.,
secondo cui 'il danno prodotto dall'illecito amministrativo è pur sempre
cagionato dal medesimo fatto che è reato per la persona fisica e illecito per
l'ente', sicché si tratterebbe di un 'fatto di entrambi' i soggetti con la
conseguenza che anche l'ente 'risponde dei danni causati dal suo contributo
concorsuale al reato'.
In questo modo si finisce per
sostenere che l'esercizio dell'azione civile nel processo disciplinato dal
d.lgs. 231/2001 riguardi il danno derivante dal reato, attribuendolo
indifferentemente alla persona fisica e all'ente e negando,
contraddittoriamente, che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto
proprio, che trova la sua ragione nella commissione di un illecito complesso, in
cui il reato è solo uno degli elementi.
Invece, va ribadita l'autonomia
dell'illecito addebitato all'ente, dovendo distinguersi la sua responsabilità da
quella della persona fisica e riconoscendo che l'eventuale danno cagionato dal
reato non coincide con quello derivante dall'illecito amministrativo di cui
risponde l'ente.
In realtà, deve convenirsi con
quella dottrina che, molto acutamente, ha evidenziato come 'i danni riferibili
al reato sembrano esaurire l'orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una
pretesa risarcitoria', escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti
direttamente dall'illecito dell'ente. E' stato posto in risalto come non possano
essere considerati danni prodotti dall'illecito amministrativo quelle
ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei
creditori e dei dipendenti dell'ente per effetto dell'applicazione delle
sanzioni a seguito dell'accertata responsabilità dell'ente, in quanto
l'eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua causa
diretta nell'illecito amministrativo; peraltro, anche i danni subiti dai soci e
dai terzi incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva contenuta nell'art. 11
lett. v) della legge delega n. 300/2000, a cui non è stata data attuazione, non
erano quelli derivanti direttamente dall'illecito amministrativo, ma
costituivano anch'essi ricadute negative derivanti dall'applicazione delle
sanzioni, pecuniarie o interdittive.
Se non è ipotizzabile
l'esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e
diretta dell'illecito amministrativo allora 'l'ostinato silenzio' del
legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio
per far valere le pretese risarcitone assume un significato ancor più preciso,
apparendo del tutto ragionevole l'esclusione della parte civile dalla cerchia
dei protagonisti del processo a carico dell'ente.
In ogni caso, anche a voler
ammettere, in astratto, che un danno possa derivare direttamente dall'illecito
amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già illustrate,
ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel
processo ex d.lgs. 231/2001.
11.2.4. - Un altro argomento
utilizzato nella memoria difensiva dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a. a sostegno
dell'ammissibilità della costituzione della parte civile nel processo degli enti
fa leva sulle disposizioni del d.lgs. 231/2001, che pongono le premesse per il
soddisfacimento delle pretese risarcitone e restitutorie della persona offesa,
sottolineando come la ratio del decreto sia quella di tutelare l'interesse dei
danneggiati dal fatto illecito, al pari dell'interesse alla punizione dell'ente.
Il riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17, che consentono all'ente di
ottenere l'esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e
interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima,
nonché all'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di
profitto che può essere restituita al danneggiato.
A questo proposto si osserva,
preliminarmente, che dalla formulazione inequivocabile delle disposizioni
menzionate si ricava che il danno cui si riferiscono è quello derivante dal
reato e non quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente,
sicché le argomentazioni possono essere rovesciate e sostenere che il
legislatore, ancora una volta, ha escluso la configurabilità di conseguenze
dannose derivante dall'illecito amministrativo, limitandosi a prevedere 'sconti'
di sanzioni collegate esclusivamente a forme di 'reintegrazione' di danni da
reato.
In ogni caso, è stato notato
come il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un
sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. 'ravvedimento
operoso' è circostanza del tutto neutra rispetto al problema dell'ammissibilità
della costituzione di parte civile, come è dimostrato dalla disciplina del
processo penale a carico di imputati minorenni, in cui è prevista la possibilità
di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e
nello stesso tempo è esclusa l'ammissibilità dell'esercizio dell'azione civile
nel processo penale (art. 10).
11.2.5. - In conclusione deve
ritenersi che nel processo a carico dell'ente, così come disciplinato nel d.lgs.
231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile.
Questa deroga rispetto a quanto
previsto nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto con gli
artt. 3 e 24 Cost., così come ritiene il difensore delle società (U) s.p.a. e
(V) s.p.a. nella richiesta subordinata della sua memoria.
La 'disparità' di trattamento
con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da
adeguata giustificazione in considerazione dell'illecito oggetto
dell'accertamento nel processo a carico dell'ente che, prescindendo dalla
definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo
genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui,
come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali
dell'illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per
le ragioni che si sono sopra illustrate, la costituzione della parte civile.
Anche il dedotto contrasto con
l'art. 24 Cost. appare manifestamente infondato. Innanzitutto deve escludersi
che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus
processus; inoltre, nel processo ex d.lgs. 231/2001 la posizione del danneggiato
è comunque garantita, in quanto oltre a poter tutelare immediatamente i propri
interessi davanti al giudice civile, può citare l'ente come responsabile civile
ai sensi dell'art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità
penale dell'autore del reato, commesso nell'interesse nella persona giuridica, e
lo può fare - normalmente - nello stesso processo in cui si accerti la
responsabilità dell'ente.
Invero, un'analoga questione si
è posta in passato, seppure in un contesto diverso. La Corte costituzione con la
sentenza n. 60 del 1996, modificando una sua precedente giurisprudenza (sentenze
n. 106 del 1977 e n. 78 del 1989), ebbe a dichiarare l'illegittimità
costituzionale dell'art. 270 cod. pen. mil. pace che, nei processi di competenza
del giudice militare, escludeva la proponibilità dell'azione civile per le
restituzioni e il risarcimento dei danni.
Tuttavia, in quella decisione
il giudice delle leggi ha ritenuto irragionevole l'esclusione della parte civile
dal processo, valutando come non giustificabili le differenze di disciplina tra
i due modelli processuali, il cui oggetto di accertamento era comunque
costituito, in entrambi i casi, da reati, sicché non vi era ragione perché il
giudice militare non potesse conoscere anch'egli degli interessi civili nascenti
da questi. Inoltre, l'illegittimità costituzionale dell'art. 270 cod. pen. mil.
pace è stata affermata perché rendeva impossibile l'inizio immediato dell'azione
per le restituzioni ed il risarcimento del danno: infatti, tale norma, al
secondo comma, prevedeva la sospensione obbligatoria del giudizio civile fino
all'esito di quello penale militare, realizzando in questo caso l'ingiustificata
disparità di trattamento raffrontata con la corrispondente disciplina del
processo penale ordinario.
Nel caso in esame, invece, la
situazione è profondamente diversa, in quanto la deroga in ordine alla posizione
della parte civile nel processo a carico degli enti trova ampia giustificazione
con riferimento alla diversa regiudicanda oggetto di accertamento, cioè
l'illecito amministrativo, rispetto all'oggetto del procedimento ordinario;
inoltre, nella specie trova piena applicazione l'art. 75 c.p.p., che consente
l'esercizio immediato dell'azione civile nella sede propria, senza alcuna
sospensione sino all'esito del giudizio penale.
12. - Da quanto precede
consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio,
limitatamente alla condanna della (Y) s.p.a. alla rifusione delle spese in
favore di (U) s.p.a, (V) s.p.a. e (W) s.p.a., erroneamente ammesse a costituirsi
come parti civili nel processo nei confronti della stessa società; sempre in
accoglimento del ricorso della (Y) s.p.a. deve disporsi la rettifica della
sentenza, così come indicato nel dispositivo; all'inammissibilità degli altri
ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali
e ciascuno a versare una somma di denaro in favore della cassa delle ammende,
somma che si ritiene equo determinare in € 1.500,00, in considerazione delle
questioni trattate.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la
sentenza impugnata limitatamente alla condanna della (Y) s.p.a. alla rifusione
delle spese in favore delle parti civili;
rettifica altresì la sentenza
impugnata nel senso che ove in dispositivo si legge 'confisca della somma di
euro 325.00,00' deve invece leggersi 'confisca della somma di euro
283.000,00'.
Dichiara inammissibili gli
altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1.500,00 ciascuno in favore della cassa delle
ammende. |
estratto da: http://www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=5910
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